GIORGIO GIANNINI, L’INUTILE STRAGE, LUOGHI INTERIORI, 2018 + G. Giannini, Relazione Tommasi sulle esecuzioni sommarie, 2021 + PIERO PURICH, L’Italia e la grande guerra senza la retorica nazionalista, INTERNAZIONALE, 2018

 

L' inutile strage. Controstoria della prima guerra mondiale - Giorgio Giannini - copertina

EDITORI LUOGHI INTERIORI– CITTA’ DI CASTELLO-( PROVINCIA DI PERUGIA ) – UMBRIA

2018

 

SE VUOI, APRI — INTRODUZIONE DEL LIBRO SOPRA

http://www.pacedifesa.org/wp-content/uploads/2018/05/introLInutileStrageGiannini.pdf

 

 

GIORGIO GIANNINI — PUBBLICA SU ” L’INCONTRO ”  :

La Relazione Tommasi sulle esecuzioni sommarie

LA RELAZIONE TOMMASI SULLE ESECUZIONI SOMMARIE

 

 

 

gen. ALBERICO ALBRICCI -ORA MINISTRO DELLA GUERRA

 

Otto mesi dopo la fine della Grande Guerra, il 28 luglio 1919 il ministro della Guerra, generale Alberico Albricci, incaricò il tenente generale Donato Antonio Tommasi, che era stato avvocato generale militare dell’esercito durante il conflitto, di fare in breve tempo una indagine sulle “esecuzioni sommarie”, la cui gravità era emersa durante i lavori della Commissione di inchiesta sulla “disfatta di Caporetto” della fine dell’ottobre 1917, in modo che l’indagine, con un giudizio di legittimità su ciascun caso documentato, potesse essere messa a disposizione della Commissione, in previsione della discussione sulla Relazione finale, in programma per la metà del settembre 1919.

 

Il generale Tommasi concluse l’indagine in neppure due mesi, in piena estate, esaminando la documentazione conservata nell’Ufficio Reparto disciplina, avanzamento e giustizia del Comando Supremo durante la Grande Guerra, diretto dal generale Giuseppe Della Noce.

 

Nella sua Relazione affermò di aver trovato  molte difficoltà nella sua inchiesta sia perché molti casi di esecuzioni sommarie, anche se segnalati all’Ufficio, non gli furono comunicati, sia perché molti documenti erano stati distrutti durante la ritirata di Caporetto, sia perché numerosi documenti pervenutigli erano incompleti. Ciononostante riuscì ad esaminare 43 casi di esecuzioni sommarie, che illustrò nella Relazione presentata al ministro Albricci all’inizio del settembre 1919, che però non fu discussa nella Commissione di inchiesta su Caporetto dato che non è citata nella Relazione, approvata dalla Camera dei Deputati il 19 settembre, con l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Vito Luciani, che parlò solo di 109 soldati fucilati senza processo. Invece nella Relazione di Tommasi, che è stata scoperta per caso dal giornalista Stefano Canzio, che la citò nell’articolo Caporetto senza veli, pubblicato nell’ottobre 1966 sulla rivista Calendario del Popolo, di Milano, si citano almeno 152 vittime (perché in tre casi il numero delle vittime era imprecisato).

 

" IL CALENDARIO DEL POPOLO N° 92/ MAG/1952 " PRIMO MAGGIO !

 

Riguardo alla legittimità delle esecuzioni sommarie, Tommasi riferì che solo in 17 dei 43 casi, erano “giustificate”, e quindi legittime, con oltre 65 vittime. Invece, in 5 casi, con 15 vittime, erano “ingiustificate”, mentre in 3 casi, con 15 vittime, erano ritenute “improcedibili”. In altri 18 casi, con almeno 60 vittime, non aveva potuto esprimere il parere sulla legittimità perché le esecuzioni erano “scarsamente documentate”.

 

 

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Museo del Risorgimento a Milano, via Borgonuovo- Palazzo Moriggia /( facciata Piermarini )- Foto di Giovanni Dall’Orto,

 

 

Nel 1988 due giovani ricercatori, Marco Pluviano e la moglie Irene Guerrini, hanno trovato nell’archivio del Museo del Risorgimento di Milano una copia della Relazione e l’hanno studiata attentamente. In seguito hanno effettuato una accurata ricerca in vari archivi pubblici, nella memorialistica sulla Grande Guerra e sui giornali dell’epoca, in particolare il quotidiano socialista Avanti!, ed hanno trovato la menzione di molte altre esecuzioni sommarie, per un totale di circa 350 vittime, oltre il doppio di quelle citate nella Relazione Tommasi.

 

Vediamo ora due casi di esecuzioni sommarie collettive, considerate dal generale Tommasi “ingiustificate”, e quindi illegittime, e due casi di esecuzioni “scarsamente documentate” dai comandanti che le avevano ordinate e quindi probabilmente anche esse illegittime. In questi ultimi due casi, l’invio della documentazione era stato ripetutamente sollecitato dal Comando Supremo e dai comandi di Armata; pertanto, non avervi ottemperato da parte dei comandanti che avevano ordinato le esecuzioni sommarie costituiva una violazione disciplinare, che però non era stata applicata. Per questo il generale Tommasi ritenne necessario un “supplemento di indagine” che però non fu mai fatto.

 

SE VUOI, APRI SOTTO :

La fucilazione di 7 soldati del 38° Reggimento di fanteria della Brigata Ravenna per rivolta il 21-22 marzo e l’8 aprile 1917

 

La fucilazione di 5 militari del 264° Reggimento di fanteria della Brigata Gaeta per “sbandamento in faccia al nemico” il 30 agosto 1917

 

La fucilazione di 12 militari del 141° Reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro per “sbandamento” il 27 maggio 1916

 

La fucilazione di 14 militari del 206° reggimento di fanteria della Brigata Lambro per “sbandamento” il 25 maggio 1916

 

BIBLIOGRAFIA: Marco Pluviano- Irene Guerrini, Le esecuzioni sommarie nella Prima guerra mondiale, Gaspari Editore, Udine 2004

 

 

 

INTERNAZIONALE —  3 NOVEMBRE 2018

https://www.internazionale.it/opinione/piero-purich/2018/11/03/prima-guerra-mondiale-italia

 

La difesa del Montello nel giugno del 1918. (Mcrr/Mondadori Portfolio)

 

 

La prima guerra mondiale è stata e rimane uno dei miti fondativi dello stato-nazione, soprattutto nei paesi vincitori. Gli anni tra il 1914 e il 1918 sono stati avvolti da un’aura di sacralità che ancora oggi si può cogliere nei monumenti, nei cimiteri e nelle cerimonie che ricordano la grande guerra.

Per anni il conflitto è stato sottratto ad analisi obiettive ed è stato letto solo attraverso la lente deformante dell’eroismo, dell’onore, della patria, della propaganda bellica. In Italia la letteratura ne ha affrontato i tabù, spesso con fastidiose conseguenze per gli autori: Emilio Lussu fu accusato di disfattismo e antipatriottismo per Un anno sull’Altipiano, mentre La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte incappò nella censura e fu sequestrato.

Negli anni settanta sono stati pubblicati saggi critici e analisi storiche rigorose e obiettive, come quelli di Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, Enzo Forcella, Alberto Monticone e Piero Melograni.

 

Tuttavia, con la ricorrenza del centenario della fine della grande guerra e le celebrazioni previste per il 4 novembre, il velo di retorica che con tanta fatica era stato sollevato è tornato ad avvolgere quegli anni. Ci sono state iniziative storicamente accurate, ma la propaganda nazionalista e militare nel tempo si è riappropriata dell’evento. Mentre fiction tv semplicistiche come Il confine e Fango e gloria – andate in onda su Rai1 – hanno favorito il ritorno di una visione patriottica della storia.

 

Da questa visione sono stati cancellati episodi sgraditi alla retorica ufficiale come le renitenze, il pacifismo, le fraternizzazioni tra nemici, le diserzioni, gli ammutinamenti, le rivolte. Pagine che però sono fondamentali per capire meglio quell’immensa carneficina che fu la prima guerra mondiale, a cent’anni dalla sua fine.

 

Socialisti, pacifisti, renitenti

 

Innanzitutto va detto che nel 1915 la maggior parte dell’opinione pubblica in Italia era contraria all’intervento. Furono le intimidazioni rivolte alle istituzioni – ai limiti del colpo di stato – dal re Vittorio Emanuele III, dal capo del governo Antonio Salandra e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino, la campagna di stampa del Corriere della Sera e le demagogiche manifestazioni di piazza organizzate da Gabriele D’Annunzio a piegare il parlamento a votare in favore dell’entrata in guerra.

 

I socialisti si divisero ferocemente in neutralisti e interventisti, mentre i giornali e la propaganda esaltarono le “radiose giornate di maggio”, sminuendo e censurando le manifestazioni contro la guerra. In realtà, l’interventismo fu un fenomeno assolutamente minoritario.

 

Come racconta Marco Rossi in Gli ammutinati delle trincee, i volontari furono appena 8.171, spesso del tutto emarginati dai commilitoni che li consideravano fanatici e spie degli ufficiali. La maggioranza della popolazione accettò con rassegnazione il conflitto.

 

 

 

Gli ammutinati delle trincee. Antimilitarismo e insubordinazione dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale 1911-1918 - Marco Rossi - copertina

Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale. 1911-1918

 

di Marco Rossi (Autore)

 

BFS Edizioni, 2014

 

una versione riveduta e ampliata del saggio, accompagnato da un inserto: Il gioco del soldato (una sorta di Gioco dell’oca) disegnato nel 1918 da Arturo Checchi e pubblicato con prefazione di C. Alvaro poco prima che “scoppiasse la pace”.

 

 

Pochissime voci si levarono contro la guerra: Giacomo Matteotti pagò il suo antimilitarismo socialista e internazionalista con tre anni di confino a Messina;

la rivista La Pace fu chiusa e il suo direttore, Ezio Bartalini ( 1903 fondò “La Pace”, periodico di impostazione socialista pacifista …), fu prelevato dai carabinieri e arruolato a forza;

alcuni pubblicisti cristiani polemizzarono aspramente sulla legittimità morale della guerra;

 

le vignette di Scalarini sferzarono la retorica bellica;

 

Giuseppe Scalarini in mostra: Viva le donne, abbasso la guerra - Amica

 

da: https://www.amica.it/dailytips/giuseppe-scalarini-in-mostra-viva-le-donne-abbasso-la-guerra/

 

Papa Benedetto XV - Wikipedia

Genova, 1854 – Roma, 1922 – da: wikipedia

 

papa Benedetto XV per tutta la durata del conflitto tentò una vana mediazione tra i paesi belligeranti, parlando di “inutile strage”.

 

Solo una piccola minoranza di persone rifiutò di arruolarsi: anarchici, socialisti internazionalisti, marxisti, tolstoiani e cristiani radicali. Non fu riconosciuto alcun diritto all’obiezione di coscienza e chi espresse il proprio rifiuto per ragioni religiose o politiche fu condannato al carcere duro, internato in fortezze militari o ricoverato in manicomio.

 

filippini andrea - l'obiezione di coscienza nell'italia liberale (1861-1919)

2018

 

Come ricorda Andrea Filippini in L’obiezione di coscienza nell’Italia liberale,

 

 

Il primo obiettore di coscienza italianoLUIGI LUE’ – PRIMO OBIETTORE DI COSCIENZA

( San Colombano al  Lambro, 1858 -Greco- Milano, 1954 )

 

lo zoccolaio lombardo Luigi Lué sostenne con tale ostinazione le proprie convinzioni tolstoiane che il pubblico ministero disse: “Signori del tribunale, siamo davanti al caso di un uomo per il quale la nostra legge è impotente. Essi vivono nella loro fede e non transigono a nessun costo. Ci vuole la massima indulgenza”. Nonostante l’appello alla clemenza, Lué fu condannato a sette anni di carcere.

Per ragioni ideologiche o anche solo per salvarsi la pelle, altri reclutati cercarono rifugio nella neutrale Svizzera. Gli anarchici organizzarono canali di espatrio per renitenti e disertori grazie al fatto che molti contrabbandieri, i cosiddetti “spalloni”, erano simpatizzanti libertari. A Zurigo si costituì una comunità numerosa di esuli anarchici.

Il sistema più diffuso per sfuggire all’arruolamento fu però quello di non presentarsi alla visita di leva. Il numero dei renitenti in Italia fu più alto che in altri paesi: ben 470mila persone non si presentarono. Tra loro, 370mila erano residenti all’estero, ma si guardarono bene dal rimpatriare. In Sicilia i renitenti furono il 61 per cento dei richiamati.

 

L’impreparazione dell’esercito

Per i soldati l’arrivo al fronte fu un trauma, sia per le devastazioni causate dalle nuove tecnologie militari, sia per la totale impreparazione dell’esercito italiano.

La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919 - Mark Thompson - copertina

La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919

Il Saggiatore, 2014

Come racconta Mark Thompson nel libro La guerra bianca, un ufficiale che aveva raggiunto da poco il monte San Michele, sul Carso goriziano, chiese ai soldati lì da alcuni giorni dove fossero le trincee, e la risposta fu: “Trincee, trincee… Non ci sono mica trincee: ci sono dei buchi”.

Dopo i primi giorni in cui gli italiani conquistarono facilmente il Friuli austriaco – spesso usando metodi repressivi di tipo coloniale contro le popolazioni locali – alle pendici del Carso, fortificato dagli austriaci, cominciò la guerra di posizione fatta di trincee, bombardamenti, assalti frontali.

Il capo di stato maggiore Luigi Cadorna ripropose le stesse inefficaci strategie già sperimentate su altri fronti, con carneficine che costarono la vita a centinaia di migliaia di soldati senza quasi nessun risultato pratico. A Cercivento, sulle Alpi carniche, quattro alpini rifiutarono di andare all’attacco del monte Cellon in pieno giorno, consigliando il capitano di attaccare di notte per approfittare della nebbia. L’ufficiale, un calabrese, nemmeno capì la proposta dei quattro che parlavano friulano e li mise al muro. Il monte fu poi conquistato di notte, dopo centinaia di morti caduti negli assalti condotti alla luce del sole.

La guerra fu “un inferno di sangue, fango e merda”, come mi ha detto Giovanni Marco Sau, che allora combatté nella brigata Sassari. La vita in trincea era fatta di noia, paura, maltempo, pidocchi, ratti e colpi sparati dai cecchini.

 

Storia politica della grande guerra 1915-1918 - Piero Melograni - copertina

Mondadori, 2023

 

 

In Storia politica della grande guerra, Piero Melograni scrive che “alla vigilia delle azioni più rischiose abbondanti quantitativi di liquori erano distribuiti ai reparti italiani (…). Lo stesso Cadorna dichiarò che il soldato italiano era migliore nell’offensiva che nella difensiva, perché nell’offensiva si ubriacava e si stordiva”. Alessandro De Pascale in Guerra e droga racconta invece che piloti, ufficiali e arditi facevano anche uso di cocaina.

 

Prigionieri di guerra in una località italiana non specificata, 1916. - Mondadori Portfolio

Prigionieri di guerra in una località italiana non specificata, 1916. (Mondadori Portfolio)

 

Prima dell’uscita dei fanti dalle trincee le artiglierie martellavano le postazioni nemiche per eliminare ogni resistenza. Ciò avrebbe dovuto permettere ai soldati di lanciarsi all’attacco delle fortificazioni nemiche sguarnite, ma la strategia spesso non funzionava: le artiglierie sbagliavano il tiro e bombardavano le proprie linee; oppure le comunicazioni con i comandi si interrompevano e l’attacco della fanteria veniva sferrato troppo presto, quando i cannoni stavano ancora bombardando, o troppo tardi, quando i nemici erano già tornati in posizione.

 

Gli assalti frontali senza alcun bombardamento preventivo erano frequenti e generalmente si concludevano con lo sterminio di chi attaccava, massacrati dalle mitragliatrici dei nemici. Dietro ai fanti all’assalto c’erano carabinieri e ufficiali dell’esercito pronti a sparare a chi arretrava o esitava. “Ma quale Piave mormorava”, mi ha raccontato il reduce siciliano Andrea Cangelosi, “avevamo i carabinieri dietro che ci sparavano e davanti il nemico”.

 

La fraternizzazione tra nemici

La ferocia della guerra non riuscì tuttavia a cancellare del tutto l’umanità dei soldati: nel corso del conflitto sono documentati episodi nei quali gli austriaci cessarono di mitragliare gli italiani mandati all’attacco e li esortarono a mettersi in salvo o a tornare indietro.

 

Il 25 dicembre 1915 sul Carso– complice la nostalgia di casa e il ricordo del Natale precedente passato in famiglia – i soldati italiani e quelli austriaci raggiunsero un cessate il fuoco informale e si scambiarono gli auguri, approfittando della tregua per recuperare e seppellire i compagni che giacevano morti tra i due schieramenti.

 

Gli alti comandi allora emisero direttive severissime contro la fraternizzazione, perché ritenevano che umanizzasse troppo l’avversario e che i nemici potessero scoprire il sistema di difesa dell’esercito.

 

Negli anni successivi, proprio durante le feste religiose i bombardamenti dell’artiglieria furono intensificati e i cecchini erano pronti a colpire chiunque stesse cercando di fraternizzare.

 

Diserzioni

L’orrore quotidiano vissuto dai soldati spinse parecchi di loro a cercare soluzioni personali per evitarlo. Alcuni tentarono di disertare approfittando di licenze, cercando di nascondersi da parenti o amici. Nei primi anni di guerra, però, la diserzione era considerata un atto vile e ignominioso: ci furono casi di genitori che denunciarono e riconsegnarono i figli che erano fuggiti.

 

In Toscana, in Emilia-Romagna, in Puglia e nelle Marche si formarono vere e proprie bande di disertori che trovarono rifugio nei boschi o in grotte, braccati dai carabinieri. In Sicilia renitenti e disertori si nascosero nelle solfatare.

 

Tanti cercarono di disertare consegnandosi al nemico, approfittando della notte, di macchie di vegetazione e di rovine nella terra di nessuno. Era un’operazione rischiosissima: i fuggitivi potevano essere scambiati per ricognitori in avanscoperta o per soldati impegnati in attacchi a sorpresa, ed essere uccisi; potevano essere catturati da nemici senza scrupoli; oppure potevano essere scoperti da qualche pattuglia del proprio esercito e finire davanti alla corte marziale. Per una diserzione la pena era l’ergastolo o la condanna a morte per fucilazione. Durante gli attacchi gli ufficiali erano tenuti a sparare sul posto a coloro che pensavano stessero disertando o si stessero sbandando.

 

Durante la guerra il numero dei disertori diventò sempre più alto. Non potendoli passare tutti per le armi, i colpevoli furono mandati in speciali compagnie di disciplina con incarichi pericolosi, oppure furono portati in prima linea e legati in luoghi esposti al tiro del nemico.

 

Questa soluzione si rivelò del tutto inefficace: generalmente gli austriaci non colpivano i soldati disarmati e incatenati, sia per solidarietà sia perché graziarli significava dare un’immagine misericordiosa di sé e spingere altri italiani a consegnarsi.

 

Per i tribunali militari erano considerati alla stregua di disertori anche coloro che si sbandavano, che perdevano contatto con il proprio reparto o che tornavano dalla licenza con un giorno di ritardo.

Battibecco 1953-1957 - Curzio Malaparte - copertina

VALLECCHI, 1967

 

In Battibecco, la rubrica che teneva sul Tempo, Curzio Malaparte scrisse:

Nell’agosto del 1917 a Santa Giustina presso Belluno fui obbligato ad assistere alla fucilazione di alcuni soldati calabresi rientrati dalla licenza con ventiquattro ore di ritardo, non per colpa loro, ma per colpa della tradotta. Due soldati del plotone di esecuzione spararono in aria: vennero immediatamente afferrati e passati per le armi.

 

Altri soldati provavano a sfuggire al fronte con gesti di autolesionismo. La tecnica più comune era quella di spararsi a un piede o a una mano attraverso una tavoletta di legno che rendesse la ferita meno devastante e nascondesse le bruciature dovute al contatto con la canna. I casi di autolesionismo nell’esercito italiano furono circa diecimila. Con il passare del tempo, i medici militari diventarono più attenti alle automutilazioni e mandarono davanti alla corte marziale i simulatori. Lo zelo fu tale che furono accusati anche soldati effettivamente colpiti in combattimento.

 

Per arginare qualsiasi forma di defezione i tribunali militari lavorarono senza sosta, condannando le persone dopo indagini rapide e superficiali. Era l’imputato a doversi scagionare dalle accuse e non l’accusa a dover provare il reato. Non esistevano gradi di giudizio, non era previsto appello. Su 262.481 soldati processati, il 62 per cento fu condannato. Le pene capitali furono più di quattromila, di cui però quasi tremila in contumacia  ( ” Absente reo “, non è presente il colpevole, qualunque siano le ragioni ). Quelle eseguite furono 750. Le condanne fino a sette anni di carcere furono sospese e rinviate alla fine della guerra per evitare che diventassero un modo per evitare il fronte. Più di 15mila uomini furono invece condannati all’ergastolo.

 

I soldati uccisi senza processo furono trecento, ma storici come Marco Pluviano e Irene Guerrini, in 1914-1918. Scampare la guerra, scrivono: “Il numero di esecuzioni sommariedi cui si ha notizia (anche dalle testimonianze orali) è così ampio che, considerati i casi inevitabilmente rimasti segreti, si raggiungerebbe un numero di fucilati uguale, se non superiore, a quello dei condannati a morte a seguito di un regolare processo”.

1994 – Consorzio Culturale del Monfalconese

 

 

Insubordinazioni

 

Con il passare degli anni, alle diserzioni si sostituirono sempre più spesso atti di insubordinazione collettiva: i soldati rifiutavano di andare in prima linea o attaccare. Non erano rivolte organizzate e ammutinamenti, ma una sorta di sciopero di soldati sfiniti che rifiutavano di combattere per le condizioni proibitive della vita al fronte.

 

Nel marzo del 1917 soldati della brigata Ravenna si rivoltarono sparando in aria per la revoca delle licenze e l’ordine di raggiungere di nuovo la prima linea. In luglio due reggimenti della brigata Catanzaro, in retrovia da pochi giorni, rifiutarono di tornare in prima linea: uccisero alcuni ufficiali e cercarono di attaccare la villa dov’era ospitato D’Annunzio, che si trovava lì vicino. La protesta sfociò in una vera e propria rivolta al grido di “Abbasso la guerra”, “Morte a D’Annunzio”, “Vogliamo la pace!”, ma fu repressa da carabinieri, reparti di cavalleria, artiglieria e perfino aerei.

 

 

Soldati italiani riposano dopo una lunga marcia durante la battaglia di Caporetto nel novembre del 1917. - De Agostini/Getty Images

Soldati italiani riposano dopo una lunga marcia durante la battaglia di Caporetto nel novembre del 1917. (De Agostini/Getty Images)

 

Anche la rotta di Caporetto, nel 1917, può essere considerata una rivolta collettiva e uno sciopero dei soldati. Quando fu chiaro che lo sfondamento austrotedesco stava avendo successo e che opporsi all’avanzata era un suicidio, migliaia di italiani si arresero, sperando che l’offensiva nemica significasse finalmente la fine della guerra e la possibilità di ritornare a casa. I soldati in rotta abbandonavano le armi e si consegnavano ai nemici gridando: “La guerra è finita, viva la pace”, “Morte al re!”, “A Torino o a Milano purché la guerra finisca!”.

 

Stavolta i militari in ritirata risposero al fuoco dei carabinieri nelle retrovie e li misero in fuga. Nel caos della ritirata si scatenò una vera e propria caccia al carabiniere.

 

 

Nel libro La rivolta dei santi maledetti, Curzio Malaparte scrisse:

La legge era il carabiniere, i fanti massacravano i carabinieri. I carabinieri assassinati in trincea non si contano, quelli impiccati o pugnalati nelle retrovie non hanno numero. I pezzi grossi degli Alti Comandi si fermavano davanti al cadavere del carabiniere, leggevano il cartello appeso dai fanti al petto della vittima: ‘Aeroplano abbattuto’ e non ne capivano niente. Quali rimedi lambiccavano i Comandi? Le fucilazioni.

(Nel gergo dei fanti i carabinieri erano chiamati aeroplani sia per la forma del cappello sia perché, come gli aviatori nemici, sparavano sui soldati, ndr).

 

Le rivolte furono represse ferocemente: i soldati identificati a torto o a ragione come organizzatori degli ammutinamenti furono processati sommariamente e giustiziati.

Quando i presunti responsabili non venivano trovati, volendo dare una punizione esemplare ai reparti insubordinati, si ricorreva alla decimazione: l’estrazione a sorte dei soldati da fucilare. Emanuele Filiberto di Savoia, che quando morì volle essere sepolto a Redipuglia “in mezzo agli Eroi della Terza Armata”, ordinò: “Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi”. Sicuramente tra i centomila morti di Redipuglia qualcuno giace a pochi metri dal proprio carnefice.

Copertina anteriore

Giunti, 1996

 

Per il presunto ammutinamento della brigata Ravenna furono fucilati due soldati trovati semplicemente a dormire nell’accampamento dove c’era stata la rivolta, più altri cinque estratti a sorte. InLa vigilia di Caporetto. Diario di guerra (1916-1917) il giornalista e critico teatrale Silvio D’Amico ricostruisce un episodio significativo. Un reggimento di fanteria insorge. C’è un’inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti, così il colonnello ordina di estrarre a sorte i nomi di dieci soldati e fucilarli. Tra loro finiscono anche uomini arrivati al reggimento dopo l’insubordinazione.

 

All’ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi, entrambi di classi anziane, è svenuto. Ma l’altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante del reggimento, chiamando a gran voce: ‘Signor colonnello! signor colonnello!’. Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. Risponde: ‘Che c’è figliuolo?’. ‘Signor colonnello!’, grida l’uomo bendato, ‘io sono della classe del ‘75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c’ero. In nome di Dio!’. ‘Figliuolo’, risponde paterno il colonnello, ‘io non posso cercare tutti quelli che c’erano e che non c’erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio’.

 

Le esecuzioni sommarie arrivarono a un parossismo tale che anche piccoli atti di insubordinazione furono puniti con la morte: durante la rotta di Caporetto il generale Andrea Graziani tentò di riportare l’ordine tra i soldati facendo fucilare 57 presunti disertori, alcuni per ragioni assurde come Alessandro Ruffini, che fu messo al muro per averlo salutato tenendo il sigaro acceso in bocca. Qualche anno dopo la fine della guerra il generale morì cadendo misteriosamente da un treno: si diffuse la voce che sul vagone avesse incontrato un vecchio compagno d’armi di qualche sua vittima.

 

Dal 1917 gli ammutinati mostrarono sempre di più una consapevolezza politica. Marco Rossi racconta l’episodio del livornese Alessandro Signorini, che davanti al plotone d’esecuzione urlò ai suoi compagni: “Maledetta patria, schifosa bandiera. Voltate le spalle a chi vi fucila!”. Nelle trincee ormai circolava materiale disfattista, volantini che invitavano a disertare, fogli di propaganda rivoluzionaria. La rivoluzione bolscevica, l’uscita della Russia dal conflitto e la crescente insofferenza al potere rendevano sempre più plausibile la rivolta non solo come atto di ribellione, ma anche come possibilità reale di mettere fine alla guerra.

 

Dopo Caporetto i militari italiani che si stavano ritirando furono fermati sul Piave da uno schieramento di carabinieri e di giovani reclute appena arruolate. I soldati in rotta, convinti che la guerra ormai fosse finita, avevano gettato le armi: non furono dunque in grado di reagire e furono costretti a riprendere la guerra.

 

Qualcosa di simile successe tra gli austriaci l’anno successivo: in estate ormai 230mila avevano abbandonato le armi ed erano tornati a casa.

 

In pratica la guerra si concluse con una diserzione di massa: milioni di soldati spossati cessarono semplicemente di combattere. Ma questa versione dei fatti non poteva essere ammessa dalle gerarchie militari, specialmente dopo che il collasso militare russo aveva portato alla nascita dell’Unione Sovietica, primo paese socialista al mondo.

 

Gli alti comandi degli eserciti dell’Intesa mascherarono quest’epilogo raccontando di epici scontri finali che in realtà non lo furono. Quando con la battaglia di Vittorio Veneto gli italiani sfondavano le linee nemiche, spesso le trovarono deserte. Anche la “redenzione” di Trieste, narrata dalla propaganda nazionalista come la trionfale “liberazione” della città dal dominio austriaco, fu un episodio molto più complesso.

 

La storica Marina Rossi scrive per esempio che nei primi giorni del novembre 1918 “una torpediniera austriaca” fu messa a disposizione “per raggiungere Venezia” e poi tornare a Trieste con “la flotta italiana, cui avrebbe fatto da battistrada nei tratti minati”. Mentre lo storico Drago Sedmak in Nabrežina skozi stoletja (Aurisina attraverso i secoli) racconta un episodio successo vicino a Trieste:

Alle truppe italiane che avanzavano quasi nessuno si oppose, dato che quasi non c’erano più soldati (austriaci, ndr) e i membri dei Comitati nazionali locali (sloveni, ndr) erano troppo deboli e non opposero resistenza. Comunque ad Aurisina si raccolse un gruppo di giovani e di reduci del luogo (austriaci, ndr) e innalzarono barricate improvvisate, bloccando le strade di accesso.

L’azione riuscì, visto che per il 2 e 3 novembre fermarono l’avanzata degli italiani verso Trieste. Nella notte tra il 3 e il 4 si ritirarono silenziosamente; gli italiani ripresero la marcia attraversando Santa Croce e Prosecco con bandiere bianche. Il simbolo di pace, la bandiera bianca, che presto venne sostituita dal tricolore italiano, il 20 novembre si mostrò sotto una nuova luce agli abitanti di Aurisina.

Quel giorno, infatti, le autorità militari italiane per garantire la propria sicurezza, pretesero dagli abitanti di Aurisina che venissero loro consegnati tre ostaggi (…) Se sia stata la paura o una vendetta per aver perso due giorni davanti alle barricate di Aurisina possiamo solamente fare delle ipotesi.

La storia della prima guerra mondiale, dunque, è tutt’altro che la storia di trionfi, di eroismo e di battaglie epiche raccontata dalla propaganda nazionalista e militare. Tolto il velo di retorica, restano i massacri, le fucilazioni sommarie, le punizioni dei soldati, ma anche gli episodi di fraternizzazione tra nemici, che dimostrano come tantissimi soldati riuscirono a restare umani nonostante fossero obbligati a combattersi.

 

Carte MICHELIN Duino - plan Duino - ViaMichelin

Duino- Aurisina è un comune italiano sparso di 8 272 abitanti del Friuli-Venezia Giulia, situato a nord di Trieste. Prende il nome da Duino e Aurisina, i due maggiori dei cinque comuni che nel 1928 furono soppressi (insieme a MalchinaSan Pelagio e Slivia) per costituire il nuovo ente. La sede municipale si trova ad Aurisina, precisamente nel sobborgo Cave.

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Castello di Duino fotografato dalla Baia di Sistiana

Le Risorgive del Timavo.
San Giovanni di Duino Una delle risorgive del Timavo

Tiesse – opera propria

Grotta del Mitreo.

Grotta del Mitreo.
Daniele Iurissevich – Opera propria

 

Il porticciolo di Duino.

Il porticciolo di Duino.

 

Veduta dal sentiero Rilke.

Vista sulle falesie dal sentiero Rilke
Tiesse – Fotografia autoprodotta

 

 

Baia di Sistiana.

Baia- Sistiana (Duino-AurisinaTriesteItalia).
deanz – https://www.flickr.com/photos/deanz/31887490/

 

 

La cava romana

Cava Romana di Aurisina (Trieste)
Tiesse – Opera propria

Il periodo della dominazione romana fu molto importante in quanto portò un grande sviluppo economico grazie all’apertura della cava di Aurisina (chiamata tutt’oggi Cava Romana), all’utilizzazione dei porticcioli presenti sulla costa ed alla diffusione della viticultura. L’apprezzata pietra di Aurisina venne utilizzata per edificare Aquileia e i più importanti monumenti romani di Ravenna.

Durante la seconda guerra mondiale, tra il settembre 1943 e la primavera del 1945 il comune  ( Aurisina ) fece parte del Litorale Adriatico direttamente controllato dalla Germania. Nel maggio 1945 vi giunsero l’esercito jugoslavo e quello neozelandese. La presenza delle truppe jugoslave sul territorio durò per poco più di un mese. Dal 1947 al 1954 fece parte della zona A del Territorio Libero di Trieste, e venne riaggregato alla Repubblica Italiana il 26 ottobre 1954.

Pur facendo parte della provincia di Trieste, il territorio del comune è interamente sotto la giurisdizione ecclesiastica dell’arcidiocesi di Gorizia.

DA : 

https://it.wikipedia.org/wiki/Duino-Aurisina#:~:text=Da%20Wikipedia%2C%20l%27enciclopedia%20libera.

 

 

File:Map of region of Friuli-Venezia Giulia, Italy, with provinces-it.svg

CARTA POLITICA DEL FRIULI VENEZIA-GIULIA

https://it.wikipedia.org/wiki/File:Map_of_region_of_Friuli-Venezia_Giulia,_Italy,_with_provinces-it.svg

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1 risposta a GIORGIO GIANNINI, L’INUTILE STRAGE, LUOGHI INTERIORI, 2018 + G. Giannini, Relazione Tommasi sulle esecuzioni sommarie, 2021 + PIERO PURICH, L’Italia e la grande guerra senza la retorica nazionalista, INTERNAZIONALE, 2018

  1. DONATELLA scrive:

    Leggendo questa bellissima raccolta di testimonianze scritte sulla prima guerra mondiale me ne sono venute in mente alcune, poche, dalla mia infanzia, quando erano sicuramente più vicini i ricordi della seconda guerra mondiale, ma ne pervanevano ancora sulla prima. Diceva mia mamma che i suoi zii materni, agricoltori residenti in Piemonte a Monticello d’Alba, pur di non andare in guerra si erano fatti togliere tutti i denti, in modo da poter essere esonerati. La mia insegnante di Lettere nelle Medie, parlando della prima guerra mondiale, diceva che nelle trincee italiane scorrevano a fiumi alcolici ad alta gradazione per spingere i soldati all’attacco.

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