IL MANIFESTO 2 NOVEMBRE 2024
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Liguria, gli errori di Conte e i ritardi di Schlein
Opposizione La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre
Elly Schlein e Giuseppe Conte – Ansa
foto da Grosseto Notizie
La dinamica che ha portato all’esito delle elezioni liguri è molto evidente, molto meno semplice cercare di capire la lezione che se ne può trarre. Sul primo aspetto, la diagnosi è facile: il campo delle opposizioni, che a giugno aveva oltre 22mila di vantaggio, si ritrova ora sotto di 8.500 voti. Le defezioni sono quella degli elettori dell’area centrista (dall’8% al 2%) verso Bucci, e soprattutto quella del M5S che aveva il 10,2% e quasi 65 mila voti, e che ottiene ora il 4,6% e 26 mila voti.
Fin qui i numeri: poi cominciano le interpretazioni, soprattutto perciò che riguarda il M5S. Hanno pesato certo anche ragioni contingenti (la resa dei conti finale con Grillo poteva essere rimandata), ma siamo di fronte ad un dato strutturale, che però non costituisce più una giustificazione, ma semmai un’aggravante. Le dimensioni del crollo in Liguria sono del tutto simili a quelle registrate nelle altre tre elezioni regionali tenutesi quest’anno: in Basilicata (dal 25% delle politiche 2022 al 7,7%); in Abruzzo (dal 18,4% al 7%) ed anche in Sardegna, dove pure la candidata M5S ha vinto (dal 21,8% al 7,8%).
Eppure, se bisogna credere ai sondaggi, sul piano nazionale il M5S sembra tenere intorno al 10%. Come spiegare questo divario? Non occorre qui richiamare le caratteristiche dell’elettorato del M5S, su cui ci siamo soffermati in altre occasioni. Tutto ancora valido; ma ora si deve aggiungere un altro elemento: si è dimostrata inefficace la strategia perseguita da Conte in questi mesi, fondata su una cauta ridislocazione del M5S sul versante «progressista», ma insieme sulla puntigliosa ricerca di distinzioni e su un continuo stop and go nei rapporti con i possibili alleati.
L’idea era forse che, in tal modo, si potesse stemperare la storica diffidenza degli elettori M5S verso gli altri partiti (e verso il Pd, in specie). Non ha funzionato: gli effetti sono stati quelli di un disorientamento dell’elettorato M5S (ora forse aggravato dall’aggressione di Grillo) e da una percezione di indeterminatezza sulla effettiva collocazione del partito. Nel dubbio, molti elettori si astengono, o si disperdono nelle più varie direzioni (lo si è visto anche in Liguria), specie quando la posta in gioco non viene sentita come rilevante e non può pesare il personale appeal del leader.
Bisogna sperare che la prossima assemblea “costituente” del M5S possa chiarire qualcosa, nell’interesse stesso della costruzione di un’alternativa. Sì, perché oramai dovrebbe essere chiaro che, se il M5S non tiene i suoi elettori, questi non è che andranno di corsa a rifugiarsi nelle braccia accoglienti del Pd o di AVS: troppo profonda la frattura maturata nell’ultimo decennio, per pensare che possa facilmente ricucirsi. È un segno di cecità politica, anche a sinistra, auspicare che il M5S imploda definitivamente: non sarebbe la sinistra a raccoglierne i cocci.
Ma se non ha funzionato la strategia del M5S, non si può nemmeno dire abbia funzionato del tutto quella del Pd: sì, certo, il partito è in ripresa, i voti arrivano, il Pd è un partito robusto, ma in un contesto in cui non ha una coalizione stabile (se si esclude il rapporto con AVS) e in cui quindi debole appare l’indicazione dell’orizzonte politico-strategico. Il tentativo della segretaria è stato quello di rendere credibile un campo di alleanze grazie alla paziente ricerca di convergenze su singole questioni. Ma è stata come una tela di Penelope: appena trovato un tema di accordo, subito dopo scoppiava un qualche incidente, che rovinava ogni messaggio di coesione.
Anche nelle interviste post-elettorali, Schlein insiste su questa linea, indicando cinque punti (sanità, scuola, lavoro, politiche industriali, diritti): tutto giusto, ma cosa non convince di questa impostazione?
La sensazione è che non basti mettere una dietro l’altra le varie questioni, e che manchi una visione d’assieme, capace di unire e mobilitare davvero le forze interessate ad un cambiamento. Una proposta di governo, certo, ma fondata su una lettura critica della società italiana e dei suoi nodi strutturali, e su un’azione che sappia individuare, e poi provare a ricomporre, i soggetti sociali (oggi molto frammentati) che in tale proposta si possano riconoscere.
La nota dolente, tuttavia, qui è duplice: per poter proporre agli altri una visione che tenga insieme i singoli aspetti programmatici occorre che il Pd, per primo, ne abbia una sua propria coerente (e non è certo solo un problema di oggi), e che scelga cosa dire su molte questioni su cui invece appare ancora forte la reticenza o l’ambiguità: prima fra tutte, la politica internazionale e il disarmo, ma poi anche le politiche istituzionali, o alcune grandi questioni economico-sociali come le riforme fiscali mirate ad una radicale redistribuzione del reddito.
E poi, lo strumento-partito: era stata annunciata l’anno scorso una conferenza organizzativa. Mi sembra sia un po’ sparita dall’orizzonte: sarebbe un errore. E non solo perché, così com’è, la macchina del partito è inadeguata (ad esempio, nell’assicurare un qualche presidio nelle tante aree marginali del paese), ma anche perché non funziona proprio quello che più servirebbe: sedi, canali e procedure di dibattito e di elaborazione politica ed intellettuale. Altrimenti, la visione, la propria e quella da discutere con gli altri, svanisce nel nulla.
ANTONIO FLORIDIA E FABRIZIO BARCA — IN DIALOGO
da : LA STAMPA- 22 – 12 – 2022
Antonio Floridia, autore di “PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi” (Castelvecchi), risponde alle domande di Fabrizio Barca. Ne pubblichiamo il dialogo.
Fabrizio Barca: «Da tempo stai addosso al Pd per spiegargli che non si riconnetterà alla società se non riformerà la sua organizzazione. Figurati se non sono d’accordo. Nello scorso decennio, ho investito tre anni per sperimentare nel Pd un modello organizzativo, partecipativo e autorevole, che, senza illusioni di ritorno al partito di massa, diventasse “spazio di democrazia” interessante per i cittadini attivi organizzati. E dove il Centro del partito avesse un luogo ristretto di confronto e decisione di 15-17 membri, non gli oltre 150 di oggi! Quel progetto, “Luoghi Ideali”, fu respinto. Oggi tu rilanci.
Ma prima ti tocca convincerci che, nella crisi in cui siamo, il tema non sia prima di tutto… avere un’identità?».
Antonio Floridia: «Non è solo una questione organizzativa: è in gioco un intero modello di democrazia e partecipazione. Un grande handicap del Pd, sin dall’inizio, è stata l’illusione del “partito post-ideologico“, che tenesse insieme tutti i “riformisti” (ma per quali riforme?) sulla base delle “cose da fare”. Un partito democratico e di sinistra deve reggersi sulla connessione di tre livelli, tutti indispensabili: visione; grandi missioni strategiche; proposte per attuarle.
Ma, ecco il tema, se non sai come cercare tutto questo, discuterlo, elaborarlo collettivamente e poi decidere e tradurlo in azione politica, allora la “visione” che guida il partito (se c’è) è affidata alle capacità e lungimiranza (eventuale) di un leader e della sua cerchia ristretta: non è identità collettiva».
FB: «A me convinci. Lasciami aggiungere che il vuoto di visione di cui parli si apre per il modo con cui in Italia, solo in Italia, i partiti del dopoguerra, Dc, Pci, Psi e Pri in primis, chiudono i battenti, agitando pentitismo e discontinuità tutta di immagine, e gettando alle ortiche, con gli errori, le riflessioni profonde, le tracce di programma frutto del rinnovato incontro fra culture cattolico-democratica e cristiano-sociale, social-comunista (via italiana) e liberal-azionista. Ma allora, prima di venire al che fare, dicci le tare organizzative con cui nasce il Pd.
Non avevano ragione a pensare che l’organizzazione dei partiti di massa non fosse più costruibile?».
AF: «Più che di “tare”, parlo di “miti fondativi”. Prima di tutto, il mito del “partito aperto”. Per essere veramente “aperto” alla società, un partito deve saper essere “chiuso” nel modo giusto, cioè avere una dimensione associativa definita e precisi confini organizzativi. A chi si iscrive bisogna garantire ruoli attraverso la partecipazione; altrimenti si svaluta l’idea stessa che un cittadino possa “concorrere con metodo democratico” alla “determinazione della politica nazionale” attraverso un partito. E invece nel PD vige una democrazia plebiscitaria: una logica di mera investitura del leader. Sono i candidati-leader a “fare eleggere” gli organismi dirigenti, non questi che eleggono il segretario. Da una parte, un segretario eletto da un corpo indefinito di «elettori», che contratta il consenso con le filiere di notabili, delegando loro il controllo del partito periferico; dall’altra, l’Assemblea nazionale (eletta con liste bloccate collegate ai candidati) e la Direzione, entrambe riflesso di questa logica top-down.
È ipocrita poi lamentarsi delle “correnti”, quand’è la stessa costituzione “formale” e “materiale” del partito a prevederle intrinsecamente, e non come aree politico-culturali, ma come aggregazioni di cordate legate ai candidati-segretari».
FB: «Ma gli ultimi quattro Segretari del Pd hanno tutti proposto strade per “riconnettersi alla società”. Bersani, annunziando una ri-organizzazione. Renzi, con i tavoli della Leopolda. Zingaretti con la prospettiva di una “piazza grande”. Letta con le Agorà. Cosa non andava in questi passi?».
AF: «Ne parlo nel libro: ma Renzi è un caso a parte, le Leopolde sono state espressione di un “partito parallelo”. Bersani cominciò a vedere cosa non andava e avviò una prima “manutenzione” dello Statuto, ma saltò tutto per la crisi dell’estate 2011.
Con Zingaretti, nel 2019, ci furono modifiche positive dello Statuto e, per l’analisi e le strategie, arrivò il convegno bolognese, che voi del ForumDD foste chiamati ad aprire.
Ma anche in quell’occasione il Pd si rivelò un partito “in gabbia”: il gruppo dirigente si rifiutò di aprire un confronto.
Le Agorà di Letta provano a creare spazi di confronto, ma la crisi di governo e poi le elezioni impediscono di verificarne l’esito: in che modo le idee emerse dalle Agorà avrebbero dovuto e potuto essere “assunte” dal partito nel suo complesso?».
FB: «Ti seguo. Nelle Agorà, noi del ForumDD portammo cinque proposte, dopo un confronto acceso, che risultarono fra le 10 più votate su oltre 900. Attendevamo in tanti la risposta alla tua domanda. Comunque sia, dopo questi tentativi incompiuti, come realizzare quella “partecipazione” alle missioni e proposte di un partito che è il requisito per riconnettersi alla società?».
AF: «Si tratta di adottare una pluralità di metodi che si ispirano a una nozione classica di “deliberazione”: la discussione che precede la decisione, in cui si soppesano pro e contro, si condividono e criticano proposte.
La condizione è che ci siano procedure interne che facilitino e prevedano questa circolarità tra discussione collettiva e decisione. Nel libro faccio esempi precisi. Si tratta di metodi che cominciano a diffondersi in molte organizzazioni. Ad esempio, si potrebbe concepire così anche la Conferenza programmatica annuale, prevista dallo Statuto del 2007 e mai organizzata!».
FB: «Sono d’accordo. Questo renderebbe il Pd un partito interessante per quei 2-3 milioni di persone, fuori o anche lontane dai partiti, che sono impegnate a cambiare per il giusto la società e oggi non trovano, e così troverebbero, un interlocutore. Ma dicci un’altra cosa, decisiva: nell’assetto attuale, invece, come avviene la formazione e selezione di classe dirigente?».
AF «Dalle Leopolde di Renzi alle Agorà di Letta, i tavoli con la società dei segretari Pd sono falliti» «Il modello organizzativo del Pd ha avuto gravi conseguenze anche su questo versante: non ha fatto emergere quadri dirigenti che si forgiassero nel vivo di una battaglia politica “dal basso”, attraverso la “sperimentazione” delle proprie capacità di direzione politica. Come motore è rimasta solo l’aspirazione a ricoprire una carica pubblica.
Del resto, il partito ha sempre meno risorse finanziarie: chi fa politica a tempo pieno lo fa inevitabilmente con l’obiettivo di una qualche carriera istituzionale. Così si svuotano i circoli, e alla fine, come ha mostrato la vostra indagine sul Pd di Roma, essi spesso diventano solo il quartier generale di un capocorrente.
FB: «Ma allora, venendo all’oggi, chi si candida a dirigere il Pd non può scantonare dalle tue considerazioni e proposte. Oltre a una diagnosi delle cause delle ingiustizie sociali e ambientali, e oltre a visione, strategia e proposte, bisogna avere un disegno organizzativo.
Non sono affatto sicuro che il Pd, per quanto detto, possa diventare quel “partito della giustizia sociale e ambientale” che serve a liberare il fermento sociale e ambientale del Paese. Ma poiché diagnosi, visione, strategia e proposte per andare in quella direzione una delle persone candidate le pensa, le pratica e le dice — Elly Schlein – se esiste una chance che il Pd divenga ciò che serve al Paese quella chance l’ha in mano lei.
E allora tu le dici: convincici anche che, vinto il Congresso con le regole del gioco di oggi — è durissima! — costruirai un’organizzazione che ti consenta di realizzare l’identità che hai in testa».
AF: «Anch’io sono scettico sulle reali possibilità di auto-riforma del Pd. Ma non condivido nemmeno un giudizio “metafisico”, definitivo, sulla “natura” del Pd, quale viene espresso da tutti coloro che lo ritengono “oramai” perduto ad ogni buona causa della sinistra. Ma per rivitalizzare un organismo oramai stremato non basta indicare i nuovi “contenuti”: occorre puntare su un profondo mutamento del modello di partito. Su questo punto i candidati in corsa dovrebbero chiaramente pronunciarsi». —
A tutte queste diagnosi, sicuramente veritiere, aggiungerei anche, per quanto riguarda il PD, la debolezza del candidato Orlando.