17 ottobre 2013 ore 18:13 CARA TATINHA…

 

19-01-07

 

(appena fatto 23… “una bimba”  …)

 

 

 

Caro tesoro, cara tatinha adorata, mio giovane virgulto di una non più ricordata palma…

 

Ascolta, per favore e poi pensa di tuo, cosa dice il mio sentimento-pensiero in questo momento:

 

Per qualche giorno potresti fare una pausa sul cammino dell’autonomia, cammino che ha una storia già lunga di anni e, in più, adesso, che questo cammino si è sedimentato con la scelta di una vita indipendente, in una casa tua, portata avanti ormai da più di un anno, riuscendo anche a dormire da sola…(quale vittoria, piccìn!)… per ritornare un pochino a quel tempo, ancora vivo nella tua mente anche se non lo ricordi, quando bambina mi stavi così vicina da sentire il mio-tuo respiro e ce lo  “regolavamo” insieme.

 

Stavi rannicchiata nella sacca della mia pancia come un piccolo canguro e un po’ stavi tutta girata contro la mia pelle con gli occhi chiusi non volendo vedere niente del mondo esterno, tutta presa dal contatto fisico e dal calore del mio corpo, e dalle mie carezze, ma, poi, succedeva che d’improvviso ti prendeva la curiosità di vedere cosa erano quei suoni che sentivi già così affascinanti all’orecchio e allora ti giravi verso il sole e ti perdevi incantata a guardare gli altri animali.

 

Ma non da subito hai voluto staccarti dal tuo piccolo trono dove regnavi indiscussa e protetta da ogni possibile attacco.

 

C’è voluto tempo e convincimenti miei per mettere fuori prima una zampina, a tastare l’aria libera dal contatto materno che c’era fuori. Ritrarla, e dolcemente dopo un tempo ritentare. E così…

 

Quando poi hai appreso a giocare con gli altri animali …sei diventata subito insaziabile di conoscerli, ti innamoravi di ognuno di loro… spesso non eri buona con loro anche se li amavi, tiravi code da una parte e dall’altra e mi rimproveravi di non lasciarti essere abbastanza cattiva come avresti desiderato, mia stella barbablù!

 

 

Con questi animali hai formato il tuo gruppo ed era lui la parte essenziale della tua identità: sei diventata così appassionata di questo tuo nuovo gioco, e di questo tuo nuovo ruolo che ti faceva sentire l’aria della libertà tra i capelli…  che scappavi da me e volevi stare a dormire con loro perché erano loro, adesso, ad essere “i tuoi simili”, la tua vera “famiglia” : solo in loro ti identificavi e ti immedesimavi.

Solo loro ti facevano sentire “importante”.

Solo loro erano “di misura”.

 

“Basta pancia!” e “Basta mamme!” gridavi.

E per darti forza sbattevi la porta quasi scappassi dal diavolo.

E, naturalmente, io mi sentivo “il proprio diavolo” e di tutti gli inferni degli infiniti tempi.

 

Un gatto randagio, che non aveva avuto famiglia, era diventato tuo grande amico: ti aveva raccontato la sua vita solitaria, senza sostegno, e ti aveva iniziato a parlare per la prima volta di autonomia, così come, purtroppo, lui era stato costretto a viverla essendo orfano.

 

Ti aveva spiegato (era più vecchio di te) che o si è autonomi o si è succubi e dipendenti.

 

 

Di fronte al fascino di un vero gatto di strada, maledetto fino ai denti, esperto della vita, che per di più si “prendeva cura di te”, con quello sguardo inquieto e, insieme da bambino, di chi ha vissuto per forza in eterna ricerca (di amore, anche se la chiama scienza o arte, o purtroppo, nel suo caso…)…

 

Di fronte a questo personaggio, dicevo, così “encantador e incantato”, “magico”, cosa mai avrebbero potuto le parole del canguro-mamma?

 

Lei continuava a blaterare da sola le sue cose incomprensibili e strane, tipo che nessuno può essere autonomo da solo, che l’autonomia è collaborare con gli altri e da questi essere aiutati: autonomia è una rete di “legami” …

Sì.

Ma, attenzione, “liberi”!

“Gratuiti”, sarebbe  la parola .

 

Perché questo è il punto e non l’autonomia o la dipendenza, in realtà un falso dilemma.

 

E ancora diceva questo vecchio canguro (è sempre stata di periodo lungo) che è un grosso dolore dell’adolescenza, un dolore che pare quasi obbligato, cadere in questo tremendo equivoco che mette agli antipodi “dipendenza-autonomia”, una specie di cecità che tutti noi paghiamo cara perché ci dibattiamo per strapparci “da una carne che è “già” nostra”.

 

E’ difficile per gli umani accettare di “essere nati da…”, …
avere un “maestro”…
qualcuno prima di noi che ha arato il nostro campo….
non esserci cioè partoriti da noi

come tutti gli adolescenti

(anche di settantanni!)

sognano chiamandola “liberta’”,

perché è vivere “no limits” ( un dio, “l’isola che non c’è”):

E’ il trionfo dell’onnipotenza cui i nostri tempi ci chiamano a gran voce, ma il cui contraltare è sempre sempre “l’eterna impotenza”, che puntualmente l’altalena ci presenta perché la vita ha bisogno di “equilibrio”.

Di impattare la bilancia, altrimenti ci ammaliamo.

 

Tra una e l’altra, c’è  “la potenza” (per stare nei nomi), che è ricchezza nostra, saper fare questo e, pero’, non quello, “aver bisogno” dell’altro, in quello che ha imparato, così come io do a lui quello che non sa’fare.

“Poterlo fare” senza “troppa” invidia, troppa condiscendenza o umiliazione, odio e vendetta. Indegnità. Anche questo è un cammino da fare piccoli passi.

Unico a chiamarsi “reciprocità” perché siamo entrambi sullo stesso piano, non c’è “il di più” e il “di meno”, i vasi comunicanti.

 

“Accettare” e “dare”, vorrebbe dire, mi pare,  “sentire gratitudine”, che è amore prima di tutto per la vita.

 

Ma è questo un sentimento profondo quasi inaccessibile agli umani, almeno in questa nostra società.

Che ci fa sentire “tutti irrisarcibili”.

 

Vittime.

 

E lo e’ per tutti noi.

 

Perché la gratitudine è un comportamento che vive del senso del nostro limite. E di quello dell’altro...” che non sa rispondere a questo e a quel mio bisogno…”, ma solo a qualcuno e neanche così bene come vorrei!

 

Sgorga, la gratitudine intesa come “amore” alla vita, creatività,  in chi ha potuto maturare…

su un bel ramo solido, al sole, alla pioggia, alla luna e alle stelle, al buio della notte,

dolcemente, secondo ritmi propri, godendo delle meraviglie intorno; e in chi ha molto sofferto, in quei pochi “destinati” dalla vita che, “messi sotto il torchio”,

“per puro caso”,

ri-generano il loro cuore (come il dolore fosse un allargascarpe) all’amore e alla semplicità.

All’umiltà, sarebbe più preciso, un’umiltà feconda,  perché imparati che “tutto è capitato ma

poteva non capitare, così come loro stessi”.

 

La gratitudine sgorga anche in mille altri casi più mille che non si vedono dalla tana di un canguro.

 

Tatinha mia bella, che nella culla muovevi le mani con arte… come le farfalle volano graziosamente sui fiori, e dormivi in pizzi e fiocchi come una principessa, sotto un velo così vasto come il cielo… tu, mio tesoro bello, amore del tuo papi, che con te è sempre sereno e buono, se sei arrivata fin qui, non leggere più per oggi:

 

… il resto è pensiero “pes-ànte”… da lasciare per quando starai molto bene, riposata, magari per quest’estate quando ci saranno le vacanze da questa scuola così violentemente impegnativa.

 

Ma, per grazia implorata, a questo impegno attaccatici, ora, e credo tu lo stia facendo, come il naufrago allo scoglio, perché pensare, adesso, esclusivamente alla tua professione, farne una sfida con se stessi / assolutamente “da vincere”, è la tua salvezza, ciccy, lasciamelo dire, anche per il futuro.

 

“Averci un pochino- solo un pochino e non di più– in mano”.

Lo so, non senti, perché lo mormoro solo con le labbra.

Non urtarti, piccìn. Se puoi.

Magari fra cento anni, ti verrà buono. la tua mamma canguro,

adesso canguro nonna, e felicissima (altro che mamme, puah! tutto sbattimento!)

perché di mammine belle ci sei solo tu!

 

 

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