L’ idea russa. Da Dostoevskij a Putin di Bengt Jangefeldt, Neri Pozza, 2022 + recensione : Paola Ferretti ( Univ. La Sapienza ), Russia, tra ortodossia e slavismo, l’eterna «eccezione» di una identità nazionale – Alias, Il Manifesto, 17 luglio 2022

 

 

L' idea russa. Da Dostoevskij a Putin - Bengt Jangfeldt - copertina

L’ idea russa. Da Dostoevskij a Putin

Neri Pozza, 2022

 

«La guerra della Russia con l’Ucraina è ritenuta non solo incomprensibile ma anche irrazionale, al punto che la salute mentale di Vladimir Putin è stata messa in dubbio. Il suo desiderio di controllare e magari sottomettere l’Ucraina, tuttavia, non è che la conseguenza logica di un’ideologia formulata inizialmente dagli slavofili e da Dostoevskij, e poi sviluppata da Danilevskij, Leont’ev, gli eurasisti, Dugin e altri: l'”idea russa” nella sua sanguinosa concretezza.»

Un’idea percorre la storia della Russia e attraversa i secoli per giungere fino a noi, da Dostoevskij fino a Putin: l’idea dell’eccezionalità della Russia, di un Impero che non è né Occidente né Oriente e che, perciò, può congiungere i due mondi in nome di una sua peculiare forza morale e spirituale. «È ora che io passi alla storia» ha dichiarato Putin a un giornalista russo nel lontano settembre 2013. Non vi sono dubbi che l’obiettivo di Putin sia ricostituire l’Impero russo. Su quali basi, su quali idee, però, si fonda questo disegno, oltre che, naturalmente, sulla forza delle armi? La risposta sta, secondo Bengt Jangfeldt, uno dei maggiori studiosi internazionali di letteratura russa, nelle idee sull’identità nazionale russa formulate da filosofi e scrittori sin dalla metà del xix secolo. In Fëdor Dostoevskij, il grande autore di indimenticabili capolavori della letteratura, che scrive: «C’è una sola verità, e solo un popolo può avere un vero Dio. L’unico popolo portatore di Dio è il russo». In Nikolaj Danilevskij, l’autore di Russia ed Europa, che afferma: «La Russia può conquistare un posto nella storia degno di sé e dei popoli slavi solo ponendosi a guida di un sistema indipendente di Stati e agendo da contrappeso all’Europa in tutte le sue manifestazioni». In Nikolaj Trubeckoj, l’inventore del movimento politico-filosofico chiamato eurasismo per il quale il «mondo russo» è uno spazio che comprende Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan.

E naturalmente in Aleksandr Dugin e il suo sogno della Grande Russia eurasiatica. Attraverso un agile excursus storico, Bengt Jangfeldt mostra come, formulata circa due secoli fa, all’epoca di Nicola I, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e in particolare nell’era di Putin, l’idea che la Russia sia una civiltà a sé abbia conosciuto «una straordinaria rinascita al punto che, sotto il nome di patriottismo, sia arrivata a sostituire il comunismo come ideologia di Stato». L’«idea russa», la chiamava Dostoevskij. A quest’idea sono dedicate le pagine che seguono, indispensabili per capire realmente che cosa è in gioco nella «terra di frontiera» chiamata Ucraina.

 

 

RECENSIONE : 

 

IL MANIFESTO/ ALIAS  DEL 17 LUGLIO 2022
https://ilmanifesto.it/tra-ortodossia-e-slavismo-leterna-eccezione-di-una-identita-nazionale

 

Russia, tra ortodossia e slavismo, l’eterna «eccezione» di una identità nazionale

SAGGI. «L’idea russa da Dostoevskij a Putin», da Neri Pozza

Ekaterina Lisovenko, artista ucraina «Senza titolo», 2022  – vedi post sg.

 

La riflessione sull’identità nazionale ha conosciuto in Russia un’ipertrofia non paragonabile a quella di altre culture: una sorta di chiodo fisso ineludibile, che ha generato nell’arco degli ultimi tre secoli una mole imponente di elaborazioni. Ripercorrerle praticamente tutte, come fa Bengt Jangfeldt nel suo corposo saggio appena tradotto – L’idea russa Da Dostoevskij a Putin (traduzione di Lidia Salvati, Neri Pozza, pp. 185, € 18,00), equivale a reintrodurre nodi cruciali per la comprensione di un presente altrimenti inintellegibile.

Nelle epoche che si susseguono, e nelle correnti di pensiero che le accompagnano, a colpire sono le costanti, piuttosto che le variabili. Posizioni messe a punto secoli fa si rivelano provvidenziali per confrontarsi col presente: l’eurasismo, ad esempio, nato negli anni Venti nel contesto dell’emigrazione, prefigurava uno stato «ideocratico» fondato sull’ortodossia e capace di unificare un territorio vastissimo, non assimilabile interamente né all’Asia né all’Europa. Al tempo del suo principale teorico, Nikolaj Trubeckoj, ebbe un impatto limitato, ma fu riportato in voga nell’era di Gorbachev per mano di Lev Gumilev, per finire inglobato nei controversi scritti (diffusi con tirature sovietiche) di Aleksandr Dugin, ideologo putiniano.

La coazione a ripetere fa perno su caratteristiche impermeabili alle mutazioni – tra epoca zarista, settantennio comunista e fase post-sovietica – in un copione che si ripropone invariato dal tempo di Caterina II ad oggi, tra colpi di stato riusciti e moti falliti, idealismo dei pochi e acquiescenza delle masse, ferreo potere centrale basato sul gigantismo degli apparati repressivi e disegni riformisti abbandonati malamente alla prima minaccia di scossoni alle fondamenta statuali.

Il meccanismo, dalla gittata plurisecolare, si innesca con Pietro il Grande: è la colossale, innaturale sterzata in direzione europea da lui impressa al percorso del paese a inaugurare le forzature che ciclicamente si ripresenteranno nelle epoche successive. Anche il pensiero si orienta verso una polarizzazione assoluta, generata alla collisione di due principi: il volto slavo della Russia, profondamente intrecciato alle sue radici asiatiche, e quello europeo «di importazione», osannato o ripudiato a seconda dei frangenti.

Delle due dorsali di matrice ottocentesca che si delineano (Slavofilia e Occidentalismo), la meno longeva è la seconda, segnata dalla tragica figura di Petr Chaadaev: primo intellettuale dichiarato pazzo per motivi politici, la sua cruda «lettera filosofica» del 1836, che additava l’inclusione solo apparente della Russia nella famiglia delle nazioni europee, aveva avuto l’effetto di uno «sparo nella notte». È agli Slavofili che si deve il mito dell’unicità russa, l’idea di una civiltà contraddistinta da una profonda spiritualità e da una superiorità indiscussa rispetto al «marcio» Occidente, al punto da potersi autoinvestire di una missione salvifica nei suoi confronti. La Rivoluzione del 1917 aggiunge una componente ideologica al tradizionale antagonismo tra Russia ed Europa, che si fa contrapposizione tra socialismo e capitalismo.

Nel vuoto post-marxista, il bisogno di un modello universale capace di rimpiazzare quello che per settant’anni aveva accompagnato la vita dei popoli sovietici trova la risposta più attraente nell’eurasismo, che nelle sue diverse accezioni si fa duttile strumento di propaganda in chiave antiatlantica. Riesumata la nozione di impero – una delle costanti più stabili dell’autorappresentazione nazionale – «l’unica idea unificante possibile» sarà il patriottismo, instillabile mediante una capillare politica culturale. È almeno a partire dal 2013 che Putin promuove in ogni possibile occasione ufficiale il paradigma della rovina morale dell’Occidente, e dell’urgenza di difendersene, dando corso alla propria «missione morale superiore». Un’idea dalle radici lontane ma tenacissime, che mostra come la storia del pensiero russo contenga in sé anche i germi della sua autodistruzione.

 

 

QUALCOSA SULL’AUTORE:

Bengt Jangfeldt alla Fiera del Libro di Göteborg 2015.

Bengt Jangfeldt alla Fiera del Libro di Göteborg 2015.

 

Bengt Åke Jangfeldt , nato il 22 novembre 1948 a Stoccolma, è un autore e traduttore svedese dal russo, professore presso il Dipartimento di studi slavi, Università di Stoccolma.

Bengt Jangfeldt è cresciuto a Vällingby a Stoccolma.  Ha difeso la sua tesi nel 1976 su Vladimir Mayakovsky  ed è uno dei massimi esperti Mayakovsky del mondo. Con la sua edizione della corrispondenza tra Mayakovsky e Lili Brik , “L’amore è il cuore di tutto” (1982), opera standard pubblicata in diverse lingue, ha posto, secondo i critici, “le basi di tutta la futura ricerca Mayakovsky”. Insieme a Gunnar Harding, ha anche interpretato la poesia di Mayakovsky in svedese.

È stato editore di Artes dal 1989 al 1999.

Alcune pubblicazioni accusano Jangfeldt di aver rubato quattro dipinti di Kazimir Malevich del critico d’arte russo Khardzhiev.

 

PUBBLICAZIONI

  • 1971 – Reazione ufficiale sovietica al Premio Nobel di Solzenicyn
  • 1995 – Il tredicesimo apostolo
  • 1997 – Da Landskrona a Nyenskans
  • 1998 – Strade svedesi a San Pietroburgo
  • 2000 – Il sogno del San Michele: un viaggio sulle orme di Axel Munthe
  • 2001 – Axel Munthe
  • 2003 – Uno spirito infelice, la storia di Axel Munthe
  • 2004 – Munthes Capri
  • 2007 – Con la vita in gioco: la storia di Vladimir Mayakovsky e della sua cerchia
  • 2010 – Il linguaggio è Dio, note su Joseph Brodsky
  • 2012 – Raoul Wallenberg. una biografia
  • 2015 – Una storia russa
  • 2017 – Noi e loro

TRADUZIONI ED PREMI NEL LINK :

https://sv.wikipedia.org/wiki/Bengt_Jangfeldt

 

 

UN ALTRO LIBRO DI BENGT JAGENFELDT

 

Raccolta per la prima volta nel 1982 da Bengt Jangfeldt, è arricchita in questa edizione da un’introduzione che si sofferma anche sulla natura dei rapporti di Majakowski e Lili Brik e il marito di Lili, Osip.

 

L’amore è il cuore di tutte le cose

Vladimir Majakovskij, Lili Brik

Neri Pozza, 2005

 

 

Il rapporto che legò per quindici anni Vladimir Majakovskij a Lili Brik e al marito di questa, Osip, è forse il più spregiudicato e radicale «tentativo amoroso» mai compiuto da un poeta, o, più semplicemente, da un uomo. Majakovskij conobbe Lili il 7 maggio 1915 e non tardò a innamorarsene; ma Lili, una donna di grande fascino e carattere, sorella di quell’Elsa Triolet alla quale un altro poeta, il francese Louis Aragon, avrebbe dedicato un’inesauribile passione e i più toccanti tra i suoi versi, era sposata a un altro.

Dalle circostanze avrebbe potuto nascere un banale triangolo amoroso o un borghese ménage a trois, ne nacque invece una vicenda di inedita, struggente intensità e purezza. Lili, pur ricambiando l’amore del poeta, non ingannò né abbandonò il marito; lei e Majakovskij lo coinvolsero nel fervore, intellettuale oltre che sentimentale, della loro passione. E Osip, da giurista e commerciante che era, divenne critico ed editore del rivale, e uno dei più brillanti animatori della vita letteraria russa nell’epoca d’oro dell’avanguardia futurista e formalista.
Offuscata subito da incredulità e maldicenze, colpita, dopo il suicidio del poeta, dalla mistificante censura dell’ufficialità sovietica, questa storia rivive finalmente in tutta la sua complessa, drammatica, gioiosa verità nella fittissima corrispondenza (centinaia di lettere, biglietti, cartoline, telegrammi) che Majakovskij e Lili si scambiarono dal 1915 al 1930 con ininterrotta tenerezza: una tenerezza capace di superare e inglobare separazioni e crisi, disagi e amarezze, il bisogno di altri amori e la fatalità di altri incontri.
Raccolta per la prima volta nel 1982 da Bengt Jangfeldt, e arricchita in questa edizione da un’introduzione che si sofferma anche sulla natura dei rapporti tra i Brik e la CEKA all’inizio degli anni Venti e sulla vicenda della figlia «americana» di Majakovskij, questa straordinaria documentazione non costituisce soltanto un romanzo di grande valore umano e psicologico, è anche uno strumento indispensabile per penetrare nella personalità di uno dei più grandi poeti del secolo scorso e per ricostruire la quotidianità di un periodo storico che ha mutato il destino del mondo.

 

 

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