13 dicembre 2013 ore 08:17 io e mia figlia—-un racconto di chiara “antica” (fine Ottanta, inizi Novanta)

 

 

Ho un’altra ragione per odiare mia figlia.

Oltre che bella e bella da impazzire, lei sta appena adesso cominciando ad “assaggiare” la salita della collina – ed io vado con passo sicuro nella discesa – un po’ in avanti, un po’ indietro, un po’ in piedi, un po’ per terra… “un poco nella polvere, un poco sull’altar”, se volessi ammettere che idealizzo sfacciatamente quel “tocchetto di gente” che è già una persona.

E con quelle sue grassocce più che gambe, un piumino ha detto Eliane, e quella persistenza perversa che ha preso da me, e che in lei è diventata una persistenza alla distrazione, al varietà, un dover percorrere tutte le possibili traverse e, mai, neanche per sbaglio, una linea verso uno scopo, anzi non ci sono più scopi giacché esplorare gli andirivieni del mondo è diventato l’unico che ha valore.

Ho appena scritto, senza badarci, un’altra ragione per odiare mia figlia, io che non sopporto di sprecare energia se non in vista di un obiettivo previsto: ma questa è proprio una traversa! Non comincerò anch’io!

 

E (voi non la vedete, ma io sì) mentre sgambotta con tanta energia su quei bei piedini, ha tanta gente attorno che fa un tifo furioso per lei senza distrarsi un secondo; del resto, chi non scommetterebbe su questo bel montanaro che attraversa la linea di partenza con così pochi handicap, decisa, allegra, inebriata dall’amore che respira, senza mai timore dell’”invidia degli dei” perché gli dei sono “con lei e in lei”, totalmente immorale com’è nella sua felicità senza riserbo.

 

Certo così appare a chi si lascia incantare dall’ evidenza immediata, a chi non è stato capace di chiudere definitivamente in cantina, doppi catenacci, quell’immagine di noi stessi bambini, anzi era più di una, ma tutte strabilianti, straordinarie, lievitavano da sole secondo i desideri e i bisogni del momento, perché, quasi non avessero contorni, passavano e ripassavano una nell’altra e perché non nell’altra ancora? Come acqua da una cascata per la rapidità, potevano fermarsi in tutti i possibili contorni perché erano aria, fiato inesauribile di una fantasia che si incontra con la realtà solo per ri-alimentarsi, all’unico scopo di vivere in perpetua distrazione, appunto.

 

Anche adesso che abbiamo in noi ben salda un’immagine di adulti, quasi fosse possibile; anche adesso che crediamo di aver risposto, e in modo definitivo, senza appelli, a quell’inquietante domanda: “Ma con che vestito mi presento?”; forse proprio per questo,  in certi particolari stati di mente, quando alla sera ci sbattiamo su una poltrona senza più preoccuparci della festa cui abbiamo presenziato, quelle antiche immagini così luminose, ci affiorano alla mente a brandelli e ci scopriamo a sognare per ore. Ci prende una nostalgia terribile, un incanto che difficilmente posso descrivere a chi non lo vive, perché quella parte così serrata dentro di noi ci appare l’unica vera, quella cui diremmo “io” senza incertezze, quella per cui davvero valeva la pena di lottare.

Così ci attacchiamo a un bambino, togliamo i catenacci senza accorgerci: “ma questa me stessa è ancora vera, l’ho davanti a me, la vedo, la tocco, e non mi spaventa più con le sue energie strabilianti, quelle sue volontà assolute:  “è un altro da me”, io ho addirittura il dovere morale di dirigerla, meglio, “controllarla”, sono lei e, insieme, la sua coscienza  adulta: “ fai così, no, questo assolutamente no, la realtà sempre, sì la fantasia per i temi in classe, “basta una volta per tutte con queste cose inutili!”, che non portano ad uno scopo… l’intelligenza si misura dall’adattamento agli altri… aggressività, sì ma solo per scopi altamente costruttivi…

Questo tifo trionfante in me, allora si trasforma in una ragionevolezza che viene dall’odio e dalla paura: come potremmo lasciare che qualcuno realizzi tutto quello che abbiamo dovuto soffocare in noi per stare al mondo e poi, di questa libertà espressiva, cosa succederà nel vivere civile?

 

Però questo odio per mia figlia viene da ragioni più profonde: non è solo perché la mia vita è tracciata e circoscritta da una catena di scelte e lei gioca con la possibilità, se la palleggia con grazia tra le mani grassocce; non è solo per questo coro di ammirazione delirante che le fa diventare il mondo un enorme seggiolone in cui accomodarsi con grazia regale; non è solo perché è così bella e svergognatamente felice e io –neanche da bambina- sono stata bella e felice.

 

E’ perché la vedo come una persona.

 

Mi è successo subito, appena l’ho presa in braccio, sì, era una bambina, piccola voglio dire, ma questo era un dettaglio. Io la vedevo e la trattavo come una persona, non so neanche spiegarmi. Non una miniatura di persona, una persona come me, solo diversa. E le parlavo come si parla ad un altro, non a un mio prolungamento, ma a un altro, “un diverso da me”, di cui si è chiamati a tutelare i diritti ad una vita propria, sviluppata a partire dalle sue potenzialità. A ricercarle, prima di tutto, le sue, non le mie “da passare a lei”.

 

Forse per questo ci assomigliamo così poco.

 

Ma da questa mia scelta inconscia,  sono nati tutti i miei guai: perché non ho potuto usarla – questa mia bella-  come specchio delle mie brame, come dice la favola con antica sapienza, né tanto meno pormi a lei come specchio. Un figlio dovrebbe “servire” anche ad alimentare il nostro narcisismo, ma a me non è stato possibile.

 

Non è solo per le traverse che hanno preso corpo e vita proprio a fianco a me, tutte apparentemente “senza scopo” se non il piacere di vivere, né per le bugie –lei le chiamerebbe immaginazione o addirittura privacy- che arrivano a coprire la realtà (sono diventata un affinato detective),  per la fantasia che si espande ben oltre che nei temi (comunque è brava in italiano!); non è neanche per questo inarrestabile bisogno di divertirsi, di giocare con tutto, compiti compresi, questa allegria che nessun castigo può spegnere perché comunque trova un’altra cosa che la diverte: soprattutto è stato dover lasciar spazio –e che spazio!. “all’inutile”.

 

“Perché ti affliggi se qualcosa non serve a nulla?”

 

Si, ma io non sono nata in Oriente e, da sempre, la prima domanda che mi faccio è: “A cosa serve?” e ho imparato a trasformare anche la sofferenza in un “buon affare”, a usarla come concime perché il gratuito è un’incapacità, una sfida (e una passione rara).

 

Trovarmi davanti una persona che ha sempre un’immediata percezione dei suoi bisogni (fortunatamente a me nessuno chiede: “Quali sono i tuoi bisogni?” perché faticherei e molto a rispondere), non solo li sa, ma parte diretta per realizzarli; lei passa ore allo specchio –ormai ha sette anni- e mi dice: “E’ vero, mamma, che ho delle gambe bellissime?”, a me che non mi guardo allo specchio e le mie gambe…non so neanche se le ho mai viste!

 

Per farla corta, questa bimba-ragazzina per me è un insulto vivente, meglio, la sua esistenza è un continuo insulto alla mia, non è neanche l’affiorare di immagini di me bambina (non c’è niente da far affiorare, ricordo benissimo), è tutta la mia vita che ad ogni istante è messa in questione, tutto un adattamento così faticosamente raggiunto e nel quale, speravo, alla mia età, di poter riposare.

Certo mantengo le distanze e mi placo ad odiarla, a volte glielo dico e lei mi dice subito: “Anch’io ti odio”, tranquilla come dicesse: “Alla tua età hai paura dell’odio?”

Che idiota che è! E’ proprio alla mia età che si ha paura dell’odio quando tutta una vita si è spesa per essere buoni, altruistici, “caritatevoli”: a tavola, il pezzo migliore è per gli altri etc. tutte cose che le donne sanno a dieci. Le migliori riescono a goderne, io no. Anche tanti uomini le sanno. Non troppi.

Distanza, certo, anche per non strozzarla… dico così, anche se so, che anni di civiltà convinta mi bloccherebbero le mani. E ancor piu’ di amore-passione.

 

Ma soprattutto perché, cosa succederebbe di me, della mia faticosa tranquillità, del mio assetto familiare, del mio lavoro, se –in un’improvvisa pazzia- mi chiedessi davvero: ”Di cosa ho bisogno io, che cosa mi diverte?” ma io io, non io mamma, moglie, dipendente, io come persona, io Chiara, con una sola vita da spendere?

 

Non vale più la pena diventare pazzi, perciò la distanza va mantenuta con ferreo rigore, si ferreo come le manette di quella me stessa in cantina da tanti anni: non voglio neanche andare a vedere, ormai non può che essere morta e stramorta.

E se non lo è…!  Che crepi!

 

Ma la domanda viva cui mi è impossibile rispondere, e che ancora mi assilla, è – nelle parole di Eliot:

 

“E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,

dopo le tazze, la marmellata e il tè… “

 

Che è, come chiedersi, “alla fine della storia, è valsa la pena la vita che hai fatto fin qui” e che sei già incamminata a continuare sugli stessi binari  “finché morte non ci separi”?

Ma come rispondere a questa domanda?

Ne vale la pena finché c’è, finché l’immane fatica che mi costa, quella del “non ce la faccio più”,  mi lascia fiorire in mano, ogni tanto, un piccolo fiore azzurro.

E l’incanto della straordinaria bellezza che è la vita, mi riaccende.

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4 risposte a 13 dicembre 2013 ore 08:17 io e mia figlia—-un racconto di chiara “antica” (fine Ottanta, inizi Novanta)

  1. nemo scrive:

    Racconto intimo, sorprendentemente fresco, attuale, vivo. Un ‘contrasto di esistenze’ che si stempera e e ‘trova pace’ nell’ ultimo verso della chiusa: ” E l’ incanto della straordinaria bellezza che è la vita, mi riaccende “.

  2. diletta luna scrive:

    E’ un continuare il tuo rapportarti con te di oggi e te di quando eri bambina. E’ un aspetto tipico del tuo ….essere, che poi è anche “straordinaria bellezza….”

    • Chiara Salvini scrive:

      cara Diletta, hai capito una cosa “mia” cui non ho mai pensato…e con questo ti faccio uno straordinario complimento perché-ovviamente- e come tutti o la maggior parte della gente-ritengo alla mia età -dopo aver vissuto rimuginando come una vacca- di sapere un bel po’, o almeno, non mi aspetterei “cose nuove da altri”—sono contenta che hai fatto cascare l’asino di turno! Quando ci vediamo vorrei capire un po’ meglio il tuo giudizio – bellissimo per me- ma diciamo un po’ ermetico come i tuoi poeti, è sempre una festa quando trovi il tempo di apparire…sì, una visione di bene, ciao, ch.

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