GIACOMO DEBENEDETTI, IL PERSONAGGIO UOMO, IL SAGGIATORE, 2016 + RECENSIONE : ENZO DI MAURO, Debenedetti, incontro con l’alter-ego e critica come tragedia — IL MANIFESTO 5 MARZO 2017

 

IL SAGGIATORE, 2016
https://www.ilsaggiatore.com/libro/il-personaggio-uomo

 

 

COPERTINA : FRANCIS BACON,

AUTORITRATTO,
1973,
198X148 cm

 

Le Silerchie, Giacomo Debenedetti

Il personaggio uomo

 

Atto costitutivo di una nuova fenomenologia critica e, insieme, testamento intellettualeIl personaggio‑uomo di Giacomo Debenedetti è il centro di un assedio sfiancante, il luogo di un interrogatorio infinito al quale sono convocati, senza possibilità di appello, gli scrittori, i musicisti e i registi della prima metà del Novecento che hanno dato vita ai personaggi più enigmatici del loro tempo. Non più figure grigie e bidimensionali costrette alla palette de couleur ( tavolozza dei colori ) del verismo e del naturalismo, i personaggi dell’arte novecentesca erompono dalle pagine e dalle tele, dagli schermi e dalle partiture come una fiamma indomabile di pulsioni di morte: sono ritratti baconiani, sanguinanti di bile e di colore; troppo nudi, troppo somiglianti alla vita, e per questo incompresi e temuti dai loro contemporanei. Fil rouge sfrangiato che più non si riavvolge, orfano vilipeso e sfigurato, il personaggio‑uomo di Debenedetti, nel segno dell’antecedente baudelairiano dell’Albatros o del Makar di Dostoevskij, incarna un principio universale di sconcezza e innocenza.

Come uno spettro si aggira, irrisolto, nell’arte di questo tempo: è Vitangelo Moscarda, che si scopre uno, nessuno e centomila; è Zeno Cosini che incassa il «cazzotto cieco e sconcertante» della vita; è Proust davanti al cespo di rose del Bengala, in attesa che queste si lascino sfuggire un segreto; è Remigio nel Podere di Tozzi, incapace di difendere la «roba»; è l’Ulisse di Joyce, e il suo naufragio nelle strade di Dublino; è la «melodia stanca» di Puccini e la mela in putrescenza di Cézanne.

Per il critico, è soprattutto il romanzoa dare corpo – attraverso i suoi caratteri – al «caos» novecentesco, cifrato nella sua investitura etimologica di «fenditura», di velo che inaspettatamente si solleva e lascia scorgere, per un momento o per sempre, il volto deforme e meduseo del Fato: quello strappo nel cielo di carta pirandelliano, di fronte al quale si può soltanto pronunciare la maledizione.

È proprio il personaggio – il personaggio drammaticamente umano, l’antipersonaggio, il personaggio‑uomo– a tenere in mano la chiave d’accesso a questa nuova, scompaginata realtà, e solo in un rapporto complice o litigioso con lui, purché profondo, il lettore può cogliere la verità di un libro, di una storia, di una vita. Ma se provi a interrogarlo, il personaggio‑uomo risponderà sempre con il suo motto araldico: «Si tratta anche di te». È un’ombra che capovolge la domanda e chiede ragione della propria disgrazia, ricordandoci che anche noi siamo fatti della stessa sostanza, e destinati alla medesima rovina.

Così, nel secolo del trinceramento, della relatività, del complesso d’Edipo e della morte di Dio, l’uomo, e il suo «alter‑ego che ci viene incontro dai romanzi», è di nuovo chiamato, come nella tragedia antica di un Prometeo o di un’Antigone, a lasciarsi sopraffare da un destino più grande, una sorte prefissata e avvolgente che porta alla disfatta e all’autodistruzione. Nell’arte come nella vita, a poco valgono le ribellioni, le strategie, gli oroscopi benaugurosi: l’uomo in rivolta assume le sembianze di uno scarafaggio kafkiano che, dorso a terra, agita invano le zampe contro il cielo. Una vocazione inesorabile guida allora il critico in questo passaggio metafisico, questo inabissamento letterario: rifare in eterno i passi di Orfeo, scendere tra le ombre dell’arte per tentare ogni volta di recuperare qualcosa. Ancora più nel profondo: per decifrare la vita.

nota :

  1. L’albatro (L’albatros) è il titolo di uno dei componimenti poetici più noti di Charles Baudelaire e fa parte della sezione Spleen e ideale, la prima delle sei che compongono I fiori del male; era assente nella prima edizione della raccolta (1857) ed entrò a farne parte a partire dall’edizione del 1861.

I fiori del male. Testo francese a fronte - Charles Baudelaire - copertina

testo francese a fronte

 

2. Makar è il personaggio del primo romanzo di Dostoevskij,  ” Povera gente ”

Povera gente - Fëdor Dostoevskij - copertina

 

 

Quando Sapegno e Bo bocciarono Giacomo Debenedetti | Fatto ...

foto : https://fattoadarte.corriere.it/

 

Giacomo Debenedetti è nato a Biella nel 1901, e morto a Roma nel 1967. È stato uno dei maggiori critici letterari del Novecento, e ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Messina e alla Sapienza Università di Roma. Collaboratore di Alberto Mondadori, ha contribuito alla nascita della casa editrice il Saggiatore, della quale è stato direttore editoriale, e ha ideato la collana «Biblioteca delle Silerchie». Tra i suoi saggi ricordiamo Il romanzo del Novecento (1971), Poesia italiana del Novecento (1974), Verga e il naturalismo (1976), Personaggi e destino. La metamorfosi del romanzo contemporaneo (1977), Pascoli, la rivoluzione consapevole (1979), Rileggere Proust (1982) e Quaderni di Montaigne (1986).

 

 

UNA RECENSIONE :

 

IL MANIFESTO DEL 5 MARZO 2017
https://ilmanifesto.it/debenedetti-incontro-con-lalter-ego-e-critica-come-tragedia

 

Debenedetti, incontro con l’alter-ego e critica come tragedia

 

Rileggere «Il personaggio-uomo», riproposto dal Saggiatore con saggio di Raffaele Manica, significa toccare la modernità nel suo punto di non-ritorno

Debenedetti, incontro con l’alter-ego e critica come tragedia

Roger De la Fresnaye, «Vita coniugale», 1913, The Barnes Foundation

 

Tornare a Giacomo Debenedetti significa ogni volta e innanzitutto misurare il pieno e il vuoto lasciati da un maestro che seppe circostanziare la critica in uno spazio e in un punto di non ritorno – una corda tesa fino quasi a spezzarsi, un fascio di nervi sensibilissimo, un orecchio assoluto –, per quanto attiene alle risultanze analitiche e diagnostiche e nondimeno, in specie negli anni estremi del magistero, etiche, si direbbe regolate dalle vibrazioni allarmate dal diapason interiore di un sentimento tragico, laddove pare che l’opacità del futuro, la sua sostanziale illeggibilità, non può che trasformare quel discorrere in una sorta di avviso ai naviganti e ai posteri, affinché sappiano cogliere, gli uni e gli altri, i venti di tempesta e le difficoltà nel corso della loro navigazione. La questione intanto – come ragionò Alberto Moravia in morte del critico– era di fondo e di sfondo: in Debenedetti si percepiva «la qualità molto moderna e attuale della sua civiltà» ovvero di quell’essere civile in maniera sorgiva «con trepidazione, con inquietudine, con angoscia».

Ecco, ma trattandosi per l’appunto di un tasto inesauribile, come capita con gli autori classici (scrittori, certo, e critici e saggisti di sguardo e di respiro europeo: Auerbach, Curtius, Contini, Longhi, Spitzer…), rimane infine e pur sempre (per lui e per i suoi lettori) la felicità delle rivelazioni che un testo produce e dello svelamento di un clima, di un’andatura epocale, uno svelamento esercitato mediante strumenti sottili, affilatissimi, quelli che il secolo gli metteva a servizio, dalla psicoanalisi alla fenomenologia, dalla sociologia alla fisica delle particelle.

Rileggere, ora tornato in libreria e accompagnato da un bellissimo saggio di Raffaele Manica, Il personaggio-uomo (il Saggiatore, «Silerchie», pp. 167, euro 17,00), significa chiamare in causa quel sentimento dell’angoscia di cui parlava Moravia. Occorre rammentare che i sette saggi contenuti nel volume, apparso postumo nel settembre del 1970, vennero tutti composti tra il 1958 e il 1966, l’anno precedente alla scomparsa del critico.

In una nota editoriale si sottolineava, a proposito del titolo non d’autore, come esso fosse stato scelto perché considerato «strettamente attinente alla tematica e alla problematica del contesto», in modo peculiare (aggiungiamo noi) ai primi quattro («Commemorazione del personaggio-uomo», «Un punto d’intesa nel romanzo moderno?», «Il personaggio-uomo nell’arte moderna» e «Con gli occhi chiusi»), mentre i tre della seconda parte («Puccini e la “melodia stanca”», «Il tarlo in valuta oro», dedicato a Libri nuovi e usati di Emilio Cecchi, e «Vittoriani a Cracovia») fanno da peraltro utilissimo corollario. Ma ora, qui, conviene concentrarsi sulla prima parte o, anzi e meglio, sul saggio d’apertura (datato 1965) per innanzitutto segnalare come generalmente si commemori chi o ciò che non c’è più, nel caso in questione quel nostro alter-ego, fatto a immagine e somiglianza dell’uomo che, nel mentre ci viene incontro dalle pagine di un romanzo e a seguire anche dalla pellicola, consentiva l’esistenza, dice Debenedetti, della critica osmotica, «la quale penetrava il personaggio, e ne era penetrata, giungendo infine a comprenderlo e “a spiegarlo”», una critica di necessità poi divenuta «accerchiante» (e l’accerchiamento è un assedio che di preferenza si mette in atto dinanzi a un nemico).

Debenedetti si concentra sulle grandi esperienze che hanno segnato i primi tre decenni del Novecento. Al suo Proust e a Joyce, a Tozzi e a Pirandello (i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, dove si «descrive abbastanza esplicitamente l’eziologia deformante che interessa prima di tutto i tratti facciali», ad essi conferendo un’«“espressione di sofferenza”»), i cui romanzi «sono un susseguirsi ininterrotto di esplosioni: esplodono gli oggetti, esplodono i personaggi» e quei frantumi continuano a parlare e addirittura conquistano un’«identità più intensa di quella che si è dissolta». Ma è a quest’altezza che il critico pare fermarsi e, come annota Contini nelle due pagine a Debenedetti dedicate nel suo Schedario di scrittori italiani moderni e contemporanei, non seguire oltre un certo limite tale dissoluzione. Certo, l’impasse è nel saggio rappresentata da Robbe-Grillet e dalle teorie fondative del Nouveau Roman. Ma pure le domande quasi finali che Debenedetti rivolge e si rivolge – vale a dire «perché l’arte, e in particolare la narrativa (…) offende poi il volto dell’uomo?» e perché si «oltraggia la creatura?» – illuminano questi saggi di una luce terribile, domande che in qualche modo non possono non travalicare la letteratura stessa. Il critico lo scrive quasi si trattasse di una parentesi: «Attraverso l’esperienza dei campi, lo psicologo Bettelheim ha identificato la figura delle “situazioni estreme”: esse presuppongono l’uomo divenuto numero di matricola, come dice con involontaria atrocità Robbe-Grillet». Non sta forse nel significato di questo inciso la bellezza e, ben di più, la grandezza testamentaria della Commemorazione?

 

 

NOTA  SUL PITTORE:

Roger De la Fresnaye

 

de La Fresnaye: Selbstporträt. Kunstdruck, Leinwandbild, Gerahmtes Bild

AUTORITRATTO

 

Roger de La Fresnaye (Le Mans11 luglio 1885 – Grasse27 novembre 1925) è stato un pittore francese, tra gli iniziatori del cubismo.

Originario di una ricca famiglia di provincia, con solide tradizioni militari alle spalle, a 13 anni parte per Parigi per completare gli studi. Nel 1908 si diploma presso la Ecole des Beaux-Arts e si perfeziona con i maestri Maurice Denis e Paul Sérusier. Superata una breve esperienza Nabis, tra il 1912 e il 1914 diventa membro della Section d’Or e adatta la sua pittura ad un tipo di cubismo che verrà definito orfico da Guillaume Apollinaire.[1] Roger de la Fresnaye sembra essere coinvolto ed attratto dal cubismo più nelle sue dinamiche stilistiche e di visione formale che nella struttura di costruzione dell’opera (come avviene per Georges Braque e Pablo Picasso.

È ormai un artista affermato, perfettamente integrato nel clima mondano della capitale, quando lo scoppio del conflitto mondiale lo porta ad affrontare una difficile decisione personale. Spinto dalla famiglia parteciperà quindi alla guerra come ufficiale. L’esperienza bellica sarà però decisiva per il suo stato di salute e chiuderà di fatto la sua militanza cubista. Terminato il conflitto, molto provato, si ritira in campagna, dove morirà appena quarantenne nel 1925.

DA :

WIKIPEDIA, https://it.wikipedia.org/wiki/Roger_de_La_Fresnaye

 

 

La conquista dell'aria di Roger de la Fresnaye

La conquista dell’aria — Autore: Roger de la Fresnaye

1913
New York, Museum of Modern Art (MoMA)

 

 

Roger de la Fresnaye, anche se non è molto noto in Italia, è stato uno dei pittori cubisti più interessanti, in virtù del fatto che non accettò completamente i dettami dell’arte cubista di Picasso e Braque,  ma preferì proporre una strada personale, in cui la scomposizione geometrica della realtà (componente fondante del cubismo) non fosse mai estrema ma fosse unita a un certo grado di naturalismo. Il tutto unito a colori molto tersi e brillanti.

“La conquista dell’aria” del 1913 è un tipico esempio dell’arte di Fresnaye. Il dipinto è conservato al Museum of Modern Art (MoMA) di New York e vuole essere un omaggio del pittore alle conquiste che l’aeronautica aveva fatto al suo tempo. Il dipinto ritrae due personaggi, che giocano a carte su un tavolino che si libra nell’aria e vola sopra campi e città. I personaggi sono stati identificati come lo stesso Roger de la Fresnaye e suo fratello Henri, che all’epoca dirigeva una fabbrica aeronautica a Meulan, nelle campagne attorno a Parigi. Vicino alle nuvole nella parte alta della composizione, la bandiera francese vuole ricordare le conquiste della Francia nel settore: è infatti raffigurata anche sulla sinistra una mongolfiera, invenzione che come tutti sappiamo è nata in Francia grazie ai fratelli Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier.

 

da :

FINESTRE SULL’ARTE,  17 MARZO 2013

https://www.finestresullarte.info/operadelgiorno/2013/115-roger-de-la-fresnaye-la-conquista-dell-aria.php

 

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1 risposta a GIACOMO DEBENEDETTI, IL PERSONAGGIO UOMO, IL SAGGIATORE, 2016 + RECENSIONE : ENZO DI MAURO, Debenedetti, incontro con l’alter-ego e critica come tragedia — IL MANIFESTO 5 MARZO 2017

  1. DONATELLA scrive:

    Bellissimi i brani e i ritratti che li accompagnano.

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