ore 16:07 ROBIN WILLIAM “VISTO DA VITTORIO ZUCCONI” —COME SAPETE SIA DEL “NOSTRO” ROBIN COME DI QUALUNQUE DI NOI, “ROBIN E’ ALTRO”—MA SE LA RETORICA E’ L’ARTE DEL BEL PARLARE E DEL BELLO SCRIVERE, VITTORIO ZUCCONI MERITA UN PIENO OTTO PERCHE’ E’ RIMASTO “SUL FILO DI LANA” SENZA CADERCI DENTRO—TUTTE LE VOLTE CHE SI PARLA DI “DEPRESSIONE” E DI SUICIDIO /// NON SI DICE MAI NIENTE DELLA SCONFINATA SOLITUDINE CHE LE PERSONE INTORNO A ROBIN SONO RIUSCITE -NON CERTO PER “COLPA” LORO, MA FORSE PER LA LORO “LIMITATEZZA”—SONO RIUSCITE A CREARGLI INTORNO —RIGIDA COME UNA FORTEZZA.—DA CUI —E NON PAIA ASSURDO —-L’UNICO GRIDO DI VITA E’ “SCAPPARE”—CHIARA

Prima
Si impicca Robin Williams l’attimo fuggente di Hollywood
NUOVA TRAGEDIA NEL CINEMA, AVEVA 63 ANNI E ERA DEPRESSO
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
AVOLTE ti muore un amico carissimo che non avevi mai conosciuto e ti fa arrabbiare e piangere, perché sembra un tradimento personale. Uno come Robin Williams, per esempio, l’uomo con troppe qualità, che aveva gli occhi troppo azzurri, il talento troppo grande.
Robin Williams vinse l’Oscar nel 1998 SILVIA BIZIO E DAVID MARK ALLE PAGINE 18 E 19
WASHINGTON
CHE aveva la paura di vivere troppo profonda perché potesse sopravviverle, che aveva “il cervello di Einstein e il carattere di Paperino” come scrisse di lui il critico Roger Ebert. Ecco, è come che se nella casa di Tiburon, lo squalo, sobborgo stupendo a nord di San Francisco, fosse morto Paperino, quando tutti i bambini sanno che Paperino non può morire. Wlliams era un cartone animato che disegnava e ridisegnava continuamente se stesso, senza davvero piacersi mai, fino a cancellarsi nel mattino di lunedì scorso. Perché uno come lui che ha saputo fare cose stupende, come il papà omosessuale nel remake del Vizietto, Piume di Struzzo, come il clochard del Re Pescatore , come il professor Keating in L’Attimo Fuggente, come l’aviere Cronauer in Good Morning Vietnam , fosse poi perfettamente capace di sprecarsi in filmacci di terz’ordine, di girare tre film contemporaneamente è soltanto il prodotto di un talento troppo enorme per stare chiuso dentro un uomo solo.
Come tutti i grandi esibizionisti, anche Robin era un bambino timidissimo che cercava di nascondersi dietro la più ovvia delle maschere, l’imitazione, cominciata a scuola impersonando la madre e la nonna. Neppure oggi, mentre da Obama a tutto quel mondo dello spettacolo che tritura i vivi e poi beatifica i morti perché non danno più ombra a nessuno, c’è chi ha davvero capito chi fosse Robin Williams, il figlio di un dirigente della Ford Motors nato a Chicago nel 1951. Probabilmente, neppure lui. Racconta uno dei suoi compagni sul set di Un Maggiordomo alla Casa Bianca che Robin sapeva diventare il presidente Eisenhower, l’austero, algido generale, e poi, spente le luci, ritrasformarsi in Mork, l’alieno piovuto sulla Terra nella serie TV Mork and Mindy che lo lanciò, fare un perfetto Richard Nixon, parlare come Paperino, assumere la sonorità del genio di Aladino. E fermarsi a lungo a chiacchierare con il personale di scena, quegli gnomi senza i quali non si farebbe mai un film, ma che le stelle di Hollywood neppure vedono.
Erano, oggi è facile capirlo, esorcismi, rumore per non ascoltare quella voce che “dal fondo del precipizio ti chiama e ti sussurra dai, salta… salta…” e “ti aspetta, perché la voce è paziente”, come raccontò alla tv ABC nel 2006, poco dopo essere uscito, o rientrato, o riuscito da quella clinica di riabilitazione per alcolisti e tossicodipendenti nel Minnesota che regolarmente, e inutilmente frequentava. Anche per questo suo essere indifeso, nudo di ogni ipocrisia, incapace di mentire pur nella quotidiana menzogna della sua vocazione, era diventato nostro amico. Non aveva niente da nascondere perché non avrebbe saputo dove nascondersi.
La sua vita privata, passata da due divorzi, una figlia, due figli e arrivata alla terza moglie (“E poi mi chiedete perché faccio dei film orrendi, per i soldi, man, per i soldi”) era apparentemente limpida come l’azzurro ereditato dal cocktail genetico franco-tedescoirlandese- gallese-scozzese — scozzese come la signora Doubtfire, perfetta rappresentazione del suo zelighismo reale — dei suoi antenati e dalla bellissima madre, una ex modella di New Orleans.
Tutti sapevano della sua battaglia con la cocaina e soprattutto con l’alcol che per 20 anni era riuscito a non toccare fino a una sera in un villaggio dell’Alaska, dove era per un film. “Un goccio, soltanto un goccio per scaldarmi” si disse. “Dal freddo?”, gli chiese l’intervistatrice del “Guardian”, “Dalla solitudine”, rispose Robin. Era stato un insegnante alla Julliard School di New York, dove lo avevano accolto con una rarissima borsa di studio completa, a invitarlo a diventare un comico, perché solo nella infinita tavolozza di quello che passa per “commedia” forse avrebbero trovato il bacino alluvionale dove espandere il suo talento. E se magnifico, dicono gli esperti, è stato il suo lavoro in parti tragiche o soltanto patetiche che gli valsero un Oscar come lo psicoteraputa di Will Hunting — Genio Ribelle , e se il “Capitano! Mio Capitano”, l’invocazione finale dell’ Attimo Fuggente è il grido ripetuto in milioni di tweet da due giorni, è stata la potenza delle risate che lui sapeva scatenare a trafiggere due generazioni. Jamie Masada, il creatore della “Laugh Factory” uno dei primi club per comici a Los Angeles, dunque un impresario che ha vissuto tutta la vita immerso nelle battute e nei monologhi, racconta di essersi sentito male dal troppo ridere quando uno sconosciuto Robin Williams andò a chiedergli di apparire.
E’ stato, dunque, una delle più belle, e tenere incarnazioni anche dell’America, almeno di quella che piace anche a coloro che credono di odiarla, più feroce nella critica al “non sense” del Vietnam dei truculenti Coppola, Kubrick e Stone, nell’aviere Cronauer, più sensibile al destino dei reietti, nella meravigliosa serie di recite benefiche accanto a Bill Crystal o Woopie Goldberg, più tagliente nella smitizzazione e nell’autoironia, quando inventò la definizione di “Obama, un Kennedy abbronzato” goffamente copiata da altri. Capace di stare per anni, anche scherzando con lui, accanto alla carrozzella del suo carissimo Superman spezzato, Christopher Reeves.
Non devono soprendere il pudore, la delicatezza dei saluti e dei rimpianti che i suoi colleghi di lavoro, e Obama stesso, oggi gli dedicano, come Chevy Chase, un altro immenso talento comico dissipato — e anche lui prigioniero della depressione clinica — che lo ha ringraziato semplicemente “per avermi fatto ridere”. Avrebbe fatto piacere a Robin questa sobrietà, a lui che aveva denunciato pubblicamente “l’industria del lutto” che si scatena attorno alla morte delle celebrità e delle stelle. L’ultimo messaggio arrivato da Robin quattro giorni prima di morire è stata una foto su Instagram di auguri per il venticinquesimo compleanno della figlia, Zelda Williams, attrice anche lei: “Auguri Zelda, sei una donna adesso, ma per me resterai sempre la bambina di cinque anni”. Lo accompagnava una foto di Robin con lei in braccio. Goodnight, adorabile Paperino.
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