ALBERTO LEISS, IL SUICIDIO DI ISRAELE E’ ANCHE IL NOSTRO—IL MANIFESTO 8 OTTOBRE 2024 + Anna Foa, Il suicidio di Israele, Laterza 2024; +++ OTTO E MEZZO 7 OTTOBRE 2024 –Ospiti di Lili Gruber sono Anna Foa, Lucio Caracciolo, Beppe Severgnini, Marco Travaglio e una giornalista di Beirut di cui non ho preso il nome + altro

 

 

 

 

IL MANIFESTO 8 OTTOBRE 2024
https://ilmanifesto.it/il-suicidio-di-israele-e-anche-il-nostro

 

 

Rubriche

Il suicidio di Israele è anche il nostro

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

 

 

A un anno dal 7 ottobre la parola che occupa cervello e anima è “orrore”. Il grido di Kurtz, alla fine di Cuore di tenebra, ripetuto da Marlon Brando in Apocalypse Now.

Ma non è la stessa cosa che ritorna in questo nuovo millennio.

Capisco che giovani palestinesi e amici dei palestinesi esprimano rabbia per i massacri di innocenti. Ma la violenza contro la violenza del potere è un errore. Un errore ancora più grave scambiare per un atto di “resistenza” il pogrom spietato agito da Hamas un anno fa. Contro molte famiglie ebree che erano per la pace e l’incontro con i palestinesi.
L’”orrore” qui si carica dei significati più disperanti.

I capi di Hamas hanno tradito e stravolto le ragioni del popolo che dicono di voler difendere, scatenando scientemente la violenza senza limiti di Israele.

«La guerra – ha scritto su La Stampa lo scrittore ebreo Roy Chen – non ci è caduta addosso dal cielo. È opera di leader estremisti da entrambe le parti, di politici megalomani che si atteggiano a messaggeri di Dio (…) disposti a sacrificare il loro popolo per scopi personali». E ancora: «Non si può riparare un’ingiustizia con un’altra ingiustizia. Lo rammento ai palestinesi che vogliono, giustamente, correggere l’ingiustizia storica subita per mano di Israele. E lo rammento agli ebrei israeliani che dopo la Shoah ambivano a offrire al mondo standard morali nuovi, umani. A giudicare da quello che succede in questo momento storico, stanno fallendo».

Ma ha senso parlare di un “fallimento” di Israele, quando la “geometrica potenza” di Netanyahu, con l’ambiguo appoggio degli Usa e di tanta parte dell’occidente, sta eliminando con bombe e stragi molti nemici? E promette un “nuovo ordine” in Medio Oriente?

Lo afferma, in un libro appena uscito (Il suicidio di Israele, Laterza, ottobre 2024) Anna Foa. E potrei finire qui, consigliandone la lettura.

Aggiungo un pensiero. Il “fallimento” di Israele è disegnato – semplificando all’estremo una vicenda molto complessa – dalla soluzione di una contraddizione tra chiusura identitaria e apertura universalistica che attraversa tutta la storia e la cultura ebraica, e quella di Israele. Col potere di Netanyahu, “laico” di destra, rischia di affermarsi la visione religiosa integralista e suprematista.

Questo “fallimento” è simbolo e sintomo di una catastrofe per tutto l’occidente “democratico”, che dall’universalismo anche di origine ebraica ha avuto origine. Qualcosa che riguarda da vicino la sinistra, orfana di una visione del mondo dopo la fine del “socialismo realizzato”.

 

Ricordiamo che Marx era nipote di due rabbini, che gran parte del gruppo dirigente bolscevico (e forse lo stesso Lenin) era di origini ebraiche, e che Stalin – il quale favorì decisamente la nascita dello Stato di Israele – fu anche responsabile di crudeli persecuzioni antisemite. È una storia tremenda, che non tollera semplificazioni.

 

Tommaso Di Francesconell’inserto a un anno dal 7 ottobre realizzato da questo giornale, citando i versi di Mahmud Darwish («Abbiamo un paese che è di parole/ E tu parla, ch’io possa fondare la mia strada su pietra di pietra…») ha indicato nella scrittura palestinese «l’arma più resistente». Un capovolgimento simbolico rispetto al popolo che, secondo Heinrich Heyne, nei secoli della diaspora ha avuto nella Torah una «patria portatile» che ha influenzato il mondo.

E un libro aperto, ricco di poesia, non è l’unica patria desiderabile?

 

 

 

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ANNA FOA   (Torino23 dicembre 1944), figlia di Vittorio Foa ( 1910-2008 ). È da sempre impegnata sul fronte della memoria, della didattica della storia e della sensibilizzazione delle giovani generazioni alla conoscenza storica dei fatti riguardanti la Shoah e la deportazione nei campi di concentramento e di sterminio.

La formazione di Anna Foa si compie all’interno di un contesto familiare e sociale di tradizione antifascista, connotato da un forte impegno intellettuale, etico e politico. Come lei stessa scriverà, in famiglia «l’eroismo costituiva una modalità ovvia dell’essere […] comprendeva anche regole quotidiane di comportamento: non lamentarsi di ogni piccolo dolore, camminare senza fare storie, non piangere, tenere la testa alta, vivere una dimensione politica e non solo privata».

 

 

Laterza 2020, ultima edizione

 

Nel libro in cui racconta le vicende della sua famiglia ( La famiglia F., Laterza, 2017 . il racconto ” Oggi in Spagna “), Anna Foa confessa che dai sette ai dodici anni coltivò il desiderio, mantenuto segreto, di recarsi in Spagna per uccidere il dittatore Franco, aggiungendo: «l’aria che si respirava in famiglia era antifascista, senza compromessi»

 

 

nel link  sotto, dove segue la storia di  Anna Foa, sono presentati una serie di libri suoi con una breve didascalia–+++

https://it.wikipedia.org/wiki/Anna_Foa

 

 

 

Laterza 2024
pp.112

 

 

 

video, 33 minuti ca

OTTO E MEZZO – LA 7 – 7 OTTOBRE 2024  Ospiti di Lili Gruber sono Anna Foa, Lucio Caracciolo, Beppe Severgnini, Marco Travaglio e una giornalista di Beirut di cui non ho preso il nome

APRI QUI

https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/7-ottobre-dopo-un-anno-sempre-piu-guerra-otto-e-mezzo-puntata-del-7102024-07-10-2024-561364

 

 

 

 

 

NOTA :

 

 

Roy Chen | The Short Story Project

THE STORY PROJECT

 

 

Roy Chen è uno scrittore, traduttore e drammaturgo israeliano. La famiglia paterna arrivò in Palestina nel 1492 a seguito dell’espulsione dalla Spagna, la famiglia materna dal Marocco nel XX secolo. Nato a Tel Aviv nel 1980, è cresciuto con un nonno gioielliere e una nonna hostess poliglotta, un altro nonno pescatore e una nonna analfabeta, ma esperta nella sapienza antica del cuore. In gioventù, nell’ambito di una personale rivolta identitaria, Roy ha lasciato la scuola imparando da solo il russo. Negli anni, è diventato un traduttore di letteratura classica dal russo all’ebraico. Ha tradotto Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Cechov, Bunin, Charms e molti altri. All’età di diciannove anni ha iniziato a lavorare in teatro. Dal 2007 è diventato il drammaturgo stabile del Teatro Gesher, uno dei teatri più importanti di Israele.

Di lui la Giuntina ha pubblicato il romanzo Anime e la pièce teatrale Chi come me. 

 

 

 

 

anime

GIUNTINA 2022

 

La vita di Grisha si protrae da ormai quattrocento anni. È nato nel XVII secolo in un villaggio ebraico dell’Europa orientale e da allora si reincarna, muore e rinasce, di secolo in secolo, di luogo in luogo, di corpo in corpo. Vi sembra un’assurdità? Anche Marina, la mamma di Grisha, la pensa così! Infatti, mentre il figlio scrive le sue memorie, Marina di nascosto legge, e aggiunge in calce, clandestinamente, i suoi ricordi e la sua versione della storia. «Di vita ce n’è una sola,» commenta «tutto il resto è una metafora!». Madre e figlio si contendono così il cuore del lettore, proponendo due narrative opposte, due diversi modi di prendere corpo e reinventarsi, ognuno con i suoi brividi e le sue esultanze, i suoi dolori e le sue gioie.
Proprio come i protagonisti di questa storia, Anime è un libro dalla potenza multiforme che si muove agilmente tra epoche, paesaggi e fisionomie: conosce l’adrenalina del romanzo storico e le seduzioni del soprannaturale, raccoglie le emozioni del memoir e si abbandona al ritmo fulmineo del testo teatrale. Tutto questo per raccontare quel pungente senso di smarrimento e solitudine che contraddistingue ogni anima, cosmica o misera che sia, sempre in viaggio, di corpo in corpo e di vita in vita, alla ricerca di un’ultima, definitiva assoluzione.

 

“Maledizione, perché non è venuta in mente a me questa idea? Sarà per la prossima reincarnazione…”.
(Meir Shalev)

“Selvaggio, innovativo, sexy come il carnevale di Venezia”.
(Eshkol Nevo)

“Un’opera straordinaria, eccitante, un viaggio sulle montagne russe fatto di emozioni forti e umorismo ebraico”.
(HAARETZ)

“Il mondo immaginario di Roy Chen è sempre colorato, sorprendente, ispirato da un’inesauribile originalità. Ha il talento di cogliere ogni aspetto affrontandolo da un’angolatura imprevedibile”.
(CALCALIST)

 

 

 

chi-come-me

Giuntina 2024

 

Nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv, cinque adolescenti partecipano alle lezioni teatrali di Naamà, la giovane insegnante che il dott. Yoresh, il direttore dell’Istituto, ha voluto con sé per aiutare i ragazzi nel percorso terapeutico. Giorno dopo giorno, il potere del teatro e la gioia dello stare insieme riusciranno a incrinare le corazze forgiate negli anni da traumi e paure, e a far emergere quanto di autentico e vitale giace in fondo al cuore.
Frutto di un’esperienza reale dell’autore, Chi come me è un racconto di vite, famiglie e appartenenze diverse, ma è soprattutto un viaggio in compagnia di cinque indimenticabili ragazzi, ora intrattabili e ribelli, ora improvvisamente fragili e amabili, che insieme troveranno la forza di guardare dritto negli occhi il dolore e, forse, sorridergli.

 

dall’editore Giuntina

 

 

 

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SEGUE DA REPUBBLICA 30 MARZIO 2024  apri qui

 

Roy Chen: “Curo con il teatro l’ansia dei ragazzi”

 

Roy Chen: “Curo con il teatro l’ansia dei ragazzi”

 

 

Lo scrittore e drammaturgo israeliano, porta al “Parenti” di Milano lo spettacolo “Chi come me”. Un lucido e toccante dramma sul disagio giovanile. Che è aumentato con la pandemia e la guerra

Per fare un esempio, c’è Alma, adolescente irregolare, che è euforica e un minuto dopo intrattabile. O Tom/Tamara maschio infelice in un corpo di femmina, o Emanuel che si comporta da disadattato. Chi come me è un lucido e toccante dramma teatrale sul disagio giovanile. Una storia dolorosa, tenera, gioiosa, sulle ansie, fragilità e paure che bloccano nella loro solitudine cinque ragazzi di oggi, tra i 12 e i 18 anni, e su come, attraverso il teatro, trovano la via per guardarsi dentro, parlare con gli altri, vivere meglio. Una storia incredibilmente vera, frutto di un’esperienza reale, intima, nel centro di salute mentale per giovani difficili dTel Aviv, fatta nel 2019 dall’autore della pièce, Roy Chen.

 

Conosciuto in Italia per il fortunato, vertiginoso romanzo Anime, edito da Giuntina, lo stesso editore che entro l’anno pubblicherà anche la nuova opera letteraria, titolo provvisorio Il grande rumorepremio Shai Agnon. (1 nota ) Roy Chen è uno scrittore, traduttore e drammaturgo israeliano tra i più amati e conosciuti e Chi come me (Giuntina, traduzione di Shulim Vogelmann) è il suo successo teatrale, in scena da quattro anni in Israele e ora all’esordio italiano. Con la regia di Andrée Ruth Shammah (l’ultima prima del ritiro, annuncia l’artista), interpreti Sara Bertelà, Paolo Briguglia, Elena Lietti, Pietro Micci con cinque adolescenti non professionisti Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani, si vedrà dal 5 aprile al Teatro Franco Parenti, dove inaugura il spazio nuovo A2A della originale multisala milanese. «Non vedo l’ora», dice Roy Chen in perfetto italiano, al telefono da Amburgo dove prepara un altro debutto, il 4 maggio, dell’ultimo suo testo teatrale scritto con Yael RonenState of affairs, che ha gli echi del nostro tempo incandescente e doloroso. Tanto più per Roy Chen, 44 anni di Tel Aviv , drammaturgo stabile del Teatro Gesher a Jaffa, dove da quel 7 ottobre 2023 programma per i bambini l’Odissea perché «è una storia mitica che parla un po’ anche della nostra storia», dice.

 

Roy, i giovani sono le prime vittime del trauma della guerra.

 

«I giovani capiscono ogni cosa. A Tel Aviv proviamo tutti a essere normali, liberi, ma in giro c’è angoscia. Vai a comprare il latte, vieni nel nostro teatro, dovunque vedi i volti dei 134 ostaggi innocenti. Nessuno dimentica il 7 ottobre. Ognuno di noi ha amici, parenti con storie orribili di quel giorno. Eppure tutti, giovani e non, sappiamo che non possiamo permetterci di cadere nella disperazione, anche se ci vorrà tempo per ripulire il sangue. Di qua e di là».

 

Come si fa a proteggere un adolescente da quella paura, da quella disperazione?

«Quello che succede a Gaza è un incubo per molti di noi. E a Tel Aviv non stiamo fermi. Le manifestazioni di protesta sono numerose. Forse non se ne parla abbastanza nei vostri media, ma in tanti vogliamo che questo governo cambi, che si apra un dialogo, e lo dico proprio per i nostri figli, per il loro futuro. Io lavoro con i giovani e lavoro col teatro, e vedo che quando questi ragazzi parlano, quando condividono le loro ansie, si aprono spirali di speranza, vedono che un mondo migliore è possibile».

 

 

Accade così agli adolescenti protagonisti di “Chi come me”.

 

«Sì, i cinque adolescenti difficili della mia storia attraverso il teatro imparano a rompere le proprie corazze e il rispetto per l’altro. Il testo rievoca il mio incontro con un gruppo di ragazzi dell’ospedale psichiatrico Abravanel di Tel Aviv con cui per sei mesi abbiamo riso, ascoltato musica, ci siamo emozionati, abbiamo parlato… Loro ne hanno fatto uno spettacolo, che è stato catartico per tutti, medici, genitori, figli. In Chi come me ho mescolato in realtà non tanto le loro storie, ma quelle di figli di amici, di mio figlio, dell’adolescente che sono stato io, quando trovavo solo nei libri e nel teatro una “safe zone”. Resto convinto che il teatro sia un posto ideale per i giovani, perché è un luogo di dialogo, di ascolto, di pensiero, perché si ride, si piange, si respira insieme e questo ha un valore di cambiamento rispetto alla vita quotidiana. Sono contento che al Franco Parenti, lo spettacolo sia in una sala piccola, intima, dove le vite di quei ragazzi sono a due passi da te che guardi».

 

Perché secondo lei oggi il disagio giovanile è un fenomeno così diffuso? Giovani con ansia, problemi alimentari, rabbia, depressione..

 

«Intanto un’epidemia li ha rinchiusi in casa per almeno due anni. Soli con il grande regalo che abbiamo inventato, lo smartphone. E temo che il Covid non sia nemmeno stata la cosa peggiore della loro vita. Una terza guerra mondiale incombe dietro l’angolo, e penso all’Ucraina e all’Europa che pare si sia già stancata di aiutarla. E poi l’intelligenza artificiale sta cambiando tutto, a cominciare dal mercato delle professioni, per cui è difficile prefigurare a quale mestiere formare questi giovani..».

 

E allora?

«Io credo che forse la sola lezione da insegnare ai giovani è quella che abbiamo imparato in Paradiso, distinguere il bene e il male».

 

Ma ciò che è bene per me, può essere male per te. In nome della pace, da Roma agli Usa nelle università maree di giovani protestano contro Israele e prestigiosi atenei cancellano le relazioni culturali. E’ bene o è male? Che ne pensa?

 

«Non lo capisco. Il boicottaggio culturale è assurdo. La maggior parte degli artisti e intellettuali israeliani vuole la pace, chiede il dialogo e a essere cancellata è proprio la loro, la nostra voce?».

 

Teme che sia l’espressione di una ondata di antisemitismo?

 

«Per fortuna il mio naso ebreo riconosce subito il vero antisemitismo, quelli cioè che mi odiano in quanto ebreo, in quanto israeliano, come è successo il 7 ottobre. Ma a chi grida “free Palestine” durante i miei incontri pubblici, io dico “parliamoci” e spesso vengono fuori cose interessanti. Aprire il dialogo con l’altra parte è l’unica soluzione».

 

La vede possibile?

«Sì perché il conflitto ha un prezzo troppo alto, specie per le giovani generazioni. La storia giudicherà tutte le opportunità che i palestinesi non hanno usato per fare la pace, ma noi, io, come israeliano, devo pensare per mio figlio a un mondo senza guerra. Ai giovani dobbiamo insegnare non a essere più forti, ma più saggi, più intelligenti. Pensieri tipicamente telaviviani…».

 

Cosa vuol dire?

 

«Tel Aviv è sempre stata un faro di liberalità. E non è cambiata oggi. Yuval Noah Harari, lo storico, dice una cosa che mi piace molto, che stiamo combattendo per la Storia, una Storia che includa entrambi i popoli. Se ebrei e tedeschi hanno imparato a vivere insieme in pace, possiamo farlo anche noi oggi».

 

 

1 nota:

Shmuel Yosef Agnon - Wikipedia

 

Shmuel Yosef Agnon (in ebraico: שמואל יוסף עגנון; nato Shmuel Yosef Czaczkes) (Bučač, 17 luglio 1888 – Reḫovot, 17 febbraio 1970) è stato uno scrittore e poeta israeliano autore di romanzi e novelle. Ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1966, insieme alla poetessa Nelly Sachs

 

 

Bučač - Wikipedia

Bučač è in Ucraina, nell’oblast di Ternopil’ ( Ternopil + a ca 130 km a est di Leopoli / Lviv )
Posterrr – Opera propria

 

 

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Il monastero Basiliano
Віктор Гребеньовський – Opera propria

 

 

Il cimitero ebraico

il cimitero ebraico
Roman Zacharij – Opera propria

 

 

 

 

OMER BARTOV :  storico degli eccidi di ebrei e altri popoli nel Fronte Orientale

 

Fronte orientale. Le truppe tedesche e l'imbarbarimento della guerra (1941-1945) - Omer Bartov - copertina

 Omer Bartov  (Ein HaHoresh17 aprile 1954)

 

 

Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945)

 

È noto che nella guerra al fronte orientale innescata dall’attacco tedesco all’Unione Sovietica nel 1941 si toccarono livelli di violenza e brutalità inaudite. La responsabilità di questo imbarbarimento è stata perlopiù addebitata al regime hitleriano e alle sue formazioni speciali come le SS, o al più agli alti comandi, sollevandone la Wehrmacht, l’esercito regolare. Bartov ha rovesciato la prospettiva e ricostruito dal basso il comportamento delle truppe, dimostrando che la Wehrmacht fu pienamente protagonista dell’imbarbarimento della guerra dovuto al convergere di tre fattori: le condizioni dure del conflitto al fronte orientale, il tipo di formazione degli ufficiali, infine l’indottrinamento politico delle truppe.

 

 

 

 

La questione che è al centro di questo lavoro di Omer Bartov è il livello di partecipazione della Wehrmacht alla politica di sterminio – non solo degli ebrei, ma della popolazione civile in genere – promossa dai nazisti in Russia. Attraverso lo studio di un campione, costituito da tre divisioni che combatterono sul fronte orientale, Bartov arriva alla conclusione – più che convincente – che l’esercito tedesco, lungi dall’essere scarsamente ideologizzato, e dunque non connivente con gli orrori del regime, come molti storici – e reduci – hanno sostenuto, in realtà fu largamente coinvolto nei crimini di massa commessi nell’Europa orientale tra il 1941 e il 1945, cui i suoi uomini presero parte senza particolari remore morali.

Bartov ipotizza tre cause per questo “imbarbarimento” della guerra a Oriente (tanto più sconvolgente se si pensa al comportamento sostanzialmente “civile” che i tedeschi tennero nei confronti delle forze angloamericane): l’obiettiva durezza dello scontro sul fronte russo, la genuina adesione al nazismo di buona parte degli ufficiali subalterni, l’indottrinamento ideologico delle truppe. In sostanza, Bartov si colloca su posizioni affini a quelle di studiosi quali Goldhagen ( I volenterosi carnefici di Hitler ) e Browning ( Uomini comuni ), che in tempi recenti hanno insistito sul largo consenso che il nazismo, anche nei suoi aspetti più mostruosi, incontrò presso il popolo tedesco. Un punto in cui invece Fronte orientale si discosta da altri studi contemporanei è il problema dell’unicità di quei crimini. Bartov sostiene infatti che la politica di genocidio attuata dai tedeschi a Oriente non solo non è paragonabile alla violenza, di rimando, dell’Armata Rossa (la quale, nonostante le barbariche nefandezze commesse in Germania, non perseguì mai un progetto di sterminio della popolazione tedesca), ma, più in generale, non trova un termine di paragone in nessun altro conflitto europeo della stessa epoca. Per Bartov, ad esempio, la condotta degli Imperi centrali sul fronte orientale, nel 1914-18, fu molto meno feroce: gli unici paragoni che egli reputa calzanti sono lontani nel tempo (la guerra dei Trent’anni) o nello spazio (la guerra cino-giapponese).

Al contrario, ne La violenza, la crociata, il lutto (da poco tradotto in italiano, cfr. “L’Indice”, 2003, n. 11), Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker sostengono che la “brutalizzazione” della politica (un concetto che i due studiosi riprendono da George Mosse, e che è alla base anche della nozione di “imbarbarimento” proposta da Bartov) operata dai nazisti è il risultato diretto della Grande guerra: lo sterminio praticato dalla Wehrmacht in Unione Sovietica (sette milioni di civili uccisi, due terzi dei prigionieri russi morti in cattività) altro non sarebbe che un’applicazione radicale di logiche emerse già durante il primo conflitto mondiale. Ovviamente, collegare le atrocità tedesche della seconda guerra mondiale a quelle della prima non significa sminuirne la gravità, ma solo individuare una più profonda spiegazione storica.

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