+++PIER GIORGIO ARDENI, Inascoltato vademecum per la sinistra che non c’è –IL MANIFESTO DEL 7 GENNAIO 2023 + 3 domande al prof. Floridia- Argomenti 2000.it + Nota ” Striscia rossa “, blog giornalisti dell’Unità

 

 

IL MANIFESTO DEL 7 GENNAIO 2023
https://ilmanifesto.it/inascoltato-vademecum-per-la-sinistra-che-non-ce

 

 

Inascoltato vademecum per la sinistra che non c’è

 

SINISTRA. Asor Rosa richiamava tre punti: partito organizzato e non liquido; fine della autoreferenzialità; il lavoro e la sua crisi al centro. Punti validi per la sinistra tutta

 

Inascoltato vademecum per la sinistra che non c’è

L’opera “Lost Horizon I” di Antony Gormley

 

 

Nel ricordare la scomparsa di Alberto Asor Rosa, il manifesto ha ripubblicato un suo articolo ( se vuoi, apri qui ) che del giugno 2010, «Vademecum per il partito che non c’è». Ciò che stupisce, nel rileggerlo, è non solo la lungimiranza, quanto la sua attualità: senza far caso alla data vi sembrerà scritto oggi. Perché, evidentemente, da allora, nel Pd, non è cambiato nulla (e non a caso, forse, le cose sono andate di male in peggio). Ancor più sconfortante è che oggi, quel vademecum, andrebbe scritto per la sinistra tutta, quella che c’è e, soprattutto, quella che non c’è.

 

Ci sono tre punti che Asor Rosa poneva come bussola per la rotta da seguire:

  • un partito organizzato e «non grillinamente (o berlusconiamente) liquido»;
  • la non più tollerabile autoreferenzialità;
  • il lavoro e la sua crisi – «fattore discriminante per il distino del paese» – al centro (al di là dell’etichetta). Punti ancora centralissimi per un discorso, si badi bene, che non vale solo per il Pd, ma per la sinistra tutta (e già Asor Rosa lo poneva in questi termini).

 

Sono passati oltre tre mesi dalle elezioni più disastrose della storia repubblicana e la sinistra, come un pugile suonato, continua a girare su se stessa, adagiata sul refrain che ascolta in cuffia, inerte, appena conscia che al governo ora ci sono le destre, quelle vere, più per colpa della sua inanità che per il consenso raccolto nel paese. Nel Pd si è aperto un dibattito che pare più uno psicodramma che una discussione serrata su strategie, politiche, idee di fondo. Nell’altra sinistra si traccheggia: ognuno coltiva il suo orticello, rivendica lotte ed erge bandiere, mentre il mondo là fuori fa i conti con gli sviluppi del capitalismo maturo, il cui rullo macina rovine inghiottendo i relitti della storia che esso stesso produce.

 

Negli ultimi 20 anni, in Italia, il consenso delle sinistre (escludendo le liste di «centro») si è ridotto, in termini elettorali, da 17,7 a 7 milioni di voti che, se aggiungiamo i 5 Stelle oggi, arriva a 11,4 milioni. Quello delle destre, invece, è rimasto invariato. Se poi consideriamo che tra il 2006 e il 2022 l’affluenza è scesa dall’83.6% al 63.8%, non si può non concludere che sono le sinistre – tanto il Pd quanto le altre – ad aver perso per strada il loro elettorato, disilludendolo profondamente.

 

A fronte di tutto ciò, avete forse notato un fervere di discussioni, articoli, libri, convegni?

Potremmo citare tre libri, dicasi tre, dedicati al tema: quello di Stefano Fassina,
quello di Goffredo Bettini e
quello, più analitico, di Antonio Floridia.

Il Pd ha avviato un «congresso» ma di cosa si discuta non è dato capire. Cuperlo parla di ritorno alle origini delle «ragioni della sinistra», Bonaccini di ceti «produttivi», Schlein di diritti, libertà, emancipazione.

 

Sinistra Italiana non sembra essere passata da un test elettorale: da quelle parti, non paiono esistere ragioni per discutere. Unione Popolare – che pure era nata per unire, che vuol dire aprirsi – è ancora alla ricerca di un equilibrio interno tra forze che preferiscono «marcare il territorio». Tra gli intellettuali che discutono – per lo più in articoli di giornale – è una lista di prognosi fatte da dottori di cui il paziente poco si cura (Andrea Orlando, a un dibattito, ha detto che «dobbiamo fare un congresso, mica un convegno»). Così marcia la sinistra disunita alla ricerca di sé e di una ragione per esistere.

 

Eppure, di ragioni ce ne sarebbero e ne vorrei elencare qui almeno tre.

Tre numeri da cui dovrebbe ripartire qualunque sinistra: 37, 25, 33.

La prima è la quota percentuale sul totale degli occupati di «operai e assimilati». La classe operaia non esisterà più, come una certa vulgata ama dire, eppure gli operai rappresentano ancora il 40.5% del totale dei lavoratori dipendenti e il 28.7% degli indipendenti (in proprio), il 37.3% in media, appunto.

 

La seconda è la quota percentuale degli italiani sotto o sulla soglia di povertà o esclusione, uno su quattro  ( 25 % )

La terza è la quota dei lavoratori – uno su tre – che vive con meno di mille euro lordi al mese ( 33 % )

Queste sono le classi popolari, questi sono gli italiani per i quali il sistema andrebbe profondamente trasformato. Queste dovrebbero essere le classi cui guardare, che la sinistra, invece, ha dimenticato, resasi convinta che i mercati, lasciati liberi, avrebbero portato a una condizione accettabile per tutti.

 

Il che, evidentemente, dopo tre decenni di neo-liberismo è lungi dall’essersi verificata.

 

Ciò che è peggio è che la stessa «prospettiva di classe» è stata abbandonata.

La mobilità sociale, in questo paese, è ferma. Chi nasce povero, povero resta.

A sinistra si è talmente assimilata l’idea che le classi «non esistano più», che sia tutto «ceto medio», che la prospettiva dell’emancipazione è stata fatta divenire un fatto individuale e non di classe, con il portato di frustrazione e rabbia sociale che ciò comporta.

In assenza di prospettiva, ciò che conta è il farsi strada da sé, e non importa come.

Dimenticato il solidarismo di classe, perduta la rappresentanza, ai ceti popolari non resta che «credere» nel capitalismo selvaggio e accettarne le prerogative. Ne ha da fare di strada la sinistra per ritrovare quei ceti. Eppure, quelli sono lì, in attesa di qualcuno che dia loro voce.

 

 

 

 

Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico - Antonio Floridia - copertina

Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico

di Antonio Floridia(Autore)

Castelvecchi, 2019 — 1a edizione

 

 

SULL’AUTORE 

 

Antonio Floridia

FOTO DA ” STRISCIA ROSSA “–https://www.strisciarossa.it/

 

Antonio Floridia

Dopo aver lavorato a lungo presso un istituto di ricerche economiche e sociali, dal 2005 dirige l’Osservatorio elettorale e il settore “Politiche per la partecipazione” della Regione Toscana. Ha insegnato presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze ed è stato presidente della Società Italiana Studi Elettorali (2014-2017). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi (2012), Un’idea deliberativa della democrazia. Genealogia e principi (2017), From Participation to Deliberation. A Critical Genealogy of Deliberative Democracy (2017) e il capitolo The Origins of the Deliberative Turn, all’interno dell’Oxford Handbook of Deliberative Democracy (2018).

SEGUE DA :

https://www.argomenti2000.it/

 

 

DEMOCRAZIA ED ORGANIZZAZIONE NEL PARTITO DEMOCRATICO

RECENSIONE-INTERVISTA AL POLITOLOGO ANTONIO FLORIDIA

 

DELL’ARTICOLO, PUBBLICHIAMO SOLO L’INTERVISTA

—  ( articolo intero, link sotto 

Chi scrive ha potuto rivolgere tre domande direttamente all’Autore del libro, per riuscire a comprendere meglio le elaborazioni di Floridia.

 

PRIMA DOMANDA:

Gentile dott. Floridia, Lei descrive il PD come un “partito sbagliato”.

E questo perché si è manifestato come una sorta di partito liberaldemocratico.

A partire dai momenti e dai testi fondativi (che Lei ripercorre, tra cui il convegno di Orvieto del 6-7 ottobre 2006, le elaborazioni sulla forma organizzativa del PD a cura del politologo Sebastiano Vassallo, il discorso di W. Veltroni al Lingotto di Torino nel 2007 e lo stesso impianto delloStatuto del partito), nel PD “comanderebbero” gli eletti (e non gli iscritti e meno che mai glielettori che partecipano “a spot” alle tornate delle primarie) e, per di più, in salsa plebiscitaria.
E’ cosi?

RISPOSTA DEL DOTT. FLORIDIA:

in realtà dico che, agli inizi, nell’impianto di Veltroni, il Pd aveva una vaga identità liberal, all’americana; e che, nonostante i richiami alla cultura politica della tradizione socialista e della tradizione cattolica democratica, – le culture “fondatrici” – prevalse l’idea di un “partito post-ideologico”, cioè un partito che non aveva più
bisogno di un quadro unitario di idee e principi. Inoltre, non è solo una “salsa plebiscitaria”:
l’impianto del partito si fonda su una logica plebiscitaria: ossa, l’investitura diretta del leader, da parte di un corpo indefinito di “elettori”).

Vorrei sottolineare nuovamente il fatto per cui, nella mia analisi, il richiamo alle culture fondatrici – quella socialista e quella cattolica democratica- che avrebbero dovuto fecondarsi reciprocamente -, in realtà  si è sempre più”perso”, e che il PD è divenuto un partito senza una propria cultura politica, senza identità,
nell’illusione che ci possa essere un partito “tenuto insieme” solo dai programmi, e non da una grade visione ideale.

UNA SECONDA DOMANDA:

in un capitolo del libro, Lei sostiene che la struttura dirigenziale proveniente dal PCI-PDS-DS sia evaporata, a vantaggio della unica persistenza della struttura di provenienza DC-PPI-Margherita; nella sua lettura del “fenomeno PD”, Lei
propone una comparazione tra il modello PD e le forme organizzative di due tra i principali partiti del Novecento italiano, sostenendo che la organizzazione del PD si basa sulla eredità (“impoverita”, lei  aggiunge) della Democrazia Cristiana, piuttosto che dell’expertise tecnico-organizzativo di matrice PCI.

Si potrebbe argomentare anche la tesi opposta: ci si potrebbe chiedere, infatti, se esista ancora e sia attiva una sorta di “affiliazione di amorosi sensi” dentro il PD tra coloro che provengono dai DS e che continuerebbero a fare squadra
nei momenti clou (elaborazione delle liste, scelte strategiche…)…

Basti pensare alla difficoltà che diversi esponenti della cultura cattolico democratica hanno avuto nel proporre idee , visioni del mondo, orizzonti peculiari, nella esperienza sia di parlamentari che dentro il partito…In casi come questi, ci si potrebbe domandare se la presenza della filiera PCI-PDSDS sia evaporata o meno…

 

SECONDA RISPOSTA DEL DOTT. FLORIDIA:

Vorrei precisare che in quel capitolo io sottolineo il fatto che solo alcuni (e non dei migliori) aspetti del modello organizzativo della DC è “è passato” nel PD (la logica delle relazioni e delle filiere personali), mentre è il modello organizzativo del PCI ad essere evaporato (non, propriamente, la “struttura dirigenziale” del
PCI).

Ciò non significa che non possa esservi stato il fenomeno che si segnali, cioè una
certa “solidarietà” di gruppo tra quanti provenivano dalla stessa matrice. Però c’è anche da dire che, con il passare degli anni, quelli che provenivano dal PCI e dai Ds si sono “dispersi”: basti pensare all’appoggio che molti quadri hanno dato a Renzi!

TERZA DOMANDA:

Si sta diffondendo nella comunità ecclesiale ed in essa tra i cattolici e
le cattoliche che si ispirano al cattolicesimo democratico una questione impellente: come rispondere al meglio alle richieste di Papa Francesco di impegnarsi per una politica che promuove la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la promozione degli ultimi?

Sul quotidiano di ispirazione cattolica “Avvenire”, nelle ultime settimane, si sono susseguiti diversi interventi che propongono essenzialmente quattro strade: ricostruire un partito dicattolici (o come fu il PPI di don Luigi Sturzo oppure come fu la DC di De Gasperi); animare vivacemente ed efficacemente i partiti che già esistono; costituire dei FORUM civici di elaborazione comunitaria ed immediatamente prepolitica; costituire una Fondazione comune che abbia lo scopo di formare all’impegno politico.

Dal Suo punto di vista di studioso delle culture politiche, quali suggestioni potrebbe fornirci, in merito al discernimento comunitario da poco avviatosi nella comunità ecclesiale?

RISPOSTA DEL DOTT. FLORIDIA:

Sto seguendo con molto interesse, da osservatore esterno, il dibattito in corso nel
cattolicesimo democratico italiano. In generale, sono convinto di una cosa: una rinascita della politica democratica, in Italia, potrà avvenire solo se si recuperano e si alimentano con spirito innovativo le tradizioni di cultura politica che hanno segnato la storia del nostro paese.
Troppo facile, e troppo comodo, dire che le culture “novecentesche” sono finite o, peggio, che la politica possa oramai vivere senza idee, ideali, principi ispiratori, appiattita sul presente, senza memoria del passato e senza uno sguardo sul futuro.

Un dibattito analogo c’è a sinistra: è davvero non più proponibile un richiamo agli ideali del socialismo democratico? Tutto finito, morto e sepolto?
E così, in termini ovviamente molto diversi, vale anche per le tradizioni del pensiero cattolico democratico? tutto, oramai, consegnato alla storia? Non credo proprio.

E tuttavia, c’è un grave problema: “cultura politica” – lo spiego nel mio libro – significa
l’insieme degli schemi cognitivi e normativi con cui un individuo – ma anche un organismo collettivo, come un partito – pensa se stesso come attore politico, con cui concepisce il proprio rapporto con la comunità in cui vive, attraverso cui immagina un futuro possibile e desiderabile.

Bene: le idee non camminano da sole: hanno bisogno di organizzazione, di
essere articolate, diffuse, Hanno bisogno di essere tradotte in discorsi pubblici capaci di influenzare il senso comune, – che, altrimenti, rimane abbandonato a se stesso, preda delle più casuali, e spesso deleterie, fonti di formazione.

Per questo, è stato delittuoso pensare di poter far a meno di partiti strutturati, o che ci volessero oramai solo partiti “leggeri”, mediatici, “personali”, fondati su una comunicazione senza idee alle spalle. Il disastro che abbiamo sotto gli occhi è eloquente. Bisogna ricostruire partiti degni di questo nome.

Come? Qui, in particolare per la cultura politica cattolica democratica, si pone un dilemma non facile, a cui si faceva riferimento nella domanda: un nuovo partito cattolico o una presenza feconda all’interno dei partiti esistenti?

Se sono chiari i rischi della prima opzione (il rischio di una
presenza dichiaratamente minoritaria e residuale), la seconda opzione non è meno difficile.

Essa presuppone un dato: il Pd, ad esempio, così com’è, non “funziona”: va ripensato
radicalmente tutto il suo modo di concepire la sua vita interna, le regole democratiche, le
strutture organizzative, il suo profilo politico-culturale.

E del resto, ne è una riprova quanto accaduto in questi anni: perché la ricchezza culturale del tessuto associativo del mondo cattolico democratico non ha trovato modo di arricchire la vita del PD? e perché tanta parte di questo tessuto rimane estranea alla politica praticata quotidianamente?

Provo a dare una risposta nel mio libro: perché il Pd è stato pensato, prima, e poi costruito, dopo, sulla base del presupposto fallace che si fosse oramai entrati nell’era della “fine delle ideologie“, e che quindi le identità culturali dovessero rimanere un fatto “privato”, non potessero più alimentare una cultura comune, un dialogo pubblico.

L’idea, fallimentare, che un partito si potesse reggere solo sui “programmi”, e non su un patrimonio condiviso di idee, e sullo scambio fecondo di “punti di vista” ideali.
Se non cambia questo presupposto, è difficile pensare che il PD possa essere oggi, così
com’é, un luogo attrattivo e “ospitale”.

da :

https://www.argomenti2000.it/sites/default/files/Recensione%20A.%20Floridia%20-.pdf#overlay-context=content/libri-politica-istituzioni-e-democrazia

 

 

NOTA SU ” STRISCIA ROSSA “:

E’ un blog fondato da giornalisti de L’Unità: articoli e commenti su politica italiana ed estera, lavoro, ambiente, cultura, iniziative editoriali sulla storia …

 

qui trovate vari articoli..

https://www.strisciarossa.it/author/redazione/

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  1. DONATELLA scrive:

    Penso che un partito, per essere incisivo nella realtà e per poterla migliorare, debba anche avere nel suo “nocciolo” una spinta ideale, ad esempio quella di non lasciare indietro nessuno, che poi si traduce in aspetti estremamente concreti. Questa aspirazione a migliorare la società e a renderla più giusta si è affievolita, forse anche di fronte alla durezza e all’apparente invincibilità del capitalismo attuale, una specie di stanchezza morale ( chi non l’ha mai provata?).Però la consapevolezza che la realtà si può cambiare, anche a piccoli passi, dovrebbe essere presente in un partito di sinistra, altrimenti diventa una consorteria, come molti altri, dove l’importante è l’emergere personale o della propria “corrente”.

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