Siamo partiti da una domanda di Donatella : il Sionismo al suo sorgere, sorge compatto senza oppositori ? — Quello che abbiamo trovato da non esperti è questo–se / dopo aver dato un’occhiata / lasciate qualche osservazione, anche critica ( non da raderci al suolo ), possiamo poi proseguire quizàs ” insieme “?.. quizàs–

 

1. martin buber  il suo scontro con Theodor Herz e Ben Gurion

 

2. David Ben Gurion  Politico israeliano (Płońsk 1886-kibbutz Sde Boker 1973), riconosciuto, con H. Weizmann e T. Herzl, fra i fondatori dello Stato di Israele. Nato David Gruen in Polonia sotto il dominio zarista, nella cosiddetta Zona di residenza riservata all’insediamento ebraico, ricevette un’educazione religiosa tradizionale, ma non poté procedere negli studi, date le restrizioni alle quali erano sottoposti gli ebrei. Nel 1906, già attivo nelle organizzazioni giovanili sioniste, emigrò in Palestina; di qui, nel 1911, si recò a Costantinopoli, come altri futuri leader sionisti, per studiarvi legge. Fu a Costantinopoli che prese il nome Ben-Gurion, dallo storico ebreo medievale Joseph ben Gurion, originario dell’Italia meridionale.

Espulso dal territorio ottomano dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale per la sua attività clandestina sionista, B.-G. si trasferì negli Stati Uniti, dove lavorò come giornalista, quindi, entrato nel 1918 nell’esercito britannico, nella legione ebraica alla cui creazione aveva contribuito Z. Jabotinsky, rientrò in Palestina all’epoca dell’istituzione del mandato britannico. Attivo da tempo nel movimento laburista sionista noto come Poale Zion (lavoratori di Sion), B.-G. fu, nel 1920, uno dei fondatori di Histadrut, il sindacato e agenzia del lavoro sionista in Palestina. Negli stessi anni, prese parte alla scissione di Poale Zion e ne guidò l’ala destra, dalla quale sarebbe nato, nel 1930, il Mapai, alla cui guida B.-G. avrebbe dominato l’Organizzazione sionista mondiale fino alla fondazione di Israele. Divenuto il principale leader dello Yishuv e il capo dell’Agenzia ebraica, il suo organo amministrativo più importante, B.-G. elaborò una posizione di graduale opposizione all’idea di una convivenza fra le comunità araba ed ebraica in Palestina. 

Mantenne posizioni relativamente moderate durante la rivolta araba del 1936-39 e fu favorevole alle conclusioni del Rapporto Peel (➔ Peel, W.R.W.), cosa che condusse alla sua definitiva rottura con Jabotinsky; tuttavia, dopo la pubblicazione del cosiddetto White paper del 1939, che raccomandava uno Stato unico binazionale, la graduale chiusura dell’immigrazione ebraica e restrizioni all’acquisto di terre arabe, B.-G. si convinse che l’Inghilterra andasse estromessa dalla Palestina e gli arabi combattuti. Per realizzare entrambi gli obiettivi egli favorì l’impegno militare ebraico nella Seconda guerra mondiale a fianco della Gran Bretagna (avrebbe detto: «dobbiamo combattere il White paper come se non ci fosse la guerra, e la guerra come se non ci fosse il White paper»), comprendendo che da questo il nucleo del futuro esercito israeliano sarebbe uscito addestrato e armato. Dopo la fine della guerra, la piena consapevolezza dell’Olocausto degli ebrei europei, opposta all’inflessibilità della posizione inglese sull’immigrazione ebraica, lo avvicinò alla strategia dell’Irgun, dalla quale si distaccò tuttavia dopo l’attentato all’hotel King David (luglio 1946), che provocò quasi cento vittime e diverse decine di feriti fra militari e civili. Preparandosi all’istituzione del nuovo Stato, durante la sanguinosa guerra civile che precedette la proclamazione della nascita di Israele, B.-G. stipulò un concordato con le autorità religiose ebraiche, che stabilì l’autonomia reciproca del campo religioso e di quello civile e garanzie per entrambi.

Dopo aver accettato il piano di spartizione previsto dalla Risoluzione ONU 181, respinto invece dalla comunità araba, il 14 giugno 1948 B.-G. proclamò l’indipendenza dello Stato d’Israele fondandola su una piattaforma di eguaglianza politica, sociale e individuale.

Il giorno successivo gli eserciti degli Stati della Lega araba entrarono in guerra contro il nuovo Stato. B.-G., che presiedette fin dall’inizio le operazioni militari, ordinò che esse venissero centralizzate dall’esercito nazionale, la Israel defense force (IDF, detta anche Tsehel), impedendo che le milizie legate a organizzazioni sioniste come l’Irgun e il Palmach potessero armarsi e forzandole a sciogliersi e a confluire nell’IDF. Nella sua veste di capo dell’Agenzia ebraica, B.-G. è anche considerato più o meno direttamente responsabile dell’esodo palestinese, che egli avrebbe favorito, se non provocato, ritenendo insostenibile per il nuovo Stato la permanenza di una forte minoranza araba al suo interno. Alla fine della guerra B.-G. divenne primo ministro, dopo le prime elezioni (1949) nelle quali il Mapai conquistò la maggioranza dei seggi. Egli avrebbe mantenuto tale carica fino al 1963, con l’eccezione del biennio 1954-55, quando si ritirò in seguito alle polemiche interne e internazionali seguite al massacro di Qibya (1953), un’azione di rappresaglia da lui ordinata e condotta dal giovane A. Sharon, nella quale 69 palestinesi morirono nel bombardamento delle loro case.

B.-G. tornò al governo al posto del più moderato M. Sharett sull’onda del cosiddetto affare Lavon, un tentativo fallito da parte dei servizi segreti israeliani di destabilizzare la nuova Repubblica egiziana, impedendo il ritiro di Francia e Inghilterra, che era stato condotto all’insaputa di Sharett. Negli anni successivi, B.-G. presiedette all’inasprimento della  e allo scoppio della seconda guerra arabo-israeliana (1956), sorta intorno alla nazionalizzazione del Canale di Suez e al blocco della navigazione israeliana nel Mar Rosso. L’armistizio imposto dall’ONU rafforzò comunque il prestigio militare di Israele, e B.-G. rimase al potere fino al 1963, quando si dimise per decisione personale, scegliendo come successore Levi Eshkol. Gli echi politici dell’affare Lavon tornarono a ripercuotersi sulla vita politica israeliana di quegli anni, conducendo B.-G. a scontrarsi con la dirigenza del Mapai e a fondare un nuovo partito, il Rafi, che sarebbe esistito fino al 1968, e quindi una nuova formazione, la Lista nazionale, dalla vita ancora più breve. Fedele al suo approccio pragmatico alla questione arabo-israeliana, B.-G. si sarebbe dichiarato favorevole alla restituzione dei territori occupati nella terza guerra arabo israeliana del 1967, con l’eccezione di Gerusalemme e del Golan. Si ritirò definitivamente dalla vita politica nel 1970, trascorrendo gli ultimi anni nel kibbutz di Sde Boker, nel Negev, dove aveva auspicato che un forte insediamento israeliano avrebbe reso abitabile il deserto.

 

2.MARTIN BUBER SI OPPOSE ,CON UN ALTRO PROGETTO, A QUELLO POLITICO DU TOMASO HEZRL E IN SEGUTO CON BEN- GURION CHE  RIUSCI’INVECE A IMPORRE LA SUA LINEA PURAMENTE POLITICA DI UNA NAZIONE SOLO EBRAICA, MENTRE BUBER L’AVREBBE VOLUTA UNA CONFEDERAZIONE DI EBREI E ARABI

SE VOLETE RENDERVI CONTO DELLA PERSONALITA DI MARTIN BUBER, DATE UN’OCCHIATA A COSA ABBIAMO PUBBLICATO DI LUI– ALTRIMENTI POTETE SALTA AI NOMI DI VARI PERSONAGGI CHE FURONO- O, MEGLIO,  LO SONO DIVENTATI TRAMITE L’ESPERIENZA SPECIE NELL’ESERCITO– CONTRO IL SIONISMO COME REALIZZATO DA GERUSALEMME–

allora dovete scendere fino a trovare sulla sinistra del foglio una foto di Hanna Arendt

Rinascimento ebraico. Scritti sull'ebraismo e sul sionismo (1899-1923) - Martin Buber,Andreina Lavagetto - ebook

Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo
e sul sionismo (1899-1923)

Mondadori, 2013

 

 

La lunga vita di Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965) è segnata da una formidabile presenza in diversi campi del pensare e dell’operare: prima nel Reich guglielmino, nella Germania di Weimar e in quella dei primi cinque anni hitleriani e poi, a partire dal 1938, in Palestina e nello Stato d’Israele è impressionante la capacità e versatilità d’intervento con cui Buber commenta e interpreta, dal punto di vista ebraico, ma non solo, le guerre, le rivoluzioni, le democrazie e i totalitarismi del Novecento.

Di grande respiro sono le sue riflessioni sul concetto di nazionalismo, sul rapporto fra etica e politica, fra politica e religione, sul pacifismo, la disobbedienza civile, la pena di morte. E poi la Shoah, la colpa, la responsabilità.

Fra l’inizio del secolo e la fine della Grande Guerra,  Buber disegna in Germania e in Austria un suo netto profilo di interprete dell’ebraismo europeo fino a diventare un’autorità indiscussa (anche se spesso avversata), nonché una figura di culto per la gioventù ebraica di lingua tedesca. Con le sue riscritture delle leggende chassidiche è l’autore più importante nel transito verso Occidente della cultura ebraica dell’Est europeo, di cui promuove l’affermazione letteraria in Germania e nel mondo.

Esiste infatti un’intenzione costante nella biografia intellettuale di Buber: recuperare, dell’ebraismo, gli elementi fondanti, costitutivi, distintivi; rinsaldare l’ebraismo nella coscienza della propria specificità e fisionomia cultural-nazionale, che sia capace di imporsi, all’interno del pensiero europeo, nella sua valenza di insostituibile componente dell’umanesimo moderno, di parte irrinunciabile del dialogo interconfessionale, ma anche, e prima di tutto, di fertile confronto tra le culture e le filosofie. È questa la prospettiva del “Rinascimento ebraico” con cui Buber ha inteso scuotere le coscienze sopite degli ebrei tedeschi assimilati, ormai lontani da ogni tradizione e da ogni sapere riguardante l’ebraismo, per restituire loro il senso concreto dell’appartenenza a una cultura che era quanto di più vivo e attuale i tempi avessero da offrire.

Il “Rinascimento ebraico” voleva parlare anche ai tedeschi non ebrei, mostrando come quel popolo – tollerato per diciotto secoli e ritenuto legato soltanto a una sterile filosofia rabbinica – fosse capace invece di inventività e innovazione: in breve, con parole care a Buber, di vitalità e creatività negli ambiti più moderni e avanzati dell’intellettualità mitteleuropea. Il libro che qui proponiamo vuole tracciare una semplice linea nel pensiero buberiano sull’ebraismo e il sionismo, cercando di toccare, con una mirata scelta di scritti (molti dei quali inediti in Italia), il formarsi e il succedersi dei passi fondamentali di quelle riflessioni:

i rapporti con il sionismo politico di Herzl; la nascita del sionismo culturale; quella sorta di grammatica dell’appartenenza ebraica che sono i celebri Discorsi di Praga; il costante commento con cui, dalle colonne della sua rivista «Der Jude», Buber accompagnò l’accadere storico dal 1916 al 1923. L’arco di tempo nel quale si sviluppa questa nostra silloge – dal 1899 al 1923 – non è stato scelto a caso.

Nel 1899 Buber fa la sua apparizione sulla scena sionista. Il 1923 è un anno di svolta: esce Ich und Du ( 1 ), il libro che inaugura la strada di Buber come filosofo; si chiude la sua vicenda di direttore e ispiratore dello «Jude»; si è appena consumata la rottura con la dirigenza sionista; è iniziato il rapporto con Franz Rosenzweig e si sta definendo il progetto di traduzione della Bibbia. Con gli ultimi articoli dello «Jude» Buber già legge la politica alla luce della filosofia del dialogo, matrice della ricchissima saggistica politica con cui, fra altri temi, accompagnerà fino agli anni

 

 

nota – 1 

L’io e il tu.
Martin Buber teorico della reciprocità

Martin Buber (Vienna, 1878 – Gerusalemme, 1965) fu uno dei maestri della svolta dialogica del pensiero filosofico del Novecento. Nell’assegnare il primato alla «relazione» rispetto al «soggetto» della tradizione e della modernità occidentali, egli, ebreo, anche alla luce del Chassidismo, autentico motivo di rinascita dell’Ebraismo, interpreta la crisi dell’Occidente prospettandone la rigenerazione grazie al pensiero «dialogico». Ai suoi occhi esso alimenta la cultura e l’esistenza degli uomini, le loro comunità e la loro educazione. Lo stesso Buber improntò la propria vita al dialogo, sia nella difficile temperie politica dell’Europa fra le due guerre sia nella genesi dello Stato di Israele sia nell’intensa attività di educatore. Il volume, oltre a ricostruire nell’Introduzione il percorso speculativo di Buber, ne documenta le tappe attraverso passi antologici tratti dalle sue opere più significative (dai Discorsi sull’Ebraismo a Il problema dell’uomo, da L’Io e il Tu a Sentieri in utopia ai Discorsi sull’educazione). Il lettore vi troverà spunti di riflessione particolarmente attuali per fronteggiare le sfide del mondo contemporaneo, che sempre più spesso invoca il dialogo fra gli uomini come condizione della sua stessa sopravvivenza

 

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ARTICOLO CHE SEGUE E’ DAL LINK :

AMICIZIA ITALO-PALESTINESE- 26 dicembre 2020
https://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=6720:un-secolo-di-lotta-al-sionismo-voci-di-dissidenti-ebrei&catid=29&Itemid=66

 

ecco qui, cominciate ad apprendere alcuni nomi, oltre a quelli che sapete già e pian piano vi fate un’idea- Certo, è solo un primo contatto con una ricerca che non eravamo in grado di cominciare se non così : ricercando-ch. e DO

Un secolo di lotta al sionismo: voci di dissidenti ebrei

Allan C. Brownfeld su Lincoln Review, rivista trimestrale dell’American Council for Judaism. https://www.wrmea.org/middle-east-books-and-more/wrestling-with-zionism-jewish-voices-of-dissent.html

Il sionismo, molti ora lo dimenticano, ha sempre costituito una posizione minoritaria tra gli ebrei. Quando Theodor Herzl ( 1860 – 1904 ) organizzò il movimento sionista nel 19° secolo, incontrò un’aspra opposizione da parte dei leader ebrei di tutto il mondo. Il rabbino capo di Vienna, Moritz Gudemann, denunciò il rischio che intravedeva di un nazionalismo ebraico. “La fede in un solo Dio era il fattore unificante per gli ebrei”, dichiarò, e il sionismo era “incompatibile con gli insegnamenti del giudaismo”.

Nel 1885, i rabbini riformati americani, riuniti a Pittsburgh, rifiutarono il nazionalismo di qualsiasi tipo e dichiararono: “Non ci consideriamo una nazione ma una comunità religiosa, e quindi non ci aspettiamo né un ritorno in Palestina … né il ripristino di alcuna legge riguardante uno stato ebraico”.

Fu solo l’avvento di Hitler e dell’Olocausto a convincere molti ebrei che uno stato ebraico era necessario. Molti ora stanno arrivando alla conclusione che questo è stato davvero un errore e una violazione dei valori morali ed etici ebraici.

 

Daphna Levit - University Lecturer - Universities Canada | LinkedIn

Daphna Levit –
foto dal suo Linkedin

 

 

In un importante libro, pubblicato nel settembre 2020, Daphna Levit(1) amplifica le voci di 21 pensatori ebrei e israeliani: studiosi, teologi, giornalisti e attivisti che si confrontano col sionismo su basi religiose, culturali, etiche e filosofiche. Il libro riunisce una serie di punti di vista in un’unico excursus storico, a partire dalla fine del 19° secolo, molto prima della fondazione dello Stato di Israele. Tra coloro di cui parla ci sono Theodor Herzl, Albert Einstein, Martin Buber, Hannah Arendt, Noam Chomsky e israeliani dissenzienti come Yeshayahu Leibowitz, Zeev Sternhell, Shlomo Sand e Ilan Pappe.

 

Levit è una israeliana che ora vive e insegna in Canada. Fu ufficiale dell’esercito israeliano e progressivamente è arrivata a capire che la narrativa israeliana degli eventi era contraria alla storia. Ha visto con i propri occhi il maltrattamento quotidiano dei palestinesi nei territori occupati. Scrive: “Il mio lungo processo di disillusione nei confronti della narrativa sionista e la ricerca di altre voci dissenzienti è iniziato subito dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando ero ufficiale per i rapporti con la stampa al ponte Allenby e ho visto i rifugiati palestinesi che tentavano di fuggire attraverso il confine. La separazione dal mio paese è stata graduale e ha richiesto diversi decenni. Nel 2002 ho lasciato Israele per il Canada, in quanto la politica sionista stava diventando sempre più aggressiva ed intollerante nei confronti del dissenso.”

Uno stato “ebraico”, questa era l’idea di Levit, avrebbe dovuto essere “una luce per le nazioni”. Invece, sottolinea, è diventato qualcosa di molto diverso. “Invece, siamo diventati una potenza militare, armati fino ai denti e ciechi di fronte alle vittime della nostra stessa crudeltà. Ho trovato altri spiriti liberi, forse più illuminati di me, nella mia ricerca di assoluzione dalla colpa della mia complicità nelle azioni del mio paese “.

Le voci che ha raccolto sono davvero eloquenti, mentre cercano di mantenere la tradizione morale ed etica ebraica di fronte agli eccessi a cui conduce il nazionalismo. Fin dall’inizio, lo slogan del sionismo “Una terra senza popolo per un popolo senza terra” è stato confutato dai primi coloni sionisti in Palestina, che hanno scoperto che la terra era popolata da persone che erano lì da molte generazioni. Asher Ginsberg, un sionista “culturale” di origine russa, criticò la mancanza di nefesh o spirito ebraico da parte di Herzl. Scrisse sotto lo pseudonimo di Ahad Ha’am, che letteralmente significa “una delle persone”. Nel 1891, dopo la sua prima visita in Palestina, scrisse che la terra non era deserta, che la sua gente non era selvaggia e la superiorità morale degli ebrei era ingiustificata, che gli ebrei in Palestina si stavano comportando in modo ostile e crudele nei confronti della popolazione nativa.

Levit esamina il pensiero di un’ampia varietà di critici ebrei e israeliani del sionismo. Nel 1938, con riferimento al nazismo, Albert Einstein mise in guardia un pubblico di attivisti sionisti contro la “tentazione di creare uno stato intriso di un nazionalismo ristretto, tentaziome che è all’interno delle nostre stesse file”.

Un altro eminente ebreo tedesco, il filosofo Martin Buber ( vedi sopra ), si espresse nel 1942 contro “l’obiettivo della minoranza di ‘conquistare’ il territorio per mezzo di manovre internazionali”. Da Gerusalemme, nel mezzo delle ostilità che scoppiarono dopo che Israele dichiarò unilateralmente l’indipendenza nel maggio 1948, Buber gridò disperato: “Questa sorta di ‘sionismo’ bestemmia il nome di Sion, non è altro che una delle forme rozze del nazionalismo. 

 

Un capitolo è dedicato a Yeshayahu Leibowitz, ebreo ortodosso e professore di lunga data all’Università ebraica. Afferma che nessuna nazione o stato dovrebbe mai essere adorato come santo e ha sostenuto la separazione tra religione e stato. Vedeva l’occupazione della terra palestinese come un abominio che stava corrompendo l’anima di Israele. Non voleva che il giudaismo servisse da “copertura per la nudità del nazionalismo”. Né voleva che fosse “usato per dotare il nazionalismo con l’aura di santità attribuita al servizio di Dio”. Il rispetto per lo Stato di Israele come terra santa era inaccettabile, una forma di idolatria. Nella comprensione di Leibowitz del giudaismo, nessun pezzo di terra potrebbe essere santo, né potrebbe alcuna nazione o stato. Solo Dio è santo e solo il Suo imperativo è assoluto.

 

Un altro capitolo è dedicato a Zeev Sternhell, che è stato capo del dipartimento di scienze politiche all’Università ebraica ed esperto ampiamente riconosciuto di fascismo. Ha scritto un articolo nel 2018 dal titolo “In Israele, il crescente fascismo e un razzismo simile al nazismo iniziale”. Sternhell chiede: “come interpreterebbe uno storico tra 50 o 100 anni … il nostro periodo? Quand’è che lo stato si è trasformato in una vera mostruosità per i suoi abitanti non ebrei? Quando è che gli israeliani cominciarono a capire che la loro crudeltà e capacità di dominare gli altri, palestinesi o africani, iniziò a erodere la legittimità morale della loro esistenza come entità sovrana?”

 

Shlomo Sand, professore emerito di storia all’Università di Tel Aviv ed ora in UK, ritiene che la società ebraica in Israele sia diventata intollerabilmente etnocentrica e razzista. Gli ebrei in Israele oggi hanno privilegi maggiori rispetto ad altri che vivono nello stesso paese. Anche gli ebrei che vivono al di fuori di Israele, osserva, che non hanno mai messo piede in Israele, hanno più diritti e privilegi all’interno di Israele rispetto agli israeliani non ebrei.

C’è molto in questo libro sui “Nuovi storici” di Israele, che hanno denunciato la campagna di pulizia etnica per liberare il paese dai suoi abitanti palestinesi. Nel suo libro “The Ethnic Cleansing of Palestine”, Ilan Pappe scrive che il problema della popolazione era già stato riconosciuto come una questione importante dai primi sionisti alla fine del XIX secolo.

Già nel 1895Herzl propose una soluzione: “Cercheremo di espellere la popolazione povera attraverso il confine in modo da non suscitare scalpore”. E nel 1947, David Ben-Gurion riaffermò il principio di fondo: “Non può esserci uno stato ebraico forte fintanto che ha una maggioranza ebraica di solo il 60%”. Nel 2003, Benyamin Netanyahu ha riaffermato questa posizione affermando: “Se gli arabi in Israele formano il 40% della popolazione, questa è la fine dello stato ebraico … ma anche il 20% è un problema … Lo stato ha il diritto di assumere misure estreme.”

Levit osserva che: “Questo libro non intende essere una storia completa di opposizione al fallimento morale del nazionalismo ebraico perché ciò richiederebbe un lavoro molto più lungo”. Ciò che il libro fa è presentare al lettore un gran numero di importanti critici ebrei del sionismo, persone che o cercano di salvaguardare la tradizione ebraica umanitaria, che crede che gli uomini e le donne di ogni razza e nazione siano creati a immagine di Dio e meritino essere trattati allo stesso modo. Mentre Israele si muove nella sua attuale direzione, è probabile che il numero di dissidenti ebrei aumenti notevolmente.

 

Daphna Levit

da: Steve France https://mondoweiss.net/2020/12/the-land-will-sink-beneath-your-feet-a-century-of-jews-wrestling-with-zionism/

 

Hannah Arendt non diede tregua al sionismo.

Arendt, morta nel 1975, fornisce l’analisi più profonda dell’incoerenza del sionismo e la conseguente certezza, prima o poi, del suo crollo. E di conseguenza fu – e rimane tuttora – il personaggio di cui meno gli israeliani vogliono palare.

Arendt era interessata a comprendere i fatti della storia ebraica europea in relazione ai non ebrei tra i quali vivevano, specialmente i tedeschi. Si dedicò a tale compito con un atteggiamento rigoroso, sebbene sia stato il terribile culmine dell’antisemitismo nella sua nativa Germania che la spinse ad affrontare l’argomento e a cercare le cause storiche esatte dell’antipatia verso gli ebrei. Non scusando in alcun modo l’odio, Arendt rilevò l‘importanza del fatto che degli ebrei spesso si mantenevano separano moralmente, culturalmente e linguisticamente, dice Levit, “al fine di preservare la loro identità, per non farsi influenzare dall’esterno”. Più precisamente, secondo Levit, Arendt ha riconosciuto la “tradizione ebraica di un antagonismo spesso violento con cristiani e gentili”.

 

La “scomunica virtuale in Israele” di Arendt

Niente di tutto questo piacque ai sionisti, ma furono le corrispondenze di Arendt sul New Yorker sul processo a Gerusalemme del protagonista nazista dell’Olocausto Adolph Eichmann nel 1961 che portò a quella che Levit chiama la “scomunica virtuale in Israele” di Arendt. Le sue corrispondenze, e successivamente il libro che ne derivò (“La banalità del Male”) criticavano gli aspetti propagandistici del “processo farsa” del procedimento e si addentravano sulla cooperazione immorale di alcuni leader ebrei con la “soluzione finale” dei nazisti.

La bestemmia della Arendt contro i sacrosanti principi del sionismo è illustrata nel racconto del suo litigio con il suo vecchio amico Gershom Scholem, un eminente studioso israeliano di misticismo ebraico. Scholem la accusò pubblicamente di non amare il popolo ebraico. E lei rispose: “Hai perfettamente ragione – non sono mossa da nessun ‘amore’ di questo tipo. … Non ho mai “amato” in vita mia nessun popolo o collettività, né il popolo tedesco, né i francesi, né gli americani, né la classe operaia o qualcosa del genere. Amo davvero “solo” i miei amici, e l’unico tipo di amore che conosco e in cui credo è l’amore delle persone. … Non amo gli ebrei, né credo in loro: semplicemente appartengo a loro come una cosa ovvia, al di là di ogni controversia o discussione.”

Quando l’icona sionista Golda Meir disse ad Arendt che lei, Golda, non credeva in Dio ma nel popolo ebraico, Arendt, una atea, rispose seccamente che la grandezza del popolo ebraico proveniva dall’essere un popolo che credeva in Dio. Il suo libro del 1963, “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil”, non è stato tradotto in ebraico per 36 anni.

 

Honig-Parnass dal Palmach all’antisionismo

Honig-Parnass era nata durante il Mandato britannico sulla Palestine. Lei, come Arendt, insiste categoricamente nel considerare il popolo ebraico non più importante degli altri, in particolare i palestinesi. A differenza di Arendt lei, come tutta la generazione del ’48, aveva subìto, secondo le sue parole, la “lavatura del cervello” per portare a termine la “distruzione colonialista, nazionalista, tribale, ipocrita” degli abitanti indigeni, al di fuori di qualsiasi considerazione dei diritti umani. Il giorno dopo che le Nazioni Unite approvarono un piano per dividere la Palestina del mandato, nel 1947, Honig-Parnass lasciò l’università per unirsi alla guerra contro i palestinesi, prestando servizio in un’unità di Palmach che ripulì etnicamente diversi villaggi.

Dopo la guerra, divenne socialista e iniziò ad allontanarsi dal sionismo, che arrivò a chiamare una versione del “socialismo nazionalista”. Nel 1960 fu antisionista e co-fondatrice del piccolo ma combattivo partito antisionista Matzpen. Il suo scritto, “Falsi Profeti di Pace” (2011), espone senza mezzi termini la vacuità del sionismo liberale.

Ma il suo lavoro più importante è forse quello pubblicato nel 1998 “Riflessioni di una figlia della Generazione del ‘48” pubblicato sul giornale socialista Against the Current(Contocorrente).

In esso descrive la “disumanizzazione avanzata” della sua mente sottoposta al lavaggio del cervello durante la Nakba. L’articolo cita una lettera agghiacciante che scrisse a sua madre nell’ottobre 1948. La lettera pone il problema che vede degli ebrei “che non sanno fare i conquistatori”. La giovane donna che partecipa alla pulizia etniche racconta a sua madre di due americani, reduci della seconda guerra mondiale, nella sua unità: “[Q] quando videro  le donne e i bambini arabi tornare ai loro villaggi affamati di pane, si commossero ed ne ebbero pietà, e la sera poi si misero a gridare che se questo nuovo stato non sapeva prendersi cura dei suoi abitanti arabi, allora non aveva diritto di esistere. … Questa America, con tutti i suoi sionisti idealisti, a volte dà sui nervi. Il loro intero approccio filantropico alla vita e al mondo va espresso anche nel loro atteggiamento nei confronti del sionismo “.

Essi cioè, non avevano capito che era proprio la pulizia etnica lo scopo di quel che stavamo facendo.

 

(1)Daphna Levit è stata professore di economia e finanza alle università di Tel Aviv e Gerusalemme, è stata attiva in gruppi pacifisti quali Gush Shalom, B’tselem, Windows, Physicians for Human Rights, Makhsom Watch, Ta’ayush

Traduzioni a cura di Associazione di Amicizia Italo.Palestinese


 

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  1. DONATELLA scrive:

    Grazie per questa splendida rassegna del pensiero ebraico che, dalla nascita del sionismo arriva ai giorni nostri. Ci fa capire che nel “popolo” ebraico esistano correnti molto differenti tra di loro, come succede in ogni altra nazione. Forse è l’inizio per noi di un nuovo modo di guardare gli ” ebrei” da un punto di vista più storico, considerando le persecuzioni subite nei secoli e le persecuzioni attuate dal momento della nascita dello Stato di Israele. Difficilmente le persecuzioni, le ingiustizie subite o realizzate fanno nascere persone migliori. Sovente negli Stati, come mi pare sia avvenuto in Israele, prevale la politica di chi ha il pensiero più corto, più soffocante, quello che dà un’apparente soddisfazione ai miti ( pensiamo agli” Italiani brava gente”, così duro a morire tra di noi). Questo accarezzamento del mito che dà una soddisfazione immediata alla popolazione, rendendone falsamente legale ogni prepotenza, si lega al ” Dio è con noi” delle Crociate fino ad arrivare alla teoria della razza pura del nazismo. In questa “povera” umanità una delle caratteristiche che ci accomuna, purtroppo è proprio il razzismo, che dà la forza a molti per sopravvivere e non vedere il dolore proprio e altrui.

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