La poesia dopo la fine della poesia
Tradizione letteraria e happening, Baci Perugina e rap.
Seminario tenuto alla scuola Holden nel dicembre 2000
Aldo Nove, pseudonimo di Antonio Centanin (Viggiù, 12 luglio 1967), è uno scrittore e poeta italiano
La mia esperienza personale di lavoro editoriale interno al mondo della poesia iniziò quando avevo diciotto anni: mi occupavo di traduzioni e di lavoro editoriale di vario genere, esclusivamente in ambito poetico. Ero redattore – divenni poi caporedattore – di una rivista tuttora esistente chiamata “Testo a fronte” che si occupa di traduzione poetica e di teoria della traduzione poetica. Successivamente sono stato redattore e caporedattore della rivista “Poesia”, giustamente definita dall’editore Nicola Crocetti “la rivista di poesia più venduta al mondo” in quanto ha una tiratura di ventimila copie. Da notare che è l’unica rivista di poesia d’Europa che esca anche nelle edicole. Grazie a questo laboratorio ho avuto quindi un’esperienza poetica privilegiata, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il pubblico della poesia, che è forse per eccellenza l’oggetto fantomatico dell’universo poetico, l’unica “cosa” letteraria che si consuma quasi tutta all’interno di se stessa.
Infatti non è un caso che una delle tre antologie essenziali di poesia italiana degli anni ’70 si chiami Il pubblico della poesia, poiché i poeti sono pubblico di se stessi nella maggior parte dei casi. Ciò accade per tutta una serie di fattori apparentemente complessi, perlomeno nel modo in cui si intrecciano fra loro, che si rivelano in realtà piuttosto semplici da comprendere. Questo perché la poesia, differentemente da ogni altro tipo di arte, non presuppone alcuna conoscenza specifica per potersi proclamare tale, la poesia è l’arte sedicente per eccellenza. Per qualunque altra cosa si voglia fare ci vuole tecnica e impegno in dosi massicce, o comunque in una quantità tale da richiedere uno sforzo e un impegno che la poesia apparentemente non richiede. Se uno vuole diventare famoso come sassofonista, deve perlomeno imparare a suonare il sassofono. Il narratore che vuole scrivere un romanzo deve impegnarsi a dar corpo per almeno cento pagine a qualcosa, e quindi per diversi giorni deve tornare a riscrivere, a rielaborare un materiale. Mettiamo che per scrivere un romanzo una persona dedichi come minimo due mesi a questa esperienza, ecco, per scrivere delle poesie nei ritagli di tempo, magari aspettando che inizi la partita alla tele, è sufficiente che uno le accumuli pian piano ed è un poeta. Almeno così crede lui.
Facendo questo breve excursus negli ultimi quarant’anni di storia della poesia italiana risulterà evidente quanto i parametri di definizione della poesia continuino a rovesciarsi, a contraddirsi. E’ veramente difficile decidere che cosa sia poesia e cosa no, proprio perché in presenza di valori e forme opposte, spesso in confusione – in senso etimologico – in identificazione caotica tra loro, alla fine non si capisce più cosa sia la poesia e tutto può paradossalmente diventarlo.
I miei cinque anni di confronto quotidiano con la poesia come redattore hanno significato molto, ogni giorno avevo a che fare con una numero oscillante fra i 10 e i 15 manoscritti. Nei primi anni ’90 uscì una specie di censimento dei libri di poesia editi allora in Italia, e fu stimato che ci si aggirava intorno ai 70 esemplari al giorno. Ci sono una cinquantina di piccoli editori che pubblicano a pagamento anche quattro, cinque libri di poesia quotidianamente. Questo fa sì che ogni giorno in Italia venga pubblicata in realtà moltissima poesia. Venduta, assolutamente nulla. Un grande esubero di carta autoreferenziale, perché i poeti si leggono da soli. Questo è piuttosto curioso perché in questo momento storico il mercato della poesia a livello mondiale è molto variegato. Basti pensare che in Giappone i giovani poeti contemporanei sono delle vere e proprie star, c’è un grosso mercato di poesia contemporanea. Se entrate in una libreria giapponese, esposti sui banchi ci sono moltissimi libri di poesia contemporanea che vendono almeno quanto la narrativa o la saggistica, se non addirittura di più.
La poesia in Italia
Se nel resto del mondo la poesia è vivace e ben definita, in questo momento in Italia essa langue ed è piuttosto difficile inserirla in una serie di parametri rigidi e riconoscibili. Non dimentichiamoci che la poesia è sempre qualcos’altro da quello che è. In questo scarto si crea il suo essere anomalia linguistica. Ecco forse perché la poesia non vende: uno ogni tanto legge anche per divertirsi, ma l’intensità linguistica crea impegno. Questo non significa che la poesia non sia anche immediatamente consumabile, ma è sicuramente meno convenzionale, rimane un’esperienza che resta tale per pochi.
Se uno non desidera vendere diecimila copie, può tranquillamente fare il poeta. Se avete fatto caso alle classifiche letterarie italiane, c’è la narrativa italiana, la narrativa straniera, la saggistica e poi c’è “Varie”, la voce con le diverse sottospecie, ed è lì che ogni tanto qualche “giovane poeta” tipo Leopardi, Montale, Dante riesce ad affermarsi con “I Miti Mondadori”, l’unica collana di poesia che riesce a vendere più di diecimila copie in Italia.
In Inghilterra esiste una trasmissione dove giovani poeti si esibiscono dal vivo, lo spettacolo è quindi costituito da pure parole sceneggiate, messe cioè in scena attraverso la recitazione. Anche in Francia c’è grande attenzione verso la poesia contemporanea, c’è una critica militante molto attenta, alla poesia è dedicato un notevole spazio anche sui giornali. In Italia tutto questo non c’è: manca una critica che sia in grado di dare delle direttive a questo grosso fermento letterario. Un mio carissimo amico mi faceva notare che in tutto il lustro che va dal 1990 al 1995 sul “Corriere della Sera” era apparso un unico articolo riguardante la poesia italiana contemporanea. Si trattava di una recensione che aveva fatto Renato Barilli al Gruppo ’93, quindi in ben cinque anni su di un quotidiano così importante si è parlato un’unica volta del panorama poetico italiano. La poesia funziona sul piano degli spazi editoriali per piccole mafie piuttosto comiche, in quanto incapaci di avere qualunque effetto sul mondo che non sia autocelebrativo. Ci sono dei gruppuscoli di potere sparsi in tutta Italia facenti capo a critici o a poeti, ciascuno dei quali tende a occupare spazi visibili all’interno del proprio microsistema.
E’ interessante il fenomeno di analfabetismo di ritorno massmediatico riguardante le poesie che normalmente arrivano in redazione. Mi sono trovato di fronte a parametri che si possono avere solo se si è bambini. Quando io facevo le medie pensavo: “Se uno fa l’università è bravo. Una volta laureato, è Dottore.” Peccato che le cose non stiano così. L’arcinoto slogan inneggiante le tre “i” (inglese, internet, impresa) di una celebre campagna elettorale è assolutamente micidiale, in quanto la funzionalità della cultura nei confronti del lavoro è nulla. Fa rabbia, perché se ti sei laureato in filosofia negli anni ’90 e tuo cugino ha fatto sin dalla maggiore età il magazziniere, tu hai una laurea assurda e impossibile da piazzare sul mercato, mentre lui – nel frattempo – si è comprato la casa. La grande diffusione nell’ambito della poesia deriva anche dal fatto che c’è un livello di scolarizzazione molto alto, ma si tratta di una cultura finalizzata al lavoro di bassa lega, priva di valori di riferimento. E’ quindi assolutamente legittimo che una persona magari laureata scriva cose orrende.
Come può accadere una cosa di questo genere? Ciò avviene nella totale assenza di riferimenti, si tratta di un tipo di atteggiamento che si pone nei confronti della poesia in modo assolutamente rigido, monocorde, prendendo a modello la nostra tradizione lirica. Secondo la convenzione comune la poesia è innanzitutto il luogo del sublime, il luogo elevato, alto, dove sono i sentimenti più nobili a esprimersi, proprio come ci viene abitualmente insegnato a scuola. Tutto il grande processo, tutto il difficoltoso travaglio che dopo la seconda guerra mondiale c’è stato in Europa per liberarsi dalla concezione idealistica della poesia – che è quella che andava per la maggiore durante la prima metà del ‘900 – a scuola solitamente viene tralasciato. Secondo l’immaginario comune, differentemente dal Giappone o dall’Inghilterra, la poesia è la “cosa” alta e sublime. Questa altezza si esprime in primo luogo attraverso un piano linguistico aulico, una direzione lessicale-semantica totalmente convenzionale.
Chi non studia la poesia come fenomeno che si estende nel tempo e non si blocca a Leopardi, tende a identificarla inevitabilmente con parametri di questo tipo. Fatto è che questi parametri sono assolutamente comuni. Non potrebbe mai accadere che un componimento che copia il modello stilnovistico possa venire considerato oggi poesia, sebbene sia esistita – ed esista tuttora – in diversi sperimentatori l’idea di scrivere in prosa con il linguaggio della scuola siciliana oppure dalle caratteristiche dantesche. E’ abbastanza comune pensare che la poesia sia partecipare a un luogo alto anche in senso linguistico, e perché esso sia tale ci si deve asservire a un modello alto, e quindi – tramite uno stereotipo – scrivere alla Leopardi.
La poesia all’angolo
Noi tutti sappiamo che la maggior parte delle riviste femminili o giovanili italiane ha il temuto angolo della poesia. Proprio in questo ambito l’intensità, la bellezza, la forza della poesia si misura su una cosa che non esiste pura in letteratura: l’espressione dell’interiorità, dei sentimenti.
Paradossalmente in qualche modo la cosa più bella, più forte che un uomo possa dire – ti amo – in campo poetico fa pena, perché non è espressiva di nulla. Mi sono trovato spessissimo di fronte a casi di questo genere, in una sorta di corrispettivo immediato tra intensità/profondità del sentimento e la conseguente legittimazione del testo che ne deriva. Mi ricordo che c’era questa signora siciliana di 65 anni che telefonava in redazione tutti i giorni perché le sue poesie erano belle e dovevano essere pubblicate. Lei era vedova e orfana – curioso perché a 65 anni è abbastanza probabile essere orfani – e ci stava veramente male, ne soffriva. I testi erano però bruttissimi, ed è molto imbarazzante per chi ha a che fare con queste cose, perché non c’è nessun ambito in cui si stabilisca questa corrispondenza immediata, che è veramente drammatica. Dunque una bruttura portata a identificare lo sfogo lirico, lo sfogo umano, lo sfogo esistenziale con un oggetto letterario derivante e collegato a questo, non può che creare cortocircuiti di questo tipo: “Mamma da quando sei morta/La mia vita è diventata tutta storta”. E’ terribile perché comunque capisci che c’è una persona che sta male, le sono successe delle cose orrende, però anche intuitivamente è chiaro che questa non è poesia, o perlomeno secondo certi criteri potrebbe essere poesia comica, ma non lo è negli intenti.
Poesia popolare e poesia colta sono ambienti che raramente in Italia si incontrano perché il dibattito interno alla poesia è tra scuole e correnti che si confrontano con tradizioni che a loro volta si confrontano con altre scuole e altre correnti dove – infine – l’oggetto della discussione è innanzitutto linguistico-letterario, storico e sociale. Il pubblico della poesia, o per meglio dire i due pubblici della poesia: quello attivo e quello passivo (anche se i due ruoli si intercambiano), è costituito da persone interne a questi dibattiti letterari, e da persone esterne. Le persone esterne sono solitamente del tutto inconsapevoli di quello che succede nei meandri di questi piccoli settori, mentre le altre ne fanno direttamente parte: sono gli stessi poeti che si leggono e si promuovono. I luoghi d’incontro tra queste due realtà sono stati pochi, ma sono esistiti.
La poesia dopo la guerra
Dopo la seconda guerra mondiale in Europa, in tutte le arti, c’è un momento di riflessione molto radicale, in qualche modo quello che viene percepito è che non è più possibile, dopo Auschwitz, esprimersi nello stesso modo di prima. E’ come se tutti i valori, anche quelli artistici, fossero messi in discussione da una catastrofe immensa, quindi la percezione è quella di dover ricominciare da capo.
In ambito musicale, in Germania, a partire da Weber viene rifondata la struttura del discorso musicale, della forma che si crea in base a parametri matematici, dettati da armonie interne e non dalla fruibilità immediata e convenzionale che tale è stata per secoli, e in qualche modo si riparte veramente da zero. Tutto ciò, essendo nuovo, diventa automaticamente ostico al pubblico, specialmente a quello ingenuo, abituato a godere in modo passivo della musica.
Qualcosa di analogo accade anche per la poesia, si crea una cosa che si chiama Gruppo ’53, un gruppo di poeti e critici letterari che molto in sintonia con le grosse riforme artistiche decide di rifondare completamente la poesia. Il gruppo si chiama così perché fondato con l’intento programmatico di nascere e di morire nel 1953.
Tutto questo fermento, che è molto variegato e riguarda l’Europa intera, arriva in Italia solamente alla fine degli anni ’50. Si crea così una corrente assolutamente elitaria, in quanto riguarda poche persone interne al mondo della cultura, persone giovani e detentrici di una grossa fetta del potere editoriale. Inizia a formarsi il nucleo di quella cosa che poi sarebbe stato il Gruppo ’63, collegamento e omaggio al gruppo tedesco. Questi giovani appassionati di letteratura, sotto la sapiente guida di Luciano Anceschi, che è stato dal dopoguerra sino alla sua morte (avvenuta quattro anni fa) una delle persone più attente in Italia ai fermenti della letteratura, erano in rottura totale con la tradizione della poesia italiana com’era allora. Il loro interesse era orientato verso un dibattito che aveva in sé l’apporto di molte nuove scienze o tendenze letterarie, come lo strutturalismo, o i dibattiti tra il marxismo ortodosso e quello eterodosso. C’era l’influenza delle arti figurative, della pop art, che sempre e solo in questi ambienti elitari cominciava a diventare molto forte. Di tutto questo in Italia non c’era nulla se non una grande volontà, da parte di questi giovani intellettuali, di confrontarsi con questa nuova realtà.
Allora cinque poeti – Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani e Antonio Porta – hanno costituito un gruppo poetico (inserito a sua volta all’interno del Gruppo ’63) quello dei poeti Novissimi, con ripresa ironica dei poeti novi latini e con la volontà di rinnovare completamente il linguaggio. “I Novissimi” fu poi il titolo dell’antologia che uscì nel 1963 per Einaudi.
I primi testi di quello che poi sarebbe stato il Gruppo ’63 in Italia sono stati Laborintus, di Sanguineti, uscito nel ’56, e Osservazioni sul volo degli uccelli, di Balestrini, del 1959. Quando Sanguineti stava iniziando a costituire quello che poi sarebbe divenuto Laborintus mandò alcuni suoi testi a Cesare Pavese, il quale gli rispose che erano più adatti alla “Settimana Enigmistica”, perché più che poesie sembravano cruciverba. Sanguineti non si arrese e verso la fine degli anni ’50 fece leggere alcune sue poesie ad Andrea Zanzotto, che gli disse che erano delle trascrizioni in parole di un mal di testa, o comunque di un grave esaurimento nervoso. La risposta altrettanto celebre di Sanguineti a Zanzotto fu che si trattava sì di un mal di testa o di un esaurimento nervoso, ma non suo, bensì sociale, diffuso a tutta la realtà. Prendendo come testo esemplare di ciò che stava succedendo allora proprio Laborintus, uscito quando Sanguineti aveva 26 anni e considerabile il primo testo della neoavanguardia italiana, ci rendiamo conto di come prevalga il plurilinguismo, lingue che si confondono l’una nell’altra: l’italiano, il francese, il latino, il greco, il tedesco. Le forme della metrica sono irregolari, ci sono degli ipermetri lunghissimi – non a caso con il tempo Sanguineti diventerà famoso proprio per questo, si riconosceranno le sue poesie perché i versi saranno composti da cento e più lettere. C’è un’attenzione molto forte, nel primo Sanguineti, alla modulazione del suono nella versificazione, che è assolutamente libera, e anche in questo si avverte l’intenzione di compartecipare a movimenti mondiali molto forti ma marginali nel nostro paese, perché marginale è l’Italia.
Jack Kerouac, parlando della sua prosa, diceva che cercava in qualche modo di riprendere il ritmo franto e sincopato della musica be-bop. Un richiamo al jazz, al trapasso dallo swing al be-bop e infine al free jazz, c’era infatti anche in Sanguineti. L’attenzione al jazz d’avanguardia e alla musica d’avanguardia tutta, fu confermata poi nel tempo dalla collaborazione di Sanguineti, per esempio, con Luciano Berio. Nel momento in cui in Italia si costituisce il Gruppo ’63 anche alcuni musicisti, soprattutto Berio e Maderna, al centro di studi fonologici di Milano, fanno ricerca elettronica e di tecnica musicale. Nasce così una sperimentazione elettronica che si muove parallelamente al lavoro dei Novissimi.
Affascinato dalla sperimentazione elettronica è anche Nanni Balestrini, che è il primo poeta in Italia a occuparsi degli elaboratori elettronici – come si chiamavano allora i computer – questi oggetti che mimavano secondo regole determinate il pensiero dell’uomo. Balestrini realizzò così poesie scritte attraverso l’elaborazione elettronica di dati, poesie delle macchine, poesie impersonali, poesie industriali. In Italia, nel ’61 uscì un libro di Nanni Balestrini che conteneva questi curiosi ibridi, dal titolo Il sasso appeso. Sono testi scritti dal computer, poiché Balestrini aveva programmato tutta una serie di versi presi dalla poesia tedesca del dopoguerra che, attraverso delle tecniche combinatorie elettroniche, venivano disposti in modi differenti, così da ottenere delle poesie scritte solo dal computer. L’effetto dell’antologia dei Novissimi e del Gruppo ’63 in Italia fu davvero dirompente, e non è un caso che se ne parli spesso ancora adesso dopo quasi quarant’anni.
Il Gruppo ’63
Il Gruppo ’63 è nato in un convegno che venne fatto a Palermo in quell’anno, in cui il motivo di base per il quale ci si era riuniti era una riflessione sui mutamenti della musica contemporanea. Vennero invitati Stockhausen, Maderna, Berio, Nono – che allora era molto giovane – e diversi altri musicisti. Per confrontarsi con loro parteciparono al convegno anche numerosi scrittori, fra i quali un disgustato Moravia, che aveva portato con sé la sua giovanissima fidanzata, Dacia Maraini, a differenza di lui attenta e curiosa nei confronti di questa iniziativa. Il congresso fece scalpore, perché riprendeva la volontà di provocare propria delle avanguardie storiche, come per esempio del futurismo, il quale aveva delle modalità di comunicazione e provocazione decisamente estreme. Il teatro futurista consisteva anche nell’invitare delle persone, chiuderle in un teatro, spegnere le luci e riempirle di botte. Nel Gruppo ’63 non c’era nessuno che picchiava nessuno – o perlomeno non materialmente – però sul piano intellettuale avvenivano delle provocazioni molto forti. All’interno di quel congresso fu chiara la presa di posizione di Edoardo Sanguineti nei confronti di Carlo Cassola – uno dei tanti grandi della letteratura invitati a quella manifestazione – che venne identificato come scrittore impegnato e di successo (e per entrambe le cose poteva esserlo anche Italo Calvino, però più nell’ambito della ricerca letteraria), mentre da altri venne additato come la Liala della letteratura non di genere. Tutto ciò che non era più in rapporto con la contemporaneità, e quindi con questi grossi movimenti di cambiamento, veniva radicalmente rifiutato.
Il Gruppo’63 è rimasto come esempio di avanguardia elitaria. L’unico esito forte per quanto riguarda la capacità di comunicare a livello popolare fu però non in poesia ma in narrativa, con Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. In questo testo è presente un linguaggio mimetico, in cui un operaio della Fiat racconta le sue vicende nella Torino della metà degli anni ’60, con il linguaggio dell’operaio, che non è ingenuo, ma è quello del sistema massmediatico nel quale il protagonista è immerso. L’operaio di Balestrini si esprime con un linguaggio che non può essere e non è più primitivo, ma è assolutamente conseguenza dei mass media. Come operazione può indubbiamente richiamare i primi film di Nanni Moretti, dove i personaggi parlano come un certo tipo di contesto di estrema sinistra fa sì che si parli.
Nel Gruppo ’63 c’è la consapevolezza che il linguaggio non nasca come fenomeno puro – è quindi quanto di più lontano dalla poesia intesa come sfogo lirico – ma si diffonda attraverso meccanismi massmediatici, dalla stampa alla televisione. Per loro è proprio quella lingua, così tecnologica e semplificata, quella reale.
Parallelamente al Gruppo ’63 rimane in Italia un’idea molto forte, successiva all’Ermetismo, di poesia come luogo primigenio, puro, luogo di salvezza dello spirito originario dell’uomo. La polemica più famosa fu quella violentissima fra Pier Paolo Pasolini ed Edoardo Sanguineti. Pasolini fu accusato di essere conservatore, di essere utopico, di essere completamente chiuso a quello che stava succedendo nel mondo. Mentre Sanguineti e l’intero Gruppo ’63 furono definiti da Pasolini dei figli di papà che si divertivano a fare gli avanguardisti totalmente asserviti al sistema. Pasolini fu il primo nel dopoguerra a porre l’accento su una fenomeno come quello della poesia dialettale, pubblicando per Einaudi la prima antologia di poesia dialettale italiana. E’ difficile oggi parlare di questo travaglio perché veramente, allora, nei primi anni ’60, il conflitto tra il dialetto e la lingua italiana era una cosa fortissima: il dialetto rappresentava una lingua egemone che stava diventando secondaria, ma era pur sempre considerata la lingua delle origini.
Ho un aneddoto abbastanza paradossale, perché essendo io di Varese mi ricordo un comizio della Lega Lombarda dove si parlava di un Pasolini decisamente traviato, e del suo rapporto con il linguaggio, dandone un’interpretazione dove c’era ben poco del Pasolini vero. A parte queste eccezioni estreme, la poesia dialettale è rimasta di nicchia, e lo è tuttora, poiché serve prevalentemente per definire un ambito di nostalgia, di recupero di tradizione di un mondo che non c’è più. L’antologia di poesia dialettale più popolare degli anni ’90 era un Oscar Mondadori in due volumi e si intitolava Le parole di legno, che personalmente mi evocava Heidi e contesti paesani atavici di questo tipo. Sicuramente in Pasolini c’era la ricerca di un mondo, ed è evidente soprattutto nel primo Pasolini cineasta – come avviene in Accattone – dove è presente una purezza e una semplicità umana che viene espressa linguisticamente nella non adesione alla lingua di massa, quella televisiva. Quindi il dialetto come luogo dove ci si salva, dove si resta ancorati alle tradizioni.
Il più grande poeta italiano dialettale di questi anni, Franco Loi, aderisce a questa ideologia in modo molto curioso, perché egli è di origine sarda, ma ha vissuto prima a Genova e poi a Milano. Il dialetto con cui scrive non è quindi la sua lingua, ma un milanese parlato nella Milano degli anni ’20-’30 che diviene una sorta di lingua utopica, un punto di un luogo originario dove si può esprimere la purezza. Questa è una costante parallela della poesia dialettale italiana, espressa in modo viscerale con criteri quasi da laboratorio, perché a un certo punto Milo De Angelis – uno dei poeti più importanti di una frattura ulteriore che avverrà nella metà degli anni ’70 – nel suo libro Distante un padre scrive una sezione in dialetto piemontese, Le terre gialle, per creare un ambito di rapporto con la tradizione.
Diventano concrete le aspirazioni anche politiche di contrasto che furono espresse dal Gruppo ’63 e specialmente dai Novissimi in poesia. Nei primi anni ’70 si creò infatti una grossa crisi della poesia italiana, che è parallela alla crisi del contesto politico in cui questo tipo di poesia nasce: con il terrorismo, con la scissione in gruppuscoli opposti della sinistra italiana. Si crea un caos incredibile, e quasi tutte le risorse della ricerca letteraria vengono consumate attraverso dibattiti logoranti interni all’estrema sinistra. Per tre-quattro anni si è discusso se fosse legittima o meno la lotta armata o cose di questo genere: ci si sposta in ambiti che sempre meno hanno a che fare con la poesia. La poesia è infatti sempre più spesso politicizzata, e il linguaggio tende a risolversi in due forme: o si abbandona la poesia per fare politica, o si fa politica attraverso la poesia.
Un libro molto bello di Ferdinando Camon, poeta che ha abbandonato la poesia e ha intrapreso la carriera di narratore e di corsivista per “Il Corriere della Sera”, è Liberare l’animale, del 1973, testo che si chiude spiegando come oggi il poeta non abbia più alcuna giustificazione per ritardare la sua fine. Quindi basta con la poesia, se una delle sue premesse all’inizio degli anni ’60 era quella di cambiare il mondo, avendo fallito il suo obiettivo, i detrattori della poesia arrivano ad affermare che la poesia ha fatto sì che qualcuno uccidesse qualcun altro e nulla più.
Nel 1978 esce La parola innamorata – I poeti nuovi 1976-1978, ormai introvabile, a cura di Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia. Questo testo nasce come rivolta nei confronti dell’avanguardia italiana, in una sorta di tabula rasa della tabula rasa. Il titolo è già indicativo dell’operazione: la parola innamorata, ovvero qualcosa di assolutamente soggettivo, impalpabile e indefinibile come l’innamoramento, contrapposto alla parola estremamente ideologizzata della poesia nata fra gli anni ’60 e i ’70.
L’ultimo momento di espressione forte della poesia degli anni ’70 avvenne grazie a un altro libro che venne pubblicato quasi contemporaneamente a quello di Pontiggia e Di Mauro, La poesia italiana degli anni ’70, di Antonio Porta. Si chiudeva un movimento e se ne apriva uno nuovo. Leo Paolazzi, anche lui dei Novissimi del Gruppo ’63, apparteneva a una delle famiglie più ricche di Milano. Adottò lo pseudonimo di Antonio Porta scegliendo per sé un nome generico e un cognome che era al contempo richiamo a Carlo Porta – poeta dialettale – e uno dei cognomi più diffusi a Milano. Antonio Porta fu una figura piuttosto curiosa della poesia italiana, poiché pur essendo stato uno dei rappresentanti più decisi e più interventisti del dibattito letterario e poetico del Gruppo ’63, fu uno dei primi ad aprirsi ad altro e a spianare il terreno della parola innamorata.
La prima cosa che colpisce dell’introduzione a La parola innamorata è che non si capisce niente, ma traspare comunque un’esigenza molto forte: una volontà di gioco, di recupero ludico-amoroso della parola. Una spiegazione banale me l’ha data uno dei poeti più importanti de La parola innamorata, ovvero Milo De Angelis, dicendo che lui e altri poeti si trovavano a casa sua, prendevano un sacco di acidi e poi scrivevano queste cose.
Al di là della componente drogastica – perché anche nel Gruppo ’63 ci si drogava – c’è una volontà d’evasione fortissima, che è uno degli aspetti più forti della droga. Le prime due canzoni più famose sulla droga, Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles (1964) e Space Oddity di David Bowie (1968) – ispirata a 2001: Odissea nello Spazio – hanno dei testi in cui l’esperienza della droga viene vissuta come fuga. E’ come se si stesse allentando un nodo, come se un pugno teso non ce la facesse più fisicamente e storicamente a rimanere tale. Dopo anni di impegno e di militanza, ciò che si afferma è un bisogno di fuga nel mito, nel sogno, nel recupero di una tradizione che non pretende più di cambiare il corso delle cose ma che cerca di entrare nelle cose e viverle diversamente, tentando di cogliere tutti gli aspetti non definibili.
C’è un verso ironico in quello che probabilmente è il testo più importante della poesia italiana degli anni ’70 –Somiglianze di Milo De Angelis, del 1976 – che si rifà alla tradizione italiana immediatamente precedente: “Non fare della musica, tutto è definibile o non c’è”. E’ questa la prospettiva della poesia italiana più impegnata, quella che avrebbe dichiarato il proprio fallimento, come ha detto Camon. Si tratta di un tentativo di armare la poesia a un punto tale per far sì che potesse cambiare il corso degli eventi e il flusso della storia.
Dopo gli anni ’70
Alla fine degli anni ’70 c’è una specie di diaspora molto frammentata della poesia, cui seguì una stagione molto breve di tardiva diffusione pubblica e collettiva della poesia.
Nei primi anni ’80 si tenevano molti happening, molte letture pubbliche che arrivavano a richiamare anche un migliaio di persone – cosa piuttosto anomala – in una grande fluidità di interscambio fra cultura pop e poesia. Di tutto questo è rimasta pochissima traccia. C’è un doppio album interessante, Il concerto del Parco Lambro – edito dalle Cramps Records – dove si avverte una notevole compresenza di musica pop e poesia. Si torna a un allentamento di tensione, l’esaurimento dell’impegno politico arrivava a creare nuove forme di disimpegno – a suo modo impegnato – e di presenza politica molto forte.
Un esempio di cultura pop possono essere gli Skiantos, complesso musicale che con uno spirito avanguardistico radicale si presentava all’interno di concerti supermilitanti di estrema sinistra, sparando una raffica di cazzate e prendendole regolarmente (nel senso che venivano proprio picchiati dal pubblico). C’è un legame molto stretto ancora tutto da studiare tra il senso del ludico, del punk e della new wave e la crisi della poesia italiana sino alla sua trasformazione nella parola innamorata. Non a caso il leader degli Skiantos, Roberto “Freak” Antoni, ha scritto uno dei libri di crisi della poesia che più hanno venduto negli anni ’80, ovvero Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, pubblicato da Feltrinelli.
Questa estrema diffusione e popolarizzazione della poesia ha portato a una sorta di sfinimento e parallelismo a ciò che avveniva in politica. Erano i primi anni ’80 quando Berlinguer disse che era finita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre. Non era quindi più verso l’ideale comunista tradizionale che bisognava orientarsi. La prima cosa che si respirava negli anni ’80 era un senso di grandissima stanchezza sotto diversi ambiti, compresa la poesia. Nel primo lustro di questo decennio c’è una specie di stanca diaspora, come se questi happening fossero gli ultimi fuochi d’artificio di un grande gioco.
Tutto questo fa sì che nella seconda metà degli ’80 ci fosse un forte movimento di conservatorismo, di negazione di quello che stava prima. Una cosa che mi colpì molto la disse Signe Anderson, la cantante dei Jefferson Airplane, secondo la quale il senso del rock sta nel fatto che ogni generazione improvvisamente si alza in piedi, dà uno schiaffo ai propri genitori e ne cancella i valori affermandone altri.
Nell’ambito della poesia, pur essendo esso completamente diverso da quello del rock, succede qualcosa di simile secondo una periodicizzazione ritmica di rovesciamento dei valori: a una generazione eversiva ne segue una reazionaria, e viceversa. Anche se non ha più senso parlarne in questi termini, si potrebbe riassumere in: padre fascista e figlio comunista, padre comunista e figlio fascista.
A metà degli anni ’80 c’è il ritorno della grande tradizione letteraria italiana come puro sistema di codici dati, lo svuotamento dei valori e dei significati. La poesia è intesa come forma perfetta, cesellata, come ripresa dell’ipertradizione letteraria, come negazione della volontà di negazione. Questo fenomeno si muove in modo vario, con affluenti che arrivano allo stesso fiume in modo diverso.
La figura di riferimento di tutto questo, analogo a Porta nell’avanguardia, è Giovanni Raboni, che dirigeva la collana della Piccola Fenice per la casa editrice Guanda. In questa collana, nata nel 1975, sono comparsi tutti i nomi nuovi della poesia di allora, sia della parola innamorata sia di questa nuova tendenza conservatrice. Raboni si fidanza con Patrizia Valduga, e fra i due avviene un’osmosi confusionale, nel senso che qualcuno in casa scriveva delle poesie, ma non si sa chi. E’ che quando si intersecano – come spessissimo accade – aspetti sentimentali e sessuali con la storia (con la S maiuscola) è un gran casino.
L’unica cosa certa è che emerge la nuova figura di Patrizia Valduga, poetessa che scrive in terzine dantesche e che ha un’attenzione estrema per la bella forma, in un movimento di totale cancellazione del dato storico sociale. Il primo testo famoso di poesia della Valduga fu Medicamenta – seguito poi da La tentazione – e aveva a che fare unicamente con la fisicità, con l’umoralità fisica, con la sessualità intesa come luogo, vero e proprio altare dell’io e dell’esperienza soggettiva del consumo dell’esistenza.
Patrizia Valduga affiancava inoltre all’attività poetica un grosso lavoro di traduzione soprattutto su Verlaine, teorico molto forte della letteratura intesa come arte per l’arte.
Nel frattempo succede qualcosa anche a livello filosofico-estetico con Stefano Zecchi e La bellezza, testo di riferimento per gli autori dell’epoca, dove il valore della bellezza è topos fondante della poesia. Siamo già in territori politici pericolosi, si stavano per aprire le strade al movimento successivo. Sull’onda di Zecchi troviamo Cesare Viviani e Giuseppe Conte, figure assai curiose perché, come diversi altri poeti, hanno attraversato i ’70, gli ’80 e i ’90 mutando radicalmente a seconda del periodo (un po’ come Mastella: se c’è la destra al potere sono di destra, se c’è la sinistra al potere sono di sinistra), pur rimanendo figure interessanti e molto valide sul piano del lavoro linguistico. Entrambi sono stati prima avanguardisti, poi teorici e seguaci della parola innamorata, e infine mitomodernisti.
Il Gruppo ’93
Parallelamente alla reazione mitomodernista se ne crea un’altra, di stampo però avanguardista. Programmaticamente, così come il Gruppo ’63 era stato costituito in omaggio al Gruppo ’53 tedesco, nel 1993 nasce il Gruppo ’93, con l’intento di nascere e morire in quell’anno.
Nel Gruppo ’93 confluiscono lavori di persone sparse per tutta l’Italia che in qualche modo portano avanti le avanguardie, che da una quindicina d’anni a quella parte avevano subito un abbandono. Ci sono tre nuclei forti: uno genovese, uno napoletano e uno fiorentino-emiliano, formati tutti da poeti giovanissimi che lavorano sul linguaggio cercando di riattualizzare le forme in base alla contemporaneità.
Una delle cose più paradossali dell’avanguardia è che si trova costantemente a contraddire se stessa, a cancellarsi e a ricostruirsi. Qualunque critica del vecchio diventa inevitabilmente vecchia, perché le cose si evolvono.
Il Gruppo ’93 ha come punto di riferimento la rivista “Baldus”, edita a Milano da due poeti napoletani: Lello Voce e Biagio Cepollaro. Il lavoro di questo nuovo gruppo era nevrotico, profondamente segnato da tutte quelle crisi che hanno fatto sì che l’esperienza della neoavanguardia si chiudesse nel giro di pochi mesi, andando avanti attraverso l’impegno di questi singoli poeti. Lo scenario a cavallo fra la fine dei ’90 e oggi è assolutamente variegato e frastagliato, difficilissimo da identificare. Mancano delle correnti, mentre negli anni ’60 questi movimenti erano sinonimo di cambiamenti e di crisi, il mitomodernismo e il Gruppo ’93 sono stati gli unici di segno forte nel decennio scorso, senza divenire di fatto fenomeni di massa.
Alla fine degli anni ’90 c’è stata un’ipertecnologizzazione della poesia e delle sue forme di diffusione. Un mio amico poeta, Franco Buffoni, mi raccontava quanto sia completamente cambiata oggi la produzione concreta della poesia anche solo rispetto a quindici anni fa. E’ un gran caos il rapporto che c’è attualmente fra chi scrive, le case editrici e la critica. A metà degli anni ’80 uno decideva di aver scritto delle poesie interessanti e incominciava a farle leggere in giro, ma utilizzando la macchina da scrivere l’unica cosa possibile era – tramite la carta carbone – produrre al massimo tre copie, non di più. C’era la fisicità del testo, se uno decideva di mandare a qualcuno i propri testi era fondamentale decidere a chi mandarlo, come mandarlo, come consegnarlo e come far sì che l’interessato leggesse. Cosa che avveniva sempre, nel senso che i manoscritti che circolavano erano immancabilmente meno. Con i computer, con le stampanti e con – peggio ancora – le e-mail, la quantità di testi trasmessi quasi in diretta diventa veramente sterminata, c’è una presenza di poesia sia materiale sia digitale davvero prevaricante, inevitabilmente fantasma.
Il sistema di comunicazione, di diffusione e di pubblicazione per la poesia oggi più comune è paradossalmente tornato indietro di una cinquantina d’anni, ovvero a quando c’era un’editoria assolutamente elitaria, con un passaggio da persona a persona del testo. In qualche modo si è tornati a un super elitarismo ristretto ai piccoli ambiti di produzione della poesia, in cui il passaggio della consegna dei testi è ridiventata personale. C’è un movimento di apertura fra gli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80 dato da un grosso incremento della diffusione dei testi, come se esso avesse veramente raggiunto un limite di tollerabilità. Quindi i testi non vengono più letti, perché quella che veniva ironicamente e avanguardisticamente presa in giro e messa in luce da Nanni Balestrini – la spersonalizzazione e la computerizzazione della poesia – si è verificata e si sta verificando con queste tonnellate di carta e di e-mail, di opere che diventano assolutamente anonime. Adesso la cosa positiva di questo processo ipertecnologico è l’apertura di nuove nicchie ancora piuttosto anarchiche, utopiche, difficili da classificare e da capire. I siti internet di poesia sono tantissimi, e sono assolutamente variegati. Sicuramente c’è qualcosa che è simile alla messa in gioco dell’oggetto poesia che avevano le avanguardie, una volontà di ridiscussione della poesia a tutto campo, quindi anche di confusione della poesia con gli altri ambiti. Si tratta di una cosa molto anni ’90, dove anche a livello pop con la music e con la contaminazione dei generi si tende a confondere il tutto in una specie di amplificazione estrema del postmoderno: non esiste più nessun pensiero forte e tutto è più o meno possibile.
Questo sterminato luogo di utopia è Internet. La presenza della poesia in rete significa che tutti gli accostamenti più disparati sono concepibili, è quindi possibile riconfondere – come già era stato fatto dalle avanguardie – poesia e arti grafiche, poesia e cucina, poesia e musica colta, poesia e qualunque cosa.
La poesia rimane come elemento forte della messa in crisi del linguaggio, si ritorna alla grande opposizione schematica, essenziale e basica tra poesia e narrativa. La narrativa è comunque finalizzata a raccontare delle cose, a portare altro, mentre la poesia è concentrata su se stessa, è un laboratorio dove il linguaggio si presenta come tale.
Questo fa sì che si creino problemi di difficoltà di trasmissione scolastica della poesia, proprio per colpa di un forte rischio di inaridirsi in modello linguistico. Molto spesso la poesia a scuola è esempio di linguaggio, è testo di laboratorio, e questo ne blocca le valenze comunicative. Essa si studia perché è fenomeno linguistico, e ci si dimentica che deve comunicare qualcosa, se no non serve più.
Sul piano editoriale italiano c’è stato questo fenomeno di assoluta diffusione della “cosa” poesia in senso tradizionale attraverso “I Miti Mondadori”, che hanno raggiunto tirature altissime. Ma come ho già detto si tratta di poesia intesa come convenzione: Leopardi, Montale e poco più.
C’è stata qualche apertura ai contemporanei, ma quasi esclusivamente in senso massmediatico, per esempio con Dario Bellezza. Il poeta godeva già di per sé di un’attenzione televisiva per la sua forte presenza al Maurizio Costanzo Show, dove si parlava spesso della sua malattia, che aveva una certa influenza sul pubblico.
Un altro che pubblicò per i Miti fu Alberto Bevilacqua, semplicemente perché è Alberto Bevilacqua.
Qualche altro segnale di apertura lo si ebbe con Pagliarani e Porta, ma ci si limita a pochi nomi. Si è creato un luogo di diffusione gadgettistica della poesia, infatti il primo grafico che realizzava le poesie de “I Miti Mondadori” aveva lavorato per la Swatch, si utilizzavano quindi questi colori sgargianti molto giovani per ottenere la vendita della “cosa” poesia.
E’ curioso come invece il luogo istituzionale della poesia si barrichi dietro una specie di orgoglio della tradizione, di negazione della fruibilità delle immagini propria del gadget, ecco perché visivamente i testi poetici de “Lo Specchio” Mondadori e della “Bianca” Einaudi hanno quest’aspetto rigido, austero.
Paradossalmente c’è un grandissimo consumo pubblico di poesia, che però viene inteso su altri ambiti, come il Bacio Perugina. L’esperienza che consiste nel leggere i versi scritti sul bigliettino che c’è dentro i Baci ha a che fare con un contesto magico di recupero di referenzialità, in questo caso riferito a un ruolo sentimentale. Il fenomeno, avvenuto prima nei cantautori e poi nel rap anni ’90, ha un significato: c’è un’attenzione molto forte alla poetica. Il rap comunica valori e pensieri molto semplici e al contempo forti, di immediata condivisibilità. Nel rap è la musica che si conforma al testo, e non viceversa, c’è un pensiero eversivo che inevitabilmente – come sempre in poesia – muore nel momento in cui diventa istituzione, scuola. Penso che oggi, in Italia, il rap stia vivendo un travaglio simile a quello vissuto fra l’avanguardia e la parola innamorata: la tendenza è quella a ricreare in un contesto ludico, giocoso, ciò che è diventato assolutamente dogmatico. La cosa eversiva fatta dalle posse nei centri sociali, la cosa sballata è diventata scuola, libro di testo, argomento universitario, quindi conservazione. E credo che ormai il rap sia morto. Ma morendo rinasce, perché non muore mai nulla, si trasforma semplicemente, e questo accade anche in poesia.
La mia collana per Bompiani, “inVersi”, cerca di mettere in scena, nel mercato dei libri, un’esigenza di qualità letteraria sposata con la richiesta di “vendibilità” della cosa libro nell’era degli ipermercati.
Ho letto la sua analisi che condivido in ogni punto. Cosa si può fare per capovolgere la posizione della situazione della poesia oggi? Io sto tentando – ma da sola non ci riesco davvero! – a lanciare un messaggio attraverso la proposta della nascita di una sorta di Manifesto(?) – non saprei come altro chiamarlo. Un tentativo di dare un senso alla poetica (a largo raggio) che tenga conto dell’epoca in cui viviamo: telematica, globale, ecumenica. Cerco collaboratori seri. Se lo desidera può visitare Luogomondo (da google) e magari “farmi le bucce”, come si dice a Firenze: ogni critica è per me importante. La proposta si intitola (per) un Movimento: idea futuribile in forma di poetica ed è la chiusura del mio ultimo lavoro che porta lo stesso titolo. Verrà presentato a Palazzo Pitti nell’ambito di un Micro-festival, il giorno 18 ottobre e al festival internazionale di Zurigo dal primo al 5 novembre. Hanno aderito al progetto molti poeti e critici, anche stranieri. Speriamo bene! Cordialmente Giuseppina Amodei
Cerchero’ senz’altro tutto, grazie di essere venuta a visitarci, le faccio enormi auguri, lei deve essere una persona importante, ma dato che siamo donne ed io vecchia, perché non cominciamo a darci del tu, mia cara Giuseppina?
Gentile Chiara, solo ora vedo la sua risposta. I blog, purtroppo, sono stati soppiantati da FB e anche il mio “piange”. sei anche tu su FB? più facile comunicare. Un saluto.
cara Giuse, ti ringrazio di cuore della tua gentilezza- Sono su Facebook, ma è meglio di cerchi io, appena posso, perché di chiare salvini ce n’è mille+mille! Ti auguro una buona notte speciale! chiara