grazie alla nostra vigile DONATELLA ! IL FATTO QUOTIDIANO 21 OTTOBRE 2024 — MARCO PAOLOMBI: 1- Impoverire lo Stato e tenere bassi i salari: i “flexible benefit”. Welfare aziendale – La detassazione al posto degli aumenti: i lavoratori ci guadagnano spiccioli e perdono pensione e Tfr + 2. INTERVISTA DI PALOMBI A CECILIA GUERRA SUL TEMA

 

 

 

MARCO PALOMBI 1– 

IL FATTO QUOTIDIANO 21 OTTOBRE 2024 –
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/10/21/impoverire-lo-stato-e-tenere-bassi-i-salari-i-flexible-benefit/7737559/

 

 

 

Impoverire lo Stato e tenere bassi i salari: i “flexible benefit”

 

 

Welfare aziendale – La detassazione al posto degli aumenti: i lavoratori ci guadagnano spiccioli e perdono pensione e Tfr

 

 

 

Dice il signor padrone: “Vuoi un aumento? Ti do una bella detassazione: tu vedi aumentare il netto in busta paga e non t’accorgi della decurtazione del salario differito (Tfr, pensione, etc), io deduco tutto, il grosso lo paga lo Stato, che se proprio deve risparmiare può tagliare servizi”.

Se pensate che sia fantascienza lasciate che vi siano presentati

il welfare aziendale,

flexible benefit e, tra questi, i cugini scapestrati,

fringe benefit,

talmente cari a Giorgia Meloni, che in manovra al tema ha appena dedicato circa 900 milioni, cioè la stessa cifra stanziata per la sanità. Se il lavoro povero record e il neoschiavismo da pagine di cronaca sono il volto sporco della deflazione italiana, i benefit e il welfare aziendale ne sono la faccia per bene e up-to-date, la via sorridente – e ovviamente digitale – alla trasformazione del sistema economico in senso anti-costituzionale.

 

LEGGI – Maria Cecilia Guerra: “Detrazioni da ridurre e invece si fa il contrario”

VEDI SOTTO

 

Metalmeccanici. Non certo di sola Meloni vivono questi pezzi di salario generosamente pagati dalla fiscalità generale per essere destinati a una minoranza di lavoratori (un quinto circa, spesso tra quelli meglio pagati). A fine 2023 il welfare aziendale era presente in 18 contratti nazionali firmati da Cgil, Cisl e Uil e in oltre la metà degli accordi territoriali o aziendali: adesso Confindustria propone ai metalmeccanici – che nel loro Ccnl del 2021 hanno già 200 euro l’anno di welfare aziendale – non gli aumenti richiesti per recuperare l’inflazione di questi anni, ma il raddoppio dei benefit detassati a 400 euro. Per ora Fiom, Fim e Uilm hanno detto no, ma il segnale su dove vuole andare l’imprenditoria italiana è chiaro: la soluzione ai salari bassi non sta nelle sue tasche, ma negli spiccioli a qualche lavoratore pagati da tutti. Tradotto: nei sussidi alle imprese per abbattere il costo del lavoro.

 

Di cosa stiamo parlando? In principio in Italia fu il welfare contrattuale, fin dall’inizio incentivato dallo Stato per via fiscale: negli anni Novanta si puntò sui fondi destinati dai contratti nazionali – e gestiti da enti bilaterali (cioè imprese e sindacati) – a previdenza e sanità integrative. La cosa ha via via preso sempre più piede allargandosi ad altri ambiti (trasporto pubblico, spese per l’istruzione, assistenza ai familiari, etc.) e così – sempre generosamente sovvenzionato dallo Stato – ci siamo ritrovati col welfare aziendale vero e proprio, cioè beni e servizi erogati dalle imprese ai propri dipendenti sia per via di accordi territoriali o aziendali sia in modo unilaterale: negli anni siamo passati dall’auto e dal telefono aziendale al buono spesa, ai soldi per le vacanze, la baby sitter, la palestra, i biglietti dei concerti, fino al rimborso delle bollette. Questi sono i flexible fringe benefit, i benefici flessibili o accessori che – secondo i report delle piattaforme che li intermediano – valgono ormai oltre il 60% della spesa in welfare aziendale e sono in costante crescita, specie dal 2021 in poi, anche grazie all’innalzamento delle soglie di deducibilità (oggi a mille euro, che diventano duemila per chi ha figli a carico).

 

C’è un problema. Come si vede, ammesso che il welfare aziendale sia una bella idea, i flexible e i fringe benefit col welfare c’entrano poco: sono di fatto pezzi di salario defiscalizzato, cioè pagato da tutti, messi a disposizioni dei lavoratori attraverso buoni cartacei o più spesso elettronici, che si stanno diffondendo anche nei livelli “bassi” dei redditi da lavoro. L’esplosione del fenomeno della detassazione di pezzi di salario, non sorprenderà nessuno, fa un passo in avanti con il Jobs act: dal 2016 i premi di produttività possono essere interamente convertiti in buoni welfare. Per capirci su come funziona la fregatura useremo proprio il premio di produttività trasformato in benefit, un’opzione che oggi riguarda circa tre milioni di lavoratori: su mille euro annuali il lavoratore risparmia il 20% in tasse e contributi, l’impresa il 40%. Ma il lavoratore non guadagna solo, perde pure: uno studio della Fondazione del Monte del 2019 sulle aziende modenesi ha rilevato che la conversione totale dei premi in welfare costerà ad un lavoratore giovane (25-35 anni) tra gli 80 e i 115 euro al mese di pensione. Capita pure che lo zuccherino della detassazione al posto dell’aumento sia usato per far ingoiare ai lavoratori la rinuncia a qualche diritto: in settori come il commercio o la grande distribuzione i programmi di welfare aziendale (più netto in busta paga), convivono con rinnovi di contratto con aumenti di stipendio ben inferiori all’inflazione e col peggioramento delle condizioni di lavoro (domeniche pagate meno, flessibilità organizzativa estrema, contratti a termine senza causali, eccetera).

 

Chi ci guadagna. Dall’altra parte dello spettro ci sono le piattaforme digitali che offrono alle imprese i pacchetti di welfare – in genere carte o voucher – che poi dovranno usare i lavoratori (ovviamente pagando una percentuale): secondo un loro report il giro d’affari 2023 del welfare aziendale è stato di 2,8 miliardi e il settore della finanza tech ci si sta buttando a pesce. Ci guadagnano, ovviamente, anche le imprese, specie le medie e le grandi, che drenano l’80% del welfare aziendale, specie nel CentroNord. Ci guadagnano le assicurazioni, che hanno visto aumentare le polizze sanitarie e previdenziali e pure i ricavi per le spese di gestione dei fondi contrattuali degli enti bilaterali – giova ripeterlo: sindacati e associazioni datoriali – che raramente sono in grado di gestirli direttamente.

 

Chi ci perde/1. In primo luogo quei lavoratori, quattro su cinque, che non hanno accesso al welfare aziendale che pure finiscono per pagare con le loro tasse. Ci perde, infatti, anche lo Stato, che rinuncia tutti gli anni a miliardi di introiti sotto forma di tax expenditure: è uno dei rivoli del cosiddetto “welfare fiscale” (detrazioni sulla casa, sulla salute, sul lavoro, etc.), la cui spesa è esplosa nell’ultimo quindicennio arrivando a superare quella per il welfare sociale, cioè quello erogato direttamente dallo Stato. Una pessima idea. Come hanno scritto Emmanuele Pavolini e Matteo Jessoula, autori di La mano invisibile dello Stato sociale. Il welfare fiscale in Italia (Il Mulino, 2022), “non soltanto il welfare fiscale tende a produrre effetti distributivi prevalentemente regressivi, ma risulta essere una scelta spesso poco efficiente dal punto di vista dell’allocazione delle risorse pubbliche e in ultima analisi inefficace rispetto al perseguimento di obiettivi di interesse collettivo”. Ad esempio, mentre si tolgono soldi al Servizio sanitario nazionale, si finanziano fiscalmente assicurazioni sanitarie o fringe benefit destinati, di fatto, a sostituire (solo per alcuni) le prestazioni che il pubblico non eroga più per mancanza di fondi: “Le ricerche sui vari settori di policy contenute nel volume mostrano infatti come i decisori politici abbiano fatto ricorso a strumenti di welfare fiscale per convogliare risorse pubbliche verso il settore privato”. Si pensi alla defiscalizzazione totale o parziale delle assunzioni, che vale una decina di miliardi l’anno, quasi sempre senza produrre occupazione aggiuntiva.

 

Chi ci perde/2. Esiste una inconciliabilità di fatto tra l’esistenza di un diffuso welfare aziendale e quella di un welfare pubblico universalistico: scuola e sanità per tutti, per non fare che due esempi, non possono sopravvivere alla continua erosione di gettito contrattata tra mondo dell’impresa, decisori politici, qualche tecnico/lobbista e, alla bisogna, sindacati abituati alla contrattazione al ribasso. Il mondo post-costituzionale che viene non sarà un bel posto per i lavoratori, neanche quelli col bonus in tasca: affidare pezzi sempre più grandi di welfare a uno specifico posto di lavoro, restringendo lo spazio dei diritti di cittadinanza, significa dare ancor più – specie senza articolo 18 – il manico del coltello in mano all’impresa nel conflitto distributivo. Addio posto, addio welfare.

 

 

2. MARCO PALOMBI 2–

 

IL FATTO QUOTIDIANO –LUNEDI’  21 OTTOBRE  2024

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/10/21/detrazioni-da-ridurre-e-invece-si-fa-il-contrario/7737561/

 

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l’intervista

Benefit e salari, l’economista Maria Cecilia Guerra: “Detrazioni da ridurre e invece si fa il contrario”

 

Deputata del Pd già sottosegretaria al Lavoro – “Finanziamo un sistema iniquo, che contrasta col welfare universalitico”

 

 

 

Maria Cecilia Guerra è una deputata del Pd, già sottosegretaria al Lavoro e all’Economia, ma è anche una dei pochi economisti italiani ad essersi interessata al welfare aziendale e ai flexible benefit. Qualche giorno fa però, dopo la proposta di Federmeccanica di cui vi parliamo qui accanto, ha abbandonato gli usuali toni accademici: “Si trasforma un pezzo di salario in benefit, agevolati fiscalmente ma privi di contribuzione. Un bel vantaggio per i datori di lavori, una bella fregatura per il lavoratore. E una fregatura ancor più grossa per chi i benefit non li ha… e neanche gli aumenti”.

 

Eppure il peso dei benefit nella contrattazione aumenta.Intanto è un processo molto variegato, che va scomposto. I benefit possono essere contrattuali, ma anche individuali e assegnati unilateralmente dall’azienda. In generale un welfare aziendale che affianca e rafforza settori come previdenza e sanità è una cosa, altro sono forme come la monetizzazione di beni e servizi, ad esempio il bonus spesa, che hanno poco a che fare col welfare. 

Ma è proprio la monetizzazione che cresce di più.

E per questo vanno ricordate due cose: in primo luogo la vita di queste forme di welfare è legata a misure fiscali, pagate da tutti; in secondo luogo che a prima vista si tratta di un vantaggio per il lavoratore perché aumenta il netto, ma su quei soldi manca la contribuzione e la cosa per il lavoratore avrà un impatto negativo al momento della pensione.

 

E questo costa pure bei soldi al fisco.

Stiamo dando agevolazioni fiscali a una componente limitata di persone e creando, via spesa pubblica, un sistema di welfare lavoristico, cioè legato al posto di lavoro, e non universale. Bisogna ricordare che passo avanti fu l’abbandono delle mutue per servizi universali, a partire dalla sanità, basati sui diritti di cittadinanza. Ripeto: accompagnare il welfare universale è un conto, ma se il pubblico si ritira e i benefit servono a saltare la fila per le analisi non va bene. È un problema serissimo: si incentiva un sistema iniquo che contrasta col principio di universalità.

 

Spesso non è chiaro che il welfare aziendale in Italia è in sostanza spesa pubblica.

In generale c’è scarsa consapevolezza che le agevolazioni fiscali sono una spesa e dunque sottraggono risorse alla collettività: andrebbero valutate come un qualunque trasferimento monetario. Ad esempio il raddoppio, voluto dal governo Meloni, della decontribuzione per i fringe benefit ai lavoratori con figli sono il contrario del welfare universale, il contrario dell’assegno unico.

 

Spieghi perché non va bene a un lavoratore che vede aumentare il suo netto.

È una decomposizione del salario con una parte della contrattazione che finisce a carico della fiscalità generale pur essendo diretta a una minoranza di lavoratori: la contrattazione secondaria riguarda in genere le grandi imprese e non le piccole, più l’industria dei servizi, più il Nord del Sud, più gli uomini che le donne.

 

Perché allora è in aumento?

Di fatto è una reazione, finanziata dallo Stato, al problema dei bassi salari attraverso una scorciatoia ingiusta: la contrattazione va riportata sulla retta via e il lavoratore pagato in modo equo, come prevede la Costituzione, tanto più che stipendi equi sostengono la produttività e l’innovazione nelle imprese. Bisognerebbe contenere le agevolazioni fiscali e invece si fa il contrario, consentendo anche di trasformare il premio di produttività in welfare aziendale.

 

Quella fu un’innovazione del Jobs act, governo del Pd: lei poi uscì, con altri, dal partito di Renzi, ma il fatto resta.

Credo che in quella fase storica il gruppo dirigente del Pd pensò che il sostegno fiscale ai premi di produttività e al welfare aziendale fosse un modo per favorire la contrattazione decentrata, mentre ora credo sia evidente a tutti quanto conti la contrattazione nazionale anche per contenere disuguaglianze e sfruttamento. Un tema che non può essere disgiunto da quello della rappresentanza sindacale, cioè da chi è titolato a questa contrattazione nazionale. Penso che nel Pd questo adesso sia chiaro, come pure è chiara la necessità di rafforzare il welfare universale.

 

Altro tema: perché, se è vero quel che ci siamo detti, i sindacati confederali accettano sempre più spesso i flexible benefit nei loro contratti.

Sono in difficoltà, pressati da più lati e si adattano perché almeno ottengono un risultato: i lavoratori vedono aumentare il netto in busta paga, anche se sottovalutano l’assenza di contributi, le imprese pagano meno il lavoro e, mi lasci aggiungere, le piattaforme che gestiscono i pagamenti fanno grandi guadagni.

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  1. Chiara Salvini scrive:

    chiara : ancora voglio ringraziare Donatella La Bella perché non fosse lei a tenerci il passo, finiremo per passare da un problema psicologico ad un altro più filosofico e perderemmo di vista la realtà — ( quella ” Reale “, appunto !)

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