ORE 23:32 UN INTERESSANTE- PER CHIARA MOLTO —INTERVISTA A MAHOMOUND HAWARI, UN ARCHEOLOGO PALESTINESE NATO IN ISRAELE E CHE ORA INSEGNA AD OXFORD—IN VERITA’ IL SUO INTERESSE E’ L’ARCHEOLOGIA ISLAMICA DI CUI TROVA REPERTI NELLA ZONA EBRAICO-PALESTINESE, FINO AD ORA MISCONOSCIUTI—/// CI SPIEGA COME L’ARCHEOLOGIA IN ISRAELE BASATA SULLA BIBBIA SIA STATA UN’ARMA PER GIUSTIFICARE IL LORO INSEDIAMENTO—CI PARLA DELL’EVOLUZIONE DELLA NUOVA ARCHEOGIA ISRAELIANA —E DELL’ESTREMA DIFFICOLTA’ DI COSTRUIRE UN’ARCHEOLOGIA PALESTINESE CHE SIGNIFICA UNA IDENTICA’ RADICATA PROFONDAMENTE NEL TERRITORIO, PERCHE’ GLI STESSI PALESTINESI (DEL RESTO CON BEN ALTRI PROBLEMI)—SI SONO CONVINTI DELLA PROPAGANDA ISRAELIANA CHE L’UNICO POPOLO CHE HA DIRITTO A QUELLA TERRA SONO GLI EBREI—

UNA CITTÀ n. 186 / 2011 luglio-agosto 2011 

Intervista a Mahmoud Hawari
realizzata da Barbara Bertoncin e Enrica Casanova

 

Mahmoud Hawari

 

MAHAMOUD HAWARI DAL SUO SITO SU FACEBOOK

 

 

questa e’ una delle bellissime foto che mette sul suo profilo, che spero di ricordarmi di mostrarvi

Si tratta della tradizionale cultura dell’ulivo, a ovest di Ramallah


L’ARMA DELL’ARCHEOLOGIA
Anche tra i giovani archeologi israeliani iniziano a sorgere perplessità su un’archeologia che parte dalla narrazione biblica per trovare conferme sul campo; le critiche della Scuola di Copenhagen e il mito di Masada; la speranza che anche i palestinesi si appassionino al loro patrimonio. Intervista a Mahmoud Hawari.

Mah­moud Ha­wari, ar­cheo­lo­go, in­se­gna pres­so la fa­col­tà di Stu­di Orien­ta­li del­l’U­ni­ver­si­tà di Ox­ford. L’in­ter­vi­sta è sta­ta rac­col­ta nel­l’am­bi­to del ci­clo di con­fe­ren­ze or­ga­niz­za­to dal Cen­tro In­ter­di­par­ti­men­ta­le di Stu­di Bal­ca­ni­ci e In­ter­na­zio­na­li di Ve­ne­zia.

Che co­sa si­gni­fi­ca es­se­re un ar­cheo­lo­go in Pa­le­sti­na e che ruo­lo gio­ca l’ar­cheo­lo­gia nel­l’i­den­ti­tà pa­le­sti­ne­se?

Beh, pri­ma di tut­to so­no un ar­cheo­lo­go, po­trei es­se­re un ar­cheo­lo­go ovun­que nel mon­do, in Ita­lia, in Tur­chia, in Egit­to, in Iraq o in Afri­ca. Vo­glio di­re che non mi so­no ap­pas­sio­na­to al­l’ar­cheo­lo­gia per ra­gio­ni po­li­ti­che. Fin da quan­do ero un gio­va­ne stu­den­te, mi so­no sem­pre in­te­res­sa­te le an­ti­chi­tà, le vec­chie mo­ne­te, i fram­men­ti di va­si… Al­l’e­po­ca non pen­sa­vo nem­me­no al­l’i­den­ti­tà o al­la po­li­ti­ca, al­l’ap­par­te­nen­za al­la ter­ra, al pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le o al­tro. Ero sem­pli­ce­men­te in­te­res­sa­to al­l’ar­cheo­lo­gia, pun­to. La si­tua­zio­ne si è com­pli­ca­ta quan­do mi so­no iscrit­to al­l’u­ni­ver­si­tà.Es­sen­do un israe­lia­no-pa­le­sti­ne­se (so­no na­to nel 1948 in Israe­le) ho in­fat­ti fre­quen­ta­to un’u­ni­ver­si­tà ebrai­ca.
Ec­co, per un pa­le­sti­ne­se stu­dia­re ar­cheo­lo­gia in un’u­ni­ver­si­tà ebrai­ca rap­pre­sen­ta de­ci­sa­men­te una sfi­da, per­ché bi­so­gna con­ti­nua­men­te scen­de­re a pat­ti con la pro­pa­gan­da sio­ni­sta. Per esem­pio, il pe­rio­do ro­ma­no di­ven­ta “l’ar­cheo­lo­gia del po­po­lo ebrai­co nel pe­rio­do ro­ma­no”, e co­sì per gli al­tri pe­rio­di sto­ri­ci: tut­to è con­cen­tra­to e fo­ca­liz­za­to sul­la pre­sen­za ebrai­ca nel­l’ar­cheo­lo­gia. Ec­co, que­sto era mol­to di­stur­ban­te. Tan­to più che l’ar­cheo­lo­gia ve­ni­va co­stan­te­men­te me­sco­la­ta con la po­li­ti­ca e l’i­deo­lo­gia.In­som­ma era im­pos­si­bi­le stu­dia­re l’ar­cheo­lo­gia co­me una sem­pli­ce ma­te­ria, sen­za che al­tre istan­ze ve­nis­se­ro coinvolte.​Comunque, ho con­clu­so il mio pri­mo cor­so di stu­di e ho con­se­gui­to la lau­rea in ar­cheo­lo­gia. Ave­vo an­che co­min­cia­to il ma­ster al­l’u­ni­ver­si­tà ebrai­ca, ma ho ben pre­sto rea­liz­za­to che sa­rei do­vu­to an­da­re al­tro­ve, so­prat­tut­to per­ché vo­le­vo spe­cia­liz­zar­mi in ar­cheo­lo­gia isla­mi­ca.
Co­sì mi so­no tra­sfe­ri­to a Lon­dra, do­ve ho ot­te­nu­to il ma­ster e poi il dottorato.​Per ve­ni­re al­la do­man­da, pos­so di­re, in ba­se al­l’e­spe­rien­za che ho vis­su­to, che es­se­re ar­cheo­lo­go, per una per­so­na con il mio re­tro­ter­ra, vuol di­re es­se­re co­stret­ti a mi­su­rar­si con tut­ta una se­rie di te­ma­ti­che, co­me il rap­por­to tra l’ar­cheo­lo­gia e la po­li­ti­ca, tra l’ar­cheo­lo­gia e l’i­den­ti­tà, tra l’ar­cheo­lo­gia e il pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le.
Un ar­cheo­lo­go pa­le­sti­ne­se non può pre­scin­de­re da que­sti te­mi. Se fos­si vis­su­to in al­tri po­sti, co­me in Ita­lia per esem­pio, do­ve pu­re vi so­no al­cu­ni aspet­ti di in­trec­cio tra po­li­ti­ca e ar­cheo­lo­gia, sa­reb­be sta­to di­ver­so.
Di­ce­vi che l’ar­cheo­lo­gia in Israe­le è di­ver­sa dal­l’ar­cheo­lo­gia in Pa­le­sti­na. Puoi spie­ga­re?
In ef­fet­ti sia­mo di fron­te a una dop­pia real­tà. Ab­bia­mo la real­tà israe­lia­na, do­ve gli ar­cheo­lo­gi ope­ra­no al­l’in­ter­no del­la lo­ro ­realtà po­li­ti­ca, geo-po­li­ti­ca e ideo­lo­gi­ca. Mi spie­go, lo Sta­to di Israe­le è il ri­sul­ta­to del mo­vi­men­to sio­ni­sta: un po­po­lo che cer­ca­va un’i­den­ti­tà, una ter­ra na­zio­na­le, at­tra­ver­so il pro­ces­so del­la co­lo­niz­za­zio­ne ha con­qui­sta­to -e tal­vol­ta com­pra­to- un ter­ri­to­rio e, gra­zie an­che al­le for­ze in­ter­na­zio­na­li, ne ha pre­so il con­trol­lo.
In que­sto sce­na­rio l’ar­cheo­lo­gia ha gio­ca­to un ruo­lo pre­ci­so che è dif­fe­ren­te da quel­lo di mol­ti al­tri po­sti nel mon­do, for­se si­mi­le ad al­tri con­te­sti co­lo­nia­li. Co­mun­que la sua fun­zio­ne è di­ven­ta­ta quel­la di for­ni­re ra­di­ci al po­po­lo ebrai­co.
L’ar­cheo­lo­gia è sta­ta, cioè, chia­ma­ta a rin­for­za­re le con­nes­sio­ni tra il mo­der­no Sta­to e l’I­srae­le an­ti­co che esi­ste nel­le Scrit­tu­re.
Era que­sto il suo ruo­lo prin­ci­pa­le. Per ot­te­ne­re que­sto obiet­ti­vo si è con­cen­tra­ta sui si­ti men­zio­na­ti nel­la nar­ra­zio­ne bi­bli­ca, per po­ter for­ni­re quei sim­bo­li na­zio­na­li e per crea­re una nuo­va nar­ra­zio­ne che le­gas­se gli israe­lia­ni di og­gi al­l’an­ti­co po­po­lo bi­bli­co. Que­sta si è ri­ve­la­ta, col tem­po, un’o­pe­ra­zio­ne pro­ble­ma­ti­ca. A se­gna­la­re l’e­si­sten­za di in­con­gruen­ze non sia­mo sta­ti so­lo noi ar­cheo­lo­gi pa­le­sti­ne­si. Og­gi ci so­no an­che ar­cheo­lo­gi israe­lia­ni, so­prat­tut­to gio­va­ni, che ri­scon­tra­no pro­ble­mi. E vi so­no an­che un cer­to nu­me­ro di stu­dio­si eu­ro­pei e in­ter­na­zio­na­li, sto­ri­ci del­la Bib­bia, teo­lo­gi, sto­ri­ci e an­che ar­cheo­lo­gi, che de­nun­cia­no mol­ti pro­ble­mi in que­sta di­sci­pli­na che si chia­ma “ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca”. I pri­mi so­no sta­ti un grup­po di teo­lo­gi, la co­sid­det­ta “Scuo­la di Co­pe­n­ha­gen”.
Che ti­po di cri­ti­che ve­ni­va­no avan­za­te dal­la Scuo­la di Co­pe­n­ha­gen?
Que­sti in­tel­let­tua­li fa­ce­va­no par­te di una scuo­la di pen­sie­ro che co­min­ciò a cri­ti­ca­re l’u­so del­la nar­ra­zio­ne bi­bli­ca co­me fon­te sto­ri­ca. Tra que­sti, ci so­no stu­dio­si co­me Lem­che, Thomp­son e Kei­th Whi­te­lam, che è un ar­cheo­lo­go bri­tan­ni­co. La con­clu­sio­ne del­le lo­ro ri­cer­che e ri­fles­sio­ni è che la Bib­bia non è mai sta­ta una fon­te sto­ri­ca e che non do­vreb­be ve­ni­re usa­ta co­me ta­le dal­l’ar­cheo­lo­gia. Po­treb­be es­se­re usa­ta per in­qua­dra­re l’at­mo­sfe­ra di un pe­rio­do, ma non cer­to co­me fon­te sto­ri­ca.
Quan­do di­co “ar­cheo­lo­gi bi­bli­ci”, non par­lo so­lo di ar­cheo­lo­gi israe­lia­ni, ma mi ri­fe­ri­sco an­che a tut­ti que­gli ar­cheo­lo­gi eu­ro­pei e ame­ri­ca­ni che ef­fet­ti­va­men­te han­no adot­ta­to la no­zio­ne di ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca.
Co­me di­ce­vo, an­che tra gli ar­cheo­lo­gi israe­lia­ni si è co­min­cia­to a cri­ti­ca­re l’ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca e ad adot­ta­re al­cu­ne del­le idee di que­sti teo­lo­gi del­la Scuo­la di Co­pe­n­ha­gen.
Per­ché Israe­le ave­va bi­so­gno del­l’ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca?
Era l’u­ni­co mo­do per giu­sti­fi­ca­re il pro­prio pro­get­to di in­se­dia­men­to co­lo­nia­le in Pa­le­sti­na. Sin dal­l’i­ni­zio, nel tar­do XIX se­co­lo, lo sco­po del mo­vi­men­to sio­ni­sta era di per­met­te­re agli ebrei di tor­na­re in Pa­le­sti­na e co­strui­re il lo­ro Sta­to na­zio­na­le e per fa­re que­sto era­no ne­ces­sa­rie del­le giu­sti­fi­ca­zio­ni sto­ri­che. Eb­be­ne, l’ar­cheo­lo­gia ha gio­ca­to esat­ta­men­te que­sto ruo­lo: ha for­ni­to giu­sti­fi­ca­zio­ni per il pro­get­to sio­ni­sta.
Or­mai, per tan­ti stu­dio­si di tut­to il mon­do, l’ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca è con­si­de­ra­ta par­zia­le e po­co og­get­ti­va, per­ché in ar­cheo­lo­gia noi esplo­ria­mo, fac­cia­mo ri­cer­che, la­vo­ria­mo sul cam­po e poi ana­liz­zia­mo i ri­sul­ta­ti traen­do­ne le con­clu­sio­ni. Sia­mo aiu­ta­ti dal­le fon­ti sto­ri­che. Men­tre nel­l’ar­cheo­lo­gia bi­bli­ca, si pren­do­no le fon­ti sto­ri­che e si cer­ca di adat­tar­le ai ri­sul­ta­ti del­lo sca­vo. Cioè gli ar­cheo­lo­gi bi­bli­ci par­to­no da una teo­ria e cer­ca­no le pro­ve che la con­fer­mi­no.
Lei so­stie­ne che Ma­sa­da è uno de­gli esem­pi più si­gni­fi­ca­ti­vi di que­sto ap­proc­cio…
Di Ma­sa­da ab­bia­mo non so­lo la fon­te bi­bli­ca, ma an­che una fon­te ro­ma­na, Fla­vio Giu­sep­pe, che ha scrit­to le sue Hi­sto­riae del­la fi­ne del pri­mo se­co­lo do­po Cri­sto, ri­por­tan­do quel­lo che ave­va sen­ti­to di­re a pro­po­si­to di Ma­sa­da e cioè che gli ebrei si era­no chiu­si den­tro una for­tez­za per di­fen­der­si dal­la De­ci­ma le­gio­ne ro­ma­na. Ma si trat­ta­va di un mi­to. L’ar­cheo­lo­go che ha sca­va­to il si­to, Yi­gael Ya­din, non tro­van­do mol­te pro­ve a sup­por­to del mi­to, le ha in­ven­ta­te. Per esem­pio, gli uni­ci sche­le­tri ri­tro­va­ti era­no quel­li di due mo­na­ci, men­tre si sa­reb­be­ro do­vu­te rin­ve­ni­re le os­sa di cen­ti­na­ia di mi­glia­ia di per­so­ne uc­ci­se. In­som­ma, sul cam­po non so­no sta­te tro­va­te pro­ve a sup­por­to di que­sta sto­ria. Ma­sa­da è di­ven­ta­ta un mi­to gra­zie al­la co­stru­zio­ne di  pro­ve che si ac­cor­das­se­ro con le fon­ti sto­ri­che.
La stes­sa co­sa è sta­ta fat­ta a Ge­ru­sa­lem­me. Se­con­do le nar­ra­zio­ni bi­bli­che, Da­vi­de e Sa­lo­mo­ne co­strui­ro­no il co­sid­det­to Pri­mo tem­pio. Be­ne, do­po cen­to­cin­quan­ta an­ni di ri­cer­che ar­cheo­lo­gi­che a Ge­ru­sa­lem­me non è mai sta­to tro­va­to nul­la, e tut­ta­via il si­to del­l’An­ti­ca Ge­ru­sa­lem­me vie­ne chia­ma­to da­gli israe­lia­ni la “cit­tà di Da­vi­de”. Han­no crea­to una nuo­va mi­to­lo­gia, co­me se Ge­ru­sa­lem­me fos­se esi­sti­ta ai tem­pi di Da­vi­de e Sa­lo­mo­ne. Han­no crea­to un “par­co ar­cheo­lo­gi­co” che vor­reb­be­ro espan­de­re a di­sca­pi­to del­le ca­se pa­le­sti­ne­si cir­co­stan­ti. L’a­rea è sta­ta su­bap­pal­ta­ta ad una or­ga­niz­za­zio­ne di estre­ma de­stra israe­lia­na che at­tual­men­te sta sca­van­do sul si­to, per cer­ca­re la co­sid­det­ta “cit­tà di Da­vi­de”: co­sì è sta­ta ri­no­mi­na­ta l’a­rea oc­cu­pa­ta dal vil­lag­gio pa­le­sti­ne­se di Sil­wan, che si tro­va ap­pe­na fuo­ri dal­la cit­tà vec­chia di Ge­ru­sa­lem­me.
Han­no eva­cua­to cen­ti­na­ia di fa­mi­glie pa­le­sti­ne­si dal­le lo­ro ca­se; il tut­to con l’ap­pog­gio del­lo Sta­to di Israe­le, del­l’e­ser­ci­to e del­la po­li­zia.
Qui ab­bia­mo un esem­pio mol­to chia­ro di co­me l’ar­cheo­lo­gia ven­ga usa­ta non so­lo per mo­ti­vi po­li­ti­ci ma an­che ideo­lo­gi­ci.
Mol­tis­si­me fa­mi­glie pa­le­sti­ne­si so­no sta­te al­lon­ta­na­te dal­la zo­na ed è già sta­ta pia­ni­fi­ca­ta la re­qui­si­zio­ne di qual­co­sa co­me al­tri ot­tan­ta edi­fi­ci: mil­le per­so­ne per­de­reb­be­ro la lo­ro ca­sa… per crea­re, in que­sto mo­do, “real­tà co­lo­nia­li” sul cam­po e per­se­gui­re una ve­ra pu­li­zia et­ni­ca. In que­sto ca­so l’ar­cheo­lo­gia di­ven­ta uno stru­men­to nel­le ma­ni del co­lo­nia­li­smo, a sca­pi­to dei pa­le­sti­ne­si che vi­vo­no in quei luo­ghi da se­co­li.
Per i pa­le­sti­ne­si l’ar­cheo­lo­gia è una co­sa com­ple­ta­men­te di­ver­sa…
Co­me pa­le­sti­ne­si, in ge­ne­ra­le, non ab­bia­mo bi­so­gno del­l’ar­cheo­lo­gia per pro­va­re che sia­mo da mil­len­ni in Pa­le­sti­na. Le no­stre ra­di­ci in que­sta ter­ra so­no mol­to pro­fon­de, per cui non ab­bia­mo bi­so­gno che l’ar­cheo­lo­gia for­ni­sca giu­sti­fi­ca­zio­ni al­la no­stra pre­sen­za qui. Per­ciò l’ar­cheo­lo­gia che vie­ne in­se­gna­ta nel­le uni­ver­si­tà pa­le­sti­ne­si, e pra­ti­ca­ta sul cam­po dal no­stro Di­par­ti­men­to per le An­ti­chi­tà, non ha pre­clu­sio­ni sto­ri­co-cul­tu­ra­li. Noi, in quan­to ar­cheo­lo­gi pa­le­sti­ne­si, guar­dia­mo al­l’ar­cheo­lo­gia in Pa­le­sti­na nel­la sua in­te­rez­za, sia­mo in­te­res­sa­ti a tut­ti i pe­rio­di sto­ri­ci: al­l’e­tà del Bron­zo, del Fer­ro, al pe­rio­do Ro­ma­no, Bi­zan­ti­no e an­che al­l’ar­cheo­lo­gia isla­mi­ca, sen­za par­ti­co­la­ri pre­fe­ren­ze. Pen­sia­mo che la sto­ria del no­stro pae­se ci ap­par­ten­ga dal­l’al­ba dei tem­pi fi­no ad og­gi. Al­l’u­ni­ver­si­tà di Bir­zeit in­se­gnia­mo ar­cheo­lo­gia con un ap­proc­cio in­clu­si­vo, oli­sti­co, cioè guar­dan­do al­l’in­te­ro pa­tri­mo­nio del pae­se, per­ché tut­te le cul­tu­re han­no con­tri­bui­to a crear­lo: an­che la cul­tu­ra e la sto­ria ebrai­ca fan­no par­te del­la no­stra.
Que­sta dif­fe­ren­za si ri­flet­te an­che nel mo­do in cui la­vo­ra­no i due Di­par­ti­men­ti per le An­ti­chi­tà, quel­lo israe­lia­no e quel­lo pa­le­sti­ne­se. In Israe­le, sia che si trat­ti di con­ser­va­re che di re­stau­ra­re re­per­ti ar­cheo­lo­gi­ci, la scel­ta ca­de sem­pre su si­ti in Israe­le, sui co­sid­det­ti si­ti “ebrai­ci”, men­tre in Pa­le­sti­na la scel­ta non si fon­da mai su ra­gio­ni et­ni­che o sul­la pre­di­le­zio­ne per una cul­tu­ra.
Per esem­pio, nel­l’an­ti­co si­to di Ge­ri­co, do­ve at­tual­men­te sto la­vo­ran­do, il Di­par­ti­men­to Pa­le­sti­ne­se per le An­ti­chi­tà sta fa­cen­do de­gli in­ter­ven­ti nel si­to di Tell es-Sul­tan, che da­ta cir­ca die­ci­mi­la an­ni, nel pa­laz­zo Hi­sham, che è un pa­laz­zo del­l’VIII se­co­lo, del pri­mo pe­rio­do isla­mi­co, e su due si­na­go­ghe, che ri­sal­go­no una al VI se­co­lo e l’al­tra al VII se­co­lo, do­ve è sta­to re­stau­ra­to il pa­vi­men­to a mo­sai­co. Quin­di la scel­ta è, in fon­do, tra il la­vo­ra­re con un ap­proc­cio scien­ti­fi­co o con un ap­proc­cio po­li­ti­co-ideo­lo­gi­co.
Per que­sto es­se­re un ar­cheo­lo­go pa­le­sti­ne­se co­sti­tui­sce una gran­de sfi­da, per me spe­cial­men­te, in quan­to na­to e cre­sciu­to in Israe­le.
Co­me in­flui­sce su que­sto il tu­ri­smo?
Beh, pri­ma di tut­to, do­po ses­san­t’an­ni di esi­sten­za del­lo Sta­to di Israe­le, l’ar­cheo­lo­gia israe­lia­na ha raf­for­za­to mol­ti mi­ti, co­me quel­lo del­la cit­tà di Da­vi­de, di Ma­sa­da e di al­tri si­ti ar­cheo­lo­gi­ci col­le­ga­ti con la Bib­bia, at­tual­men­te sog­get­ti a sca­vi o ac­ces­si­bi­li al pub­bli­co, che so­no se­gna­la­ti nel­le map­pe de­gli iti­ne­ra­ri tu­ri­sti­ci, nel­le gui­de, nel­le bro­chu­re e co­sì via.
L’ar­cheo­lo­gia israe­lia­na ha crea­to que­sto cor­pus mi­to­lo­gi­co che è sta­to sfrut­ta­to dal tu­ri­smo. Quin­di al­le per­so­ne che ven­go­no dal­l’Eu­ro­pa per vi­si­ta­re i si­ti ar­cheo­lo­gi­ci ver­rà pro­po­sto il se­guen­te iti­ne­ra­rio: ar­ri­ve­ran­no al­l’ae­ro­por­to di Tel Aviv do­po­di­ché an­dran­no a Ge­ru­sa­lem­me, vi­si­te­ran­no la Cit­tà vec­chia e il Mon­te del Tem­pio.
Ora, il “Mon­te del Tem­pio” è l’Ha­rHa­Mo­riyah e cioè il si­to del­la Cu­po­la del­la Roc­cia del­la Mo­schea di al-Aq­sa. Là quin­di non c’è al­cun tem­pio. Ma i tu­ri­sti, quan­do ven­go­no nel­la Cit­tà Vec­chia di Ge­ru­sa­lem­me, pen­sa­no di an­da­re a ve­de­re il Tem­pio. D’al­tra par­te, le gui­de tu­ri­sti­che quan­do li ac­com­pa­gna­no spie­ga­no lo­ro: “Que­sto è il luo­go do­ve sor­ge­va il Tem­pio, e quel­l’e­di­fi­cio, la Cu­po­la del­la Roc­cia, è do­ve si tro­va­va il Sanc­ta Sanc­to­rum e do­ve Ero­de ha co­strui­to la sua tor­re e qui è do­ve tut­ti i ri­tua­li del tem­pio ve­ni­va­no com­piu­ti”. Le gui­de par­le­ran­no a lun­go del Tem­pio che fu co­strui­to da Sa­lo­mo­ne, e poi ri­co­strui­to da Ero­de… e ma­ga­ri, pas­seg­gian­do, de­di­che­ran­no an­che qual­che pa­ro­la al­la Cu­po­la del­la Roc­cia, che è uno de­gli edi­fi­ci più bel­li al mon­do.
Io ho ascol­ta­to spes­so que­ste gui­de tu­ri­sti­che e so­no ri­ma­sto stu­pe­fat­to da co­me -igno­ran­do, o ri­fiu­tan­do­si di ve­de­re ciò che si ve­de- sia sta­ta crea­ta una ve­ra in­du­stria tu­ri­sti­ca ba­sa­ta sul­la mi­to­lo­gia.
Tut­to que­sto ric­co pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le, ar­chi­tet­to­ni­co, che rap­pre­sen­ta qua­si più di mil­le an­ni di svi­lup­po del­l’ar­te e del­l’ar­chi­tet­tu­ra isla­mi­ca, vie­ne let­te­ral­men­te igno­ra­to. No­no­stan­te quel­l’a­rea sia un ve­ro mu­seo d’ar­te e di ar­chi­tet­tu­ra isla­mi­ca, l’o­ra tra­scor­sa in quel­la zo­na si esau­ri­sce a par­la­re del Tem­pio. E la stes­sa co­sa ac­ca­de per il re­sto del­l’i­ti­ne­ra­rio. Per­ché na­tu­ral­men­te i tu­ri­sti vi­si­te­ran­no la chie­sa del Sa­cro Se­pol­cro per­ché è im­por­tan­te per i cri­stia­ni e poi la Chie­sa del­la Na­ti­vi­tà a Be­tlem­me, e ma­ga­ri poi an­dran­no a Ge­ri­co a vi­si­ta­re il Tell es-Sul­tan do­ve Gio­sué cir­con­dò la cit­tà e fe­ce suo­na­re le trom­be che pro­vo­ca­ro­no il crol­lo del­le mu­ra… Un in­te­ro iti­ne­ra­rio co­strui­to in­tor­no al­la nar­ra­zio­ne bi­bli­ca.
La stes­sa co­sa ac­ca­de quan­do si va a Me­gid­do, esi­sti­ta dal­l’an­ti­ca Età del Bron­zo fi­no al­la tar­da Età del Fer­ro, un si­to ar­cheo­lo­gi­co nel nord del­la Pa­le­sti­na, che vie­ne pre­sen­ta­ta co­me la cit­tà di Sa­lo­mo­ne. An­co­ra una vol­ta, ci tro­via­mo di fron­te so­lo al rac­con­to bi­bli­co, non a una ri­co­stru­zio­ne scien­ti­fi­ca. Dun­que l’in­du­stria del tu­ri­smo ruo­ta at­tor­no a si­ti bi­bli­ci, se non al 100%, cer­to in lar­ga par­te. In­fat­ti mol­te com­pa­gnie tu­ri­sti­che so­no pe­san­te­men­te coin­vol­te in que­st’o­pe­ra­zio­ne ideo­lo­gi­ca. Na­tu­ral­men­te esi­ste an­che il tu­ri­smo dei pel­le­gri­ni cri­stia­ni, an­ch’es­so col­le­ga­to al­la nar­ra­zio­ne bi­bli­ca.
Ma il po­po­lo pa­le­sti­ne­se, da­te le dif­fi­ci­li con­di­zio­ni in cui vi­ve, si in­te­res­sa al­l’ar­cheo­lo­gia?
No, non c’è mol­to in­te­res­se, so­prat­tut­to se pa­ra­go­na­to al­l’in­te­res­se che ma­ni­fe­sta il po­po­lo israe­lia­no. Sì, cer­to, ab­bia­mo i no­stri in­tel­let­tua­li, ci so­no per­so­ne in­te­res­sa­te al­l’ar­cheo­lo­gia, ma la mag­gior par­te dei pa­le­sti­ne­si so­no trop­po oc­cu­pa­ti con i pro­ble­mi del­la lo­ro vi­ta quo­ti­dia­na.
L’ar­cheo­lo­gia è sem­pre sta­ta vi­sta co­me una di­sci­pli­na ini­zia­ta e svi­lup­pa­ta da­gli israe­lia­ni, per cui so­no so­spet­to­si. Que­sto at­teg­gia­men­to ri­sul­ta mol­to ne­ga­ti­vo, in quan­to mol­ti pa­le­sti­ne­si che vi­vo­no in cam­pa­gna ru­ba­no dai si­ti di an­ti­chi­tà per­ché pen­sa­no sia­no col­le­ga­ti con Israe­le e gli israe­lia­ni.
La pro­pa­gan­da sio­ni­sta e israe­lia­na è sta­ta co­sì po­ten­te che an­che i pa­le­sti­ne­si han­no co­min­cia­to a pen­sa­re che la Pa­le­sti­na fos­se abi­ta­ta da­gli ebrei e che noi sia­mo ar­ri­va­ti mol­to più tar­di!
Per que­sto ru­ba­no i re­per­ti, per­ché fan­no par­te del­l’oc­cu­pa­zio­ne e del­la co­lo­niz­za­zio­ne israe­lia­na. Ed è un pro­ble­ma: noi dob­bia­mo de­co­strui­re tut­ta que­sta pro­pa­gan­da svi­lup­pan­do una for­ma nuo­va di con­sa­pe­vo­lez­za: dob­bia­mo ca­pi­re che que­sta è la no­stra cul­tu­ra, il no­stro pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le, e quin­di dob­bia­mo pro­teg­ger­lo.
Il no­stro la­vo­ro di ar­cheo­lo­gi, in que­sto sen­so, è mol­to dif­fi­ci­le per­ché dob­bia­mo con­vin­ce­re le per­so­ne del­la ne­ces­si­tà di pro­teg­ge­re un pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le che è il no­stro e non il lo­ro.
Dun­que l’ar­cheo­lo­gia in Pa­le­sti­na non co­sti­tui­sce si­cu­ra­men­te una prio­ri­tà, le per­so­ne si ap­pas­sio­na­no di più ad al­tri pro­get­ti. Pe­rò le co­se stan­no cam­bian­do: an­che se len­ta­men­te sem­pre più per­so­ne stan­no di­ven­tan­do con­sa­pe­vo­li del­l’im­por­tan­za del lo­ro pa­tri­mo­nio cul­tu­ra­le, non so­lo ri­guar­do al­l’ar­cheo­lo­gia. Del­la no­stra cul­tu­ra fan­no par­te an­che la tes­si­tu­ra e il ri­ca­mo, la no­stra ar­chi­tet­tu­ra, la vi­ta nei vil­lag­gi, le no­stre tra­di­zio­ni, il no­stro pae­sag­gio!
Si trat­ta quin­di di una mis­sio­ne dif­fi­ci­le, ma dob­bia­mo com­pier­la.

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

2 risposte a ORE 23:32 UN INTERESSANTE- PER CHIARA MOLTO —INTERVISTA A MAHOMOUND HAWARI, UN ARCHEOLOGO PALESTINESE NATO IN ISRAELE E CHE ORA INSEGNA AD OXFORD—IN VERITA’ IL SUO INTERESSE E’ L’ARCHEOLOGIA ISLAMICA DI CUI TROVA REPERTI NELLA ZONA EBRAICO-PALESTINESE, FINO AD ORA MISCONOSCIUTI—/// CI SPIEGA COME L’ARCHEOLOGIA IN ISRAELE BASATA SULLA BIBBIA SIA STATA UN’ARMA PER GIUSTIFICARE IL LORO INSEDIAMENTO—CI PARLA DELL’EVOLUZIONE DELLA NUOVA ARCHEOGIA ISRAELIANA —E DELL’ESTREMA DIFFICOLTA’ DI COSTRUIRE UN’ARCHEOLOGIA PALESTINESE CHE SIGNIFICA UNA IDENTICA’ RADICATA PROFONDAMENTE NEL TERRITORIO, PERCHE’ GLI STESSI PALESTINESI (DEL RESTO CON BEN ALTRI PROBLEMI)—SI SONO CONVINTI DELLA PROPAGANDA ISRAELIANA CHE L’UNICO POPOLO CHE HA DIRITTO A QUELLA TERRA SONO GLI EBREI—

  1. mg scrive:

    grazie Chiara! questo articolo è bellissimo. conferma come la superiorità dei potenti venga interiorizzata dai deboli e come sia difficile liberarsi da questa convinzione. è ciò che avviene tra le razze: i negri hanno interiorizzato la supremazia della razza bianca, o tra i generi: le donne la supremazia dell’uomo etc. etc.

  2. Bailey scrive:

    Los espermatozoides que consiguen llegar hasta el óvulo, secretan una enzima que destruye la capa exterior del
    óvulo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *