7 luglio 2013 ore 13:00 DI LUCIO CARACCIOLO, DIRETTORE DI LIMES, DA REP. DEL 5 LUGLIO, “IL REBUS ARABO”, A MIO PARERE FATTO MOLTO BENE—STANDO CHE HO UNA CONOSCENZA SUPERFICIALE DI QUESTO ENORME MONDO, CIAO, SANTOBELCIELO! LO SAPETE CHE E’ DOMENICA?

Protesters, who are against Egyptian President Mohamed Mursi, react in Tahrir Square in Cairo

DA JACK’S BLOG DI  Politica, cultura

 

non è così brutto!

IL REBUS ARABO di Luigi Caracciolo

Lucio Caracciolo (Roma7 febbraio 1954) è un giornalistasaggistadocente italiano.

Laureato in filosofia all’Università La Sapienza di Roma, dirige la rivista italiana di geopolitica Limes che ha fondato nel 1993 e la Eurasian Review of Geopolitics Heartland nata nel 2000. È considerato uno dei massimi esperti italiani di geopolitica.

 

 

Se nei paesi della “primavera araba” vuoi far votare il popolo, preparati a un probabile governo islamista. Se non vuoi gli islamisti, vai sul sicuro e non far votare il popolo. Se poi il popolo ha votato e rivotato gli islamisti e tu sei abbastanza certo di non poter mai vincere un’elezione, scatena la piazza, accendi la mischia e chiama i militari a scioglierla.

Questa regola, sperimentata nel 1991-92 in Algeria, quando dittatori più o meno utili alla causa occidentale punteggiavano la galassia araba, è confermata oggi in Egitto. Dove il fallimentare esperimento dei Fratelli musulmani, incarnato dal presidente Mohammed Morsi, è stato liquidato per vie brevi dal potere militare, invocato da Piazza Tahrir e dintorni. Paradosso: coloro che – con qualche ottimismo – consideriamo meno distanti dai valori democratici, si affidano al colpo di Stato per affermarsi sui vincitori — certo non inclini al modello Westminster – di tutte le elezioni più o meno democratiche tenute in Egitto dopo la caduta di Mubarak. Ma il generale Abdel Fatah al-Sisi, capo delle Forze armate e quindi del massimo conglomerato economico nazionale, non intende intestarsi la responsabilità di un paese ingovernabile.

Dal suo cappello ha quindi estratto il presidente della Corte costituzionale, Adly Mansour, cui è stato affidato ad interim il portafoglio di Morsi, in vista della formazione di un altrettanto provvisorio governo che dovrebbe preparare nuove elezioni. Siccome errare è umano, perseverare diabolico, s’immagina che se e quando gli egiziani saranno richiamati alle urne, verranno prese le opportune misure perché il risultato non costringa i militari a ulteriori chirurgie d’urgenza. Magari adottando il suggerimento del celebre scrittore dentista Ala al-Aswani, icona degli intellettuali “liberali”, per il quale conviene negare il diritto di voto agli analfabeti, ossia a un egiziano su quattro – una donna su tre. Ciò che ai militari interessa è il controllo del vasto apparato produttivo di cui sono i capofila, la gestione in perfetta autonomia del proprio bilancio e la garanzia del supporto finanziario americano: quasi un miliardo di dollari e mezzo all’anno. Ma per intascare questa tangente – il prezzo che gli americani pagano per potersi considerare azionisti di riferimento dei militari egiziani, a tutela della sicurezza di Israele – ad al-Sisi occorre che il governo sia presentabile al peraltro assai geopolitico vaglio di legalità del Congresso Usa.

Di qui lo sbarramento semantico del generale, che mentre metteva agli arresti domiciliari il primo presidente democraticamente eletto del suo paese e colpiva d’interdetto la Fratellanza musulmana, lanciava i blindati nelle piazze e censurava i media ostili, curava di comunicare che non era in corso alcun colpo di Stato. Il golpe che non si può definire tale non elimina certo le cause che l’hanno originato. Il rebus egiziano resta insoluto nelle sue componenti economica, politica e socio-culturale. L’Egitto è sull’orlo del collasso, con la lira in picchiata, le casse dello Stato vuote, la disoccupazione galoppante, turismo e rimesse degli emigrati ai minimi termini. Non sono bastati i pelosi oboli dell’emiro del Qatar – interessato a mettere le mani sul Canale di Suez – e di altri finanziatori affini alla galassia della Fratellanza musulmana a impedire che la crisi precipitasse, finendo per esasperare buona parte della popolazione, insofferente per la mala gestione di Morsi e associati. Il campo politico è polarizzato e paralizzato.

I Fratelli musulmani, dopo ottantacinque anni di opposizione semiclandestina, si sono rivelati incapaci di convertirsi in forza di governo. Si sono illusi che bastasse vincere le elezioni per governare. E nelle componenti più conservatrici, di cui Morsi è espressione, hanno immaginato di poter non troppo gradualmente imporre la propria agenda al resto del paese. Quanto alle opposizioni, che vanno dalla sinistra radicale agli ipernazionalisti, dai (pochi) liberali occidentalizzanti agli avanzi (corposi) del vecchio regime – le notizie sulla sua morte si confermano premature – non hanno mai considerato Morsi un presidente legittimo, o con il quale si potesse comunque stipulare un compromesso. Per tacere della galassia salafita, che conta di profittare della sconfitta dei Fratelli per ingrossare le proprie file. L’eco del golpe egiziano risuona in tutta la regione e nel mondo. Esulta il presidente siriano al-Asad, contro il quale Morsi, in uno dei suoi molti gesti inconsulti, aveva chiamato alla guerra santa.

Protesta inquieto il leader turco Erdogan, finito a suo tempo in galera nell’ultimo “golpe bianco” delle Forze armate kemaliste, vieppiù allarmato dal rimpallo non solo mediatico fra Piazza Taksim e Piazza Tahrir. E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina. I prossimi mesi ci diranno se dall’intervento delle Forze armate egiziane potrà scaturire la pacificazione fra le principali componenti politico-religiose, islamisti inclusi. Oppure se le opposizioni approdate al governo sull’onda della piazza anti-Morsi e dei carri armati di al-Sisi vorranno continuare nella prassi dei Fratelli, solo a segno rovesciato: il potere è tutto nostro, guai a chi lo tocca. In tal caso, la reazione violenta degli islamisti frustrati è scontata. Battesimo ideale per l’ennesima leva jihadista.

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3 pensieri su “IL REBUS ARABO di Luigi Caracciolo”

  1. Conosco moderatamente il Corano. Direi che lo spirito del Corano non si confa alla democrazia di tipo liberale.

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  2. Saverio Renzi scrive:

    Al più presto elezioni politiche sotto il controllo delle Nazioni Unite. Se il partito dei Fratelli Musulmani dovesse risultare vincitore, che governi nel pieno rispetto della costituzione egiziana e della regole della democrazia. Non vedo altra via d’uscita dalla situazione che si è creata con l’intervento dell’esercito nella vita politica dell’Egitto.

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  3. nivesguerra scrive:

    Nella prima frase, evidenziata nei caratteri, sta la chiave dell’impedimento all’elezione nei paesi islamici di una forma di governo che non abbia connotazioni teocratiche.
    E il paradosso è che per ovviare alla libera elezione di governi che, una volta in carica, negano la democrazia ed attaccano la costituzione, si debba ricorrere all’esercito per ristabilire questi valori!
    E’ ciò cui assistiamo dalle cronache che ci pervengono in questi giorni dall’Egitto.

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