8 ottobre 2013 ore 08:01 AL SHABAAB CHI SONO? (AFFILIATI AL QUEDA, SOMALIA)—DA LIMES, LUCIO CARACCIOLO DIRETTORE—SEMBRA UNA RICERCA STORICA MOLTO SERIA!

Limes

Al Shabaab 2.0: l’attacco a Nairobi è solo l’inizio

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di Matteo Guglielmo
RUBRICA GEES, CORNO D’AFRICA L’assalto al centro commerciale Westgate nella capitale del Kenya dimostra che la lotta contro il jihadismo somalo, che si pensava vinta con il ritiro delle milizie da Mogadiscio, è entrata in una nuova fase. 


[carta di Laura Canali]

L’attacco terroristico di Westgate, uno dei centri commerciali più esclusivi di Nairobi, in Kenya, rivendicato dal movimento somalo jihadista Harakat al-Shabaab al-Mujaahidiin, ha mostrato il volto più crudele di una crisi di cui Mogadiscio è da tempo il fulcro irrisolto.

 

Le dinamiche dell’assalto fanno pensare a un’azione ben pianificata e portata a termine con lucida spietatezza. Non certo il gesto di un gruppo di disperati, o l’estrema azione di un movimento in declino, come la narrativa dominante sembra ormai interpretare i ripiegamenti di al-Shabaab da diversi centri urbani della Somalia meridionale.

 

L’attentato di Nairobi potrebbe segnare il culmine – se non l’inizio – di un’escalation di violenza, le cui radici sono indiscutibilmente legate alle operazioni dell’esercito keniano in Somalia, al fallimento nella lotta contro al-Shabaab e alla difficoltà di comprenderne le numerose metamorfosi.

 

Come al-Shabaab è arrivata all’attacco di Nairobi


Nell’agosto del 2011 i miliziani di al-Shabaab, in controllo di gran parte dei quartieri della capitale somala, si ritirano da Mogadiscio. Le operazioni vengono portate a termine in una sola notte. Durante il ripiegamento, le forze jihadiste non subiscono alcuna perdita, né di uomini né di mezzi. Alla ritirata da Mogadiscio ne seguiranno altre (da Afgooye, Baidoa e Chisimaio, solo per citarne alcune), che consentiranno ai caschi verdi di Amisom (African Union Mission in Somalia) di estendere il controllo su diverse aree urbane della Somalia meridionale.


Le ragioni della ritirata di al-Shabaab sembrano molteplici, ma secondo gran parte degli osservatori i fattori determinanti sarebbero stati soprattutto 2: la necessità di mutare strategia militare, vista l’oggettiva difficoltà di battersi in campo aperto contro le ben equipaggiate forze di Amisom, e la volontà dell’emiro del gruppo jihadista, Sheikh Mukhtar Abu-Zubeyr detto “Godane”, di riaffermare il suo controllo sul movimento.


La discreta autonomia di cui godevano alcune frange Shabaab, emerse soprattutto a seguito dell’inglobamento di Hizbul Islam (gruppo guidato dall’ex capo della shura delle Corti Islamiche, Sheikh Hassan Dahir Aweys) oltre che di altre piccole formazioni militanti, rischiava di compromettere la leadership di Godane. Inoltre, l’intenzione dell’emiro di ergersi a unico vettore della rete di relazioni con l’apparato qaidista avrebbe portato a una serie di epurazioni, culminate con l’eliminazione o l’allontanamento dei gruppi appartenenti a quella che è stata sempre considerata la prima generazione del jihadismo somalo.


Lo spartiacque arriva con l’uccisione di Fazul Abdallah Mohammed, cittadino delle Comore ricercato per gli attacchi alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salam del 1998. Fazul viene ucciso nella notte tra il 7 e l’8 giugno 2011 in circostanze misteriose. Secondo alcune ricostruzioni, il super ricercato si trovava a bordo di un veicolo con Musa Hussein (meglio conosciuto come Musa Sambayo), originario della provincia keniana di Wajir e ritenuto tra i pianificatori degli attacchi terroristici di Kampala del luglio del 2010. Il veicolo di Fazul, dove sarebbero stati in seguito rinvenuti circa 40 mila dollari in contanti, oltre a diversi telefoni satellitari, si trovava nei pressi del km 7 di Mogadiscio, sul corridoio per Afgooye, una posizione alquanto insolita vista la cospicua presenza di milizie governative in loco. I rapporti ufficiali raccontano di una sparatoria avvenuta nei pressi di un checkpoint controllato dal governo somalo, ma sono in moti a ritenere che Fazul sarebbe incappato in una trappola tesagli proprio dagli uomini di Godane.


L’eliminazione di Fazul, considerato l’amministratore dei finanziamenti della rete qaidista diretti ad alcuni campi di addestramento, si accompagna alla graduale emarginazione di personalità come Sheikh Hassan Dahir Aweys e Sheikh Mukhtar Robow, già portavoce del movimento, che vengono allontanati dalle posizioni di potere. La decisione viene probabilmente presa ad Afgooye nell’agosto del 2011, alcuni giorni prima del ripiegamento da Mogadiscio. Il vertice di Afgooye segnerà l’inaugurazione di un fronte dissidente, anche se piuttosto debole, in cui sarà coinvolto Omar Shafik Hammami, conosciuto come Abu Mansur al-Amriki, cittadino statunitense di origine siriana.


Il 16 marzo 2012 la stampa somala entra in possesso di un videomessaggio di Omar Hammami, in cui il cittadino americano afferma di essere in serio pericolo a causa di alcune divergenze emerse all’interno degli Shabaab. Gli uomini di Godane avviano subito un’inchiesta interna, senza tuttavia rilasciare alcuna dichiarazione. Generalmente identificato come il capo dei muhajirun, come sono comunemente denominati i giovani stranieri giunti in Somalia per unirsi alla guerriglia jihadista, il ruolo di Hammami sarebbe stato per molti aspetti sopravvalutato. Molto legato a Sheikh Mukhtar Robow sin dal 2006, quando il cittadino statunitense giunge in Somalia per unirsi alla guerriglia contro gli etiopici, Hammami viene ucciso in un’imboscata il 12 settembre scorso a Dinsoor, nella regione del Bay.


L’eliminazione di Hammami era stata preceduta, a luglio, dall’arresto di altri “dissidenti” rispetto alle posizioni dell’emiro nella cittadina somala di Brava, ancora oggi una delle più importanti roccaforti del movimento jihadista. La “notte dei lunghi coltelli” di Brava arriva a seguito dell’ennesima divulgazione di alcuni documenti a firma del movimento, ma attribuibili a gruppi vicini a Sheikh Hassan Dahir Aweys, poi smentiti da Godane, dove si denunciava la gestione “autoritaria” del movimento da parte dello stesso emiro. Dopo la divulgazione dei documenti, Godane avrebbe dato ordine a un commando di amniyaat mukhabaraat (una sorta di intelligence interna) di scovare e perseguire i responsabili. Le operazioni portano all’arresto di una trentina di personalità vicine a Dahir Aweys, che nella notte tra il 22 e il 23 giugno fugge via mare ad Hobyo insieme a un manipolo di guardie del corpo, ripiegando successivamente nel villaggio di Adaado, nel Galgaduud. Sheikh Hassan Dahir Aweys è preso quindi in consegna da alcune milizie Haber Gedir dell’amministrazione dell’Himan & Heb. Intenzionato a lasciare il paese, viene tuttavia consegnato alle forze governative, forse con l’inganno di un salvacondotto per il Medio Oriente.


L’arresto di Dahir Aweys, poi trasportato a Mogadiscio e rinchiuso nel quartier generale dell’intelligence somala, chiude un capitolo importante nella disputa all’interno del movimento jihadista somalo. Secondo diversi osservatori, Shabaab ne sarebbe uscito addirittura rafforzata, non avendo subito alcuna defezione di “sostanza”, e avendo mantenuta pressoché intatta la sua forza militare. Anche lo stesso Godane si sarebbe rafforzato, essendo riuscito a consolidare la sua posizione di potere e a mantenere ben saldo il controllo sulle cellule amniyaat, oggi particolarmente ramificate anche a Mogadiscio e nei principali centri urbani del centro-sud.


Il riassetto delle linee di potere interno ad al-Shabaab, spesso etichettato semplicisticamente come il risultato di una spaccatura tra i muhajiriin e gli al-Ansar (come sono denominati i leader autoctoni del movimento), è in realtà molto più complesso e stratificato.


Sta emergendo una nuova generazione del jihadismo somalo, la cui definitiva affermazione è avvenuta attraverso la marginalizzazione della vecchia scuola della militanza islamista, evidenziata dal graduale e radicale mutamento delle strategie di guerriglia, le cui dinamiche fino a pochi anni fa erano pressoché sconosciute nel pur complicato teatro somalo. Non va neanche sottovalutato il parallelo riassestamento di al-Shabaab in concomitanza con quello della rete internazionale qaidista a seguito della scomparsa di Osama bin Laden, una storia forse ancor più complessa e nascosta, ma che potrebbe aver avuto importanti ripercussioni sulle strutture dei gruppi jihadisti presenti in Africa sub-sahariana.


Il fallimento della lotta contro al-Shabaab


In prima linea nel contrasto al movimento jihadista somalo è il contingente di Amisom, oggi costituito da forze ugandesi, burundesi, keniane e gibutine, cui da non molto si sono aggiunti uomini provenienti dalla Sierra Leone. Rispetto agli esordi della missione, nel 2007, Amisom ha saputo raffinare le proprie strategie di contrasto alla guerriglia, soprattutto sviluppando un discreto sistema di intelligence.


Finora lo scontro è stato confinato a un livello quasi esclusivamente militare, i cui risultati rischiano di diventare sempre più modesti, soprattutto a seguito del cambio di strategia di al-Shabaab, le cui azioni, soprattutto a Mogadiscio, sono diventate sempre più distruttive e mirate. Poca o nessuna strategia civile è stata posta a supporto delle operazioni di Amisom al di fuori della capitale e, seppur “liberate” dal controllo jihadista, importanti città come Baidoa, Merca e Chisimaio vivono in un costante stato di assedio.


Per cercare di mettere ordine nel caotico operato delle agenzie di aiuto internazionale per la ricostruzione e impostare una strategia coordinata di sviluppo in Somalia, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso la risoluzione 2102/2013, ha approvato il dispiegamento della missione Unsom (United Nations Assistance Mission in Somalia). Unsom ha ufficialmente sostituito Unpos (United Nation Political Office in Somalia), il cui mandato era nella sostanza cessato con la fine della transizione politica, culminata nell’agosto del 2012 con la nomina di un nuovo parlamento federale e l’elezione, da parte di quest’ultimo, del presidente Hassan Sheikh Mohamud. Forse è ancora presto per giudicare il lavoro della nuova missione Onu guidata dal britannico Nicholas Key. Fino a quando non saranno ripristinate le condizioni per un pieno ritorno delle agenzie dell’Onu in Somalia, sul cui potenziale impatto economico e sociale – oltre che politico – ancora si dibatte, i margini di manovra sembrano molto ristretti.


Il nuovo governo federale somalo, a più di un anno dal suo insediamento, non è sembrato riservare la giusta attenzione nella lotta contro al-Shabaab, almeno nei fatti. Il governo di Mogadiscio è stato a lungo impegnato in un dispendioso e logorante confronto politico sulla gestione delle sue periferie, in cui spicca l’infinita contesa sulla formazione del Jubaland, durata quasi un anno. L’amministrazione delle aree più periferiche del paese, liberate dalle milizie di al-Shabaab, ha fatto emergere diverse competizioni territoriali, alle quali Mogadiscio si è limitata a contribuire nominando nuovi governatori ritenuti più vicini al governo federale della capitale. La sostituzione a Baidoa di Abdifatah Ibrahim Gessey, ritenuto troppo vicino agli etiopici, con Abdi Aden Hosow e quella del governatore di Beletweyne, Abdifatah Hassan Afrah, da tempo alla guida di sue milizie personali nel contrasto ad al-Shabaab, sono solo alcuni esempi di un problematico riassestamento che non ha mancato di produrre degli effetti destabilizzanti nelle regioni interessate, permettendo alle forze jihadiste di riorganizzarsi e colpire con maggior vigore.


La contrapposizione politica nel Jubaland, sfociata spesso in scontro armato tra alcune milizie vicine al governo di Mogadiscio e gli uomini di Ras Kambooni, guidati da Ahmed Mohamed Islam Madobe e sostenuti dai vertici del Kdf (Kenian Defence Force), ha portato tutti gli attori in campo ad abbandonare la lotta alle milizie Shabaab e in diverse occasioni a favorirne la presenza. Per ora i rapporti tra il governo somalo e la neonata amministrazione del Jubaland sembrano essere lievemente migliorati, a seguito dell’intesa raggiunta ad Addis Abeba lo scorso 27 agosto. Questo vertice è stato patrocinato dall’Igad (Intergovernmental Authority on Development), organizzazione regionale di cui il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud e il suo più stretto entourage, a partire dagli uomini forti della sua amministrazione, hanno sempre diffidato. Presto si vedrà se gli accordi di Addis Abeba possano tenere nel lungo periodo, oppure se l’intesa raggiunta in Etiopia abbia solo voluto segnare una pausa in vista della conferenza di Bruxelles del 16 settembre scorso promossa dall’Unione Europea.


A determinare una certa immobilità del governo somalo nella lotta contro Shabaabhanno contribuito altri fattori non meno importanti. Le Forze armate somale sono ancora troppo precarie e l’arcipelago di milizie che ne compone l’ossatura è mal equipaggiato e disarticolato. I numerosi programmi di cooperazione militare, tra cui spiccano quelli con la Turchia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, mancano quasi totalmente di coordinamento e spesso si pongono in competizione. Quasi completamente assenti sono, inoltre, seri programmi di reinserimento diretti agli ex combattenti (non solo Shabaab), che vengono sempre più spesso utilizzati nel fiorente mercato delle compagnie di sicurezza privata di Mogadiscio. Da non sottovalutare inoltre la crisi del National Security Service (Nss), l’organismo di intelligence, che appare oggi in fase di lento riassestamento a seguito di diverse defezioni dovute ai numerosi attacchi mirati operati dalla guerriglia jihadista.


Il presidente Hassan Sheikh Mohamud ha totalmente stravolto i vertici dell’apparato di sicurezza nazionale, nominando a distanza di pochi mesi il generale Bashir Mohamed Jama a capo dell’intelligence, il generale Abdihakim Dahir Said a capo delle forze di polizia e il generale Dahir Adan Elmi come capo di Stato maggiore dell’esercito. I nuovi vertici apparterrebbero tutti a clan minoritari e secondo molti osservatori sarebbero stati scelti più per la fedeltà al nuovo esecutivo che per l’esperienza maturata nei rispettivi settori di competenza.


Al-Shabaab, pur colpito da un delicato processo di riassestamento interno, di cui si sarebbe potuto approfittare, è oggi passato al contrattacco, soprattutto a Mogadiscio, anche a causa della mancanza di programmi coordinati e strutturati di contrasto. Al contrario, i clamorosi attacchi alla corte suprema e al quartier generale delle Nazioni Unite, condotti a Mogadiscio tra l’aprile e il giugno scorso, le cui dinamiche richiamano molto l’assalto di Westgate, sono chiari esempi di un ritrovato vigore, oltre che di una capacità dei jihadisti di muoversi con una certa disinvoltura oltre le linee nemiche.


Dalla lotta armata al “brand” regionale


Due fattori cruciali nella strategia del movimento jihadista somalo meritano attenzione: il sorprendente grado di adattamento nel portare avanti le proprie azioni militari di fronte a un contesto in continua evoluzione e la capacità di servirsi di efficaci e sofisticati strumenti di comunicazione, volti sia a pianificare le proprie operazioni sul campo che ad amplificare i propri messaggi politici, attraverso un uso piuttosto accorto dello spazio cibernetico, dove è sempre più difficile distinguere gli appartenenti dai fiancheggiatori. La diffusione di filmati inneggianti al jihad e alla ribellione contro l’occupazione degli eserciti stranieri finisce così per far presa su un vasto pubblico, anche in occidente.


È il caso, ad esempio, di The Real Disney, un filmato diffuso negli Stati Uniti e rinvenuto dall’FBI, in cui si esaltano le gesta di quattro ragazzi statunitensi di origine somala che giungono in Somalia per abbracciare la causa jihadista. Particolarmente diffuse, inoltre, le immagini dei bombardamenti nei villaggi di Jilib e Hisingoow, tra i più colpiti dall’esercito keniano tra il 2011 e il 2012, dove il numero delle vittime non è mai stato chiarito.


Fino ad oggi, gran parte del dibattito su al-Shabaab (“gioventù”) si è concentrato sui suoi presunti legami con al-Qaida, mentre poca attenzione è stata dedicata alla capacità e alle strategie della sua leadership nel trovare ampio consenso tra le giovani generazioni somale (ma non solo) cresciute in uno dei contesti più crudeli e complicati del pianeta. Una delle caratteristiche costanti nella vita del movimento, che nasce tra il 2003 e il 2005 come costola militare dell’Unione delle Corti Islamiche, è stata quella di ergersi ad avanguardia di un risentimento diffuso contro la continua ingerenza nella crisi somala di attori esterni, come Etiopia e Kenya.


L’operazione keniana “Linda Nchi” (protezione della nazione), avviata nel 2011 con lo scopo di porre in sicurezza il confine con la Somalia, nasce come atto unilaterale, poiché l’integrazione in Amisom sarebbe avvenuta solo alcuni mesi dopo. Molto sofferta sul piano strategico-militare, soprattutto ai suoi esordi, e a dir poco azzardata dal punto di vista politico, la missione keniana offre alla guerriglia jihadista nuovi e importanti argomenti di mobilitazione. L’assalto al centro commerciale di Nairobi è da questo punto di vista il culmine di una serie di avvertimenti che da mesi al-Shabaab rivolge al Kenya.


La contemporanea presenza sul suo territorio di contingenti militari di tutti i paesi confinanti ha trasformato la Somalia nel principale vettore del jihadismo del Corno d’Africa, consegnando ad al-Shabaab un ruolo inedito. Il movimento può da questo punto di vista diventare un “brand” capace di coagulare e ispirare le operazioni di numerosi gruppi jihadisti presenti nella regione, non solo in Kenya. Per farlo, ha estremo bisogno di compiere o patrocinare operazioni volte a spaccare i già precari equilibri sociali dei paesi del Corno d’Africa, ovvero di creare un fronte transnazionale e asimmetrico in una regione dove restano molteplici i casi di esclusione dal potere politico e di marginalizzazione sociale che toccano particolarmente le comunità musulmane.


L’attacco al centro commerciale Westgate potrebbe dunque essere il primo,tragico, segnale di una nuova architettura jihadista, come farebbero presagire le prime parole del portavoce militare di al-Shabaab Abu Musab: “questo è l’attacco dei Mujaahidiin”.


Matteo Guglielmo è dottore in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli, autore del volume Il Corno d’Africa: Eritrea, Etiopia, Somalia, ed. Il Mulino, 2013.

(26/09/2013)


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