8 DICEMBRE 2013 ORE 05:31 MELANIA MAZZUCCO PRESENTA UN’OPERA DI EUGENE DELACROIX : “MARPHISE E LA FEMME IMPERTINENTE” (1950-52/ BALTIMORA, THE WALTERS ART GALLERY)

Videointervista

 

Il cavaliere errante? E’ donna

di MELANIA MAZZUCCO

Il testo integrale su  “Marphise et la femme impertinente” di Eugène Delacroix (1850-52, Baltimora, The Walters Art Gallery), apparso su Repubblica del 24 novembre
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L’ideale femminile di Delacroix era l’odalisca. Come molti europei, dal viaggio in Marocco e Algeria  –  nel 1831  –  tornò infatuato di luce e colore, di paesaggi, cavalieri e costumi esotici, e dell’harem. Le donne sensuali che tessevano, danzavano e aspettavano l’uomo, recluse nei loro appartamenti, lo avevano incantato. Alle Donne d’Algeri nelle loro stanze dedicò, al ritorno in Francia, alcuni dei suoi quadri più famosi. Sorprende perciò come una palinodia il quadro che Delacroix cominciò all’inizio del 1850, per cui creò almeno sette schizzi preparatori e che ultimò con massima finezza: Marfisa e la donna impertinente. Per capire la novità dell’immagine, e il suo significato, bisogna dire qualcosa di Marfisa. Perché molti si chiederanno: chi era costei?

 

La letteratura offriva soggetti ai pittori dell’800 come nel Medioevo la religione e, nel Rinascimento, la mitologia. Era un repertorio, un serbatoio di scene, ambienti, eroi. In gioventù, Delacroix vi aveva attinto in polemica con la frigida pittura neoclassica di storia. Di ottima famiglia e di ottimi studi, scrittore e amico di scrittori, era un lettore onnivoro, colto e curioso. Poemi, leggende popo-lari, ballate, romanzi, tragedie: tutto trasformava in pittura. Chateaubriand, Scott, Byron, Goethe, Dante e Shakespeare… Negli anni ’30, i denigratori gli riconobbero la stessa energia che appassionava gli scrittori romantici  –  e la stessa “rivoltante follia”: dipingeva con “pennello ubriaco” quadri che visti da vicino si rivelavano “scarabocchi informi”. Gli ammiratori gli riconobbero la spiritualità, l’aspirazione all’infinito e la malinconia del colore in cui si effondeva l’essenza del romanticismo.

 

Nel 1850, però, il dandy rivoluzionario le cui opere avevano scatenato gazzarra e polemiche lavorava per lo Stato (al Palais Bourbon, all’hotel de Ville e al Louvre), era ufficiale della Légion d’honneur e aveva placato i suoi furori. Dipingeva santi, cacciatori, fiori e soprattutto felini selvaggi (tigri e leoni): a loro ormai riservava la bellezza barbara della violenza. In pittura come in letteratura, si era riconciliato col classico. Apprezzava un’arte sobria, ordinata ed equilibrata, senza artifici. La modernità doveva risiedere nella capacità di emozionare e nella tecnica pittorica. Insomma, aspirava a diventare un classico lui stesso. Aveva letto attentamente l’Orlando Furioso di Ariosto  –  annotando a margine gli episodi che gli offrivano spunti per i dipinti: Angelica, Medoro, Ruggero. E Marfisa.

 

Ora Marfisa è il personaggio più singolare del poema. Ariosto l’aveva ereditata da Boiardo, come un’eroina comica e bizzarra. Le diede altre qualità. Fiera, sbruffona esanguinaria, la guerriera Marfisa fa sorridere  –  ma guadagna una storia e un destino. Straniera venuta d’Oriente, Marfisa è un cavaliere errante. Con l’armatura da uomo e sull’elmo l’insegna della Fenice, galoppa di canto in canto, bramosa di mettersi alla prova contro i paladini e di mostrare il proprio valore. Solitaria, disponibile a ogni avventura, si aggrega di volta in volta ad Astolfo o Ruggiero, di cui alla fine si scopre sorella. Combatte e sfascia teste, si accapiglia e si converte. Ma a 52 anni, anche Delacroix prende sul serio Marfisa. Forse gli ricorda la sua amica George Sand, o forse sente affine la guerriera indipendente e senza paura.

 

Siamo nello spazio magico della foresta, che Delacroix rende con verdi, impressionistiche pennellate a macchie. Il cavaliere domina la scena sul suo destriero (tra i tanti cavalli dipinti da Delacroix, questo, che bardato bruca una fronda, è uno dei migliori). La visiera alzata dell’elmo scopre il bel viso e lo rivela donna. In sella, dietro di lei, si contorce una rugosa vecchia discinta. È la strega Gabrina, cui Marfisa sta dando un passaggio di là dal fiume. L’antefatto Delacroix lo relega nel lato destro: un cavallo scosso che fugge imbizzarrito, dando profondità allo spazio, e un cavaliere esanime sull’erba. È Pinabello, cui Marfisa ha appena inflitto, col colpo della lancia che tiene ancora in mano, il disonore di essere disarcionato da una femmina. Ma l’elemento più riuscito del quadro è la sensuale fanciulla nuda in primo piano, dalla carne iridescente, bagnata di luce come una Venere.

 

L’amante di Pinabello è assai bella e ciò la rende insolente. Quando nella foresta incrocia Marfisa con la sua passeggera, credendola un guerriero la sbeffeggia per la bruttezza della sua compagna. Marfisa sfida a duello Pinabello e lo sconfigge. Però non prende per sé la donna del vinto (come previsto dal codice cavalleresco), ma la costringe a spogliarsi, umiliando la sua vanità. Pudicamente, la nuda trattiene la veste, che la strega le strappa di mano. Delacroix ritrovò per lei il lirismo delle odalische della sua giovinezza. Eppure impiegò due anni a concepirla.

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