Omero, Iliade, Libro XXIV, vv. 477-590)
Il grande Priamo entrò non visto, ed avvicinatosi
abbracciò le ginocchia di Achille, baciò le sue mani
tremende, omicide, che a lui tanti figli avevano ucciso.
Come quando grave follia colpisce un uomo, che al suo paese
uccide qualcuno ed emigra in terra straniera,
in casa d’un ricco, e chi lo vede prova stupore,
così Achille ebbe un sussulto, quando vide Priamo simile a un dio;
anche gli altri
stupirono, si guardarono tra loro.
Priamo, in atto di supplice,
gli rivolse questo discorso:
«Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dei,
come me avanti negli anni, sulla soglia triste della vecchiaia:
forse anche a lui danno guai i popoli intorno
accerchiandolo, e non c’è nessuno a stornare da lui la rovina.
Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo,
gioisce nell’animo suo, e spera di giorno in giorno
di vedere suo figlio tornare da Troia;
infelice davvero sono io, che nella vasta Troia ho generato
figli meravigliosi, e non me ne resta nessuno.
Ne avevo cinquanta, quando arrivarono i figli degli Achei:
diciannove m’erano nati tutti da uno stesso ventre,
gli altri me li partorivano donne diverse nella mia casa.
Alla maggior parte Ares violento ha fiaccato i ginocchi;
e quello che per me era unico, che salvava la città e la gente,
tu proprio adesso l’hai ucciso, mentre combatteva per la patria,
Ettore: ora vengo per lui fino alle navi degli Achei
a riscattarlo da te, e porto un compenso ricchissimo.
Su, Achille, rispetta gli dei ed abbi pietà di me,
nel ricordo di tuo padre: ancora più degno di pietà sono io,
ho sopportato quello che al mondo nessun altro mortale,
di portare la mano alla bocca dell’uccisore di mio figlio».
Disse così, ed in lui stimolò il desiderio di piangere il padre:
allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio.
Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore
piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille,
mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti
anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa.
Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto,
gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore,
s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio,
mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco,
e, articolando la voce, gli diceva parole che volano:
«Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo.
Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei,
al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi
figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio!
Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti,
lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori;
dal lamento che ci raggela non viene un guadagno:
gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali,
vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni.
Due giare sono piantate sulla soglia di Zeus, piene di doni
che egli largisce, l’una di mali, l’altra di beni:
l’uomo cui dà mescolando Zeus che gode del fulmine,
s’imbatte ora in un male, altra volta in un bene;
ma colui cui dà soltanto sciagure, lo fa miserabile,
una fame tremenda lo spinge su tutta la terra divina,
se ne va disprezzato sia dagli uomini che dagli dei.
Così gli dei anche a Peleo dettero splendidi doni
fin dalla nascita: primeggiava fra tutti gli uomini
per felicità e ricchezza, regnava sopra i Mirmidoni,
e a lui che era un mortale dettero in moglie una dea.
Ma il dio anche a lui diede un male, perché mancò in casa sua
una discendenza di figli eredi al potere,
ma generò un solo figlio destinato a morte precoce;
né l’accompagno nella vecchiaia, perché lontano dalla mia patria
me ne sto qui a Troia, a te e ai tuoi figli portando sciagura.
Sentiamo dire che anche tu, vecchio, eri felice in passato:
fra quanti racchiude da un lato Lesbo, terra di Macare,
dall’altro lato la Frigia e l’Ellesponto infinito,
dicono, vecchio, che tu primeggiassi per ricchezza e per figli.
Ma da quando i Celesti t’hanno mandato questa rovina,
ci sono intorno alla tua città soltanto battaglie e massacri.
Sii forte, non abbandonarti troppo al dolore in cuor tuo:
non ne trarrai un guadagno a disperarti per il tuo figliolo,
né potrai farlo rivivere, piuttosto ne avrai altro male!».
Gli rispondeva allora il vecchio Priamo simile a un dio:
«Non invitarmi a sedere, alunno di Zeus, fino a quando
Ettore sta nella tenda privo di esequie, restituiscilo invece
al più presto, ch’io lo riveda con i miei occhi; tu accetta
il grande riscatto che porto: possa goderne,
e ritornare nella tua patria, dato che prima di tutto
m’hai lasciato in vita, a vedere la luce del sole».
A lui, guardandolo storto, disse Achille, veloce nei piedi:
«Non continuare, vecchio, a irritarmi: io stesso penso
a liberare Ettore, è venuta da me portavoce di Zeus
la madre che m’ha partorito, la figlia del vecchio del mare.
Anche su te vedo chiaro, Priamo, tu non m’inganni,
che un dio t’ha scortato alle rapide navi degli Achei.
Nessuno, nemmeno nel fiore della giovinezza, oserebbe venire
qui al campo: non sfuggirebbe alle guardie, né facilmente
potrebbe spostare la spranga della mia porta.
Smetti dunque di tormentarmi l’anima con i dolori,
potrei, vecchio, non tollerarti più nella tenda,
benché supplice, e venir meno al comando di Zeus».
Disse così, il vecchio ebbe paura e obbedì all’ordine suo.
Il Pelide balzò come un leone fuori la porta della sua tenda,
non da solo, anche i due scudieri uscirono con lui,
l’eroe Automedonte ed Alcimo, che Achille stimava
più degli altri compagni, dopo la morte di Patroclo,
i quali sciolsero allora muli e cavalli dal giogo,
fecero entrare l’araldo, il banditore del vecchio,
lo fecero sedere; poi dal carro ben lucidato
scaricarono l’immenso riscatto del corpo di Ettore.
Ma vi lasciarono dentro due mantelli e un chitone
ben lavorato,
per restituire il morto dopo averlo vestito.
Chiamate poi le ancelle, ordinò di lavarlo e di ungerlo
portatolo altrove, perché Priamo non vedesse il figlio,
se mai non riuscisse a trattenere lo sdegno nel cuore adirato,
alla vista del figlio, e ad Achille montasse la furia,
e l’ammazzasse, venendo meno al comando di Zeus.
Quando poi le donne lo ebbero lavato ed unto di olio,
e gli misero indosso il chitone ed un bel mantello,
Achille stesso l’alzò, l’adagiò sopra la bara,
i compagni quindi lo posero sopra il carro ben lucidato.
(Omero, Iliade, trad. it. di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1996)
Mi sembra bellissima la traduzione, nel senso che è comprensibile e solenne allo stesso tempo. Mi sembra migliore anche di quella della Calzecchi Onesti ( ma come si fa a chiamarsi così!).