+++ LUCIANA COLUCCELLO, “Fino alla vittoria”: Kharkiv si sente tradita ma non si arrende. Voci dalla russofona capitale intellettuale dell’Ucraina.–LIMESONLINE DEL 4 APRILE 2022

 

LIMESONLINE DEL 4 APRILE 2022

https://www.limesonline.com/guerra-ucraina-kharkiv-putin-bombardamenti-russia-resistenza/127507

 

 

“Fino alla vittoria”: Kharkiv si sente tradita ma non si arrende

 

 

 

accademia kharkiv

Fotografia di Luciana Coluccello – 2022

 

 

Voci dalla russofona capitale intellettuale dell’Ucraina, che mai avrebbe immaginato l’invasione di Mosca e le accuse di nazismo.

 

Chi è Luciana Coluccello, la giovane inviata freelance sul fronte in Ucraina - Affaritaliani.it

di Luciana Coluccello ( Morciano di Leuca-Lecce, 1988 )

Mappa MICHELIN Morciano di Leuca - Pinatina di Morciano di Leuca ViaMichelin

 

 

 

 

 

«Il mio migliore amico era filorusso. Non gli interessava quell’Europa che, in fondo, non ci ha mai voluti. Diceva che la Russia culturalmente è molto più simile a noi. Nel 2014 simpatizzava per i separatisti. Dopo il 24 febbraio ha completamente cambiato idea. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Anton, sono stato un idiota. Vada al diavolo Putin e la Russia”».


Anton è un giovane imprenditore di Kharkiv. Ha un negozio di scarpe chiuso dall’inizio della guerra, perché in quella che è stata la prima capitale del paese ai tempi della Repubblica Socialista Sovietica Ucrainai bombardamenti si sono fatti sentire già il 24 febbraio.


Ora Anton è un volontario. Va in giro con il giubbotto antiproiettile a consegnare cibo a chi è rimasto bloccato in casa, o nei sotterranei della città: scuole, metropolitane, vecchie cantine dismesse. È un lavoro, il suo, che può costare la vita: solo a Kharkiv dall’inizio della guerra sono già morti una decina di ragazzi e ragazze.


Missili Grad e di altro tipo, bombe a grappolo e proiettili ormai sono il pane quotidiano per la seconda città più grande dell’Ucraina. Giorno e notte.


edifici civili distrutti

Edifici civili distrutti in via Ivanova, nel centro storico di Kharkiv
Fotografia di Luciana Coluccello – 2022


 

Centinaia sono gli edifici civili distrutti, altrettanti i morti. Eppure, le strade di Kharkiv non appaiono mai veramente deserte, anche se almeno la metà dei suoi residenti (1.430.000, fino al 24 febbraio) è scappata. C’è sempre qualcuno in giro. Qualcuno che ha voglia di ribadire che resisterà fino alla fine. Anzi, no, non dicono mai «fino alla fine». Dicono sempre, convinti: «fino alla vittoria». Anche se questo potrebbe significare vivere per molto tempo sotto terra come i topi, senza luce, acqua, igiene, privacy.


«No, non ci arrenderemo», afferma deciso Anton, dopo aver consegnato il cibo a un’anziana che vive a Saltivka, quartiere settentrionale della città, tra i più colpiti, a un paio di chilometri dalla linea del fronte.


«Veramente voi europei pensate che ci possa essere una trattativa con la Russia?

Vivete in un mondo roseo, da quasi ottant’anni vi godete la pace nelle vostre città, sorseggiate vino e filosofeggiate su ciò che accade qui, ma non avete minimamente idea di cosa voglia dire perdere tutto in un attimo. Parlate di dialogo, di diplomazia. Ma io la penso come un mio amico, un militare impiegato nelle operazioni speciali. Uno a cui viene il sangue agli occhi quando parla dei russi: li vorrebbe uccidere a uno a uno con le sue mani. Anche quelli che fanno finta di pentirsi. Sai perché? Perché dice che l’unico modo di vincere questa guerra è usare la stessa mentalità da bullo di Putin,sterminarli tutti senza pietà. Io sono d’accordo. Non voglio che la mia città finisca come Mariupol’ e credo nella forza della gente di Kharkiv. Nel 2014 anche noi abbiamo rischiato di fare la fine del Donbas. Ma l’abbiamo evitato facendo fuori subito tutti i separatisti».

 


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Geroev Truda Market, quartiere Saltivka, una delle aree più colpite della città
Fotografia di Luciana Coluccello – 2022


 

Kharkiv può essere considerata l’emblema della resistenza di tutta l’Ucraina.

I suoi abitanti sono forse i più arrabbiati con l’invasore: il senso di tradimento, qui, è fortissimo. Mai si sarebbero aspettati un trattamento simile dalla grande sorella Russia.


 

Gli anziani sono i più delusi. Hanno vissuto una vita di repressione nel periodo sovietico.

«Una vita in cui dovevi costantemente leggere tra le righe», spiega Irina. «Perché la realtà non era mai quella che ti stavano raccontando. C’era una propaganda costante, l’idea secondo cui eravamo tutti uguali per il comunismo. Poi però morivamo tutti di fame».


 

Molti familiari di Irina hanno combattuto diverse guerre accanto ai russi.

«Mio padre è stato un soldato dell’Unione Sovietica. Altri miei parenti si sono arruolati nelle truppe russe in Afghanistan e in Cecenia. Non avrei mai pensato che questo potesse accadere a me, al popolo ucraino. Scusate se sto piangendo, piango anche per quei giovani soldati russi che vanno al fronte senza sapere niente, senza conoscere il motivo di questa guerra, senza nemmeno sapere perché sono mandati a morire. Pensavo sul serio che l’incubo dell’Unione Sovietica fosse finito molti anni fa. E invece eccoci qua: ciò che è accaduto in Georgia e in Cecenia ora sta succedendo a noi».


 

Il dolore di Irina è tanto più forte non appena pensa al fatto che Mosca definisce “nazisti” gli ucraini:

«Noi lo abbiamo combattuto insieme ai russi, il nazismo. La nostra città è stata eroica nel resistere alle truppe naziste durante la seconda guerra mondiale».


Meno di 40 chilometri separano Kharkiv dal confine russo.

In quella che è considerata la capitale intellettuale dell’Ucraina (alla Karazin Kharkiv National University, uno dei più grandi centri di ricerca del paese, si sono laureati tre premi nobel: Elie Mechnikov, Lev Landau e Simon Kuznets), la lingua più parlata è il russo. Forse Putin si sarebbe aspettato un’altra accoglienza. I suoi bombardamenti sembrano ancora più accaniti perché hanno il sapore della punizione.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

«Io già a gennaio lo sapevo che sarebbe scoppiata la guerra», dice Misha (34 anni). «E ti confesso che ero convinto che la mia città sarebbe caduta subito, perché se parlavi con qualsiasi anziano ti sentivi dire di lasciar perdere Unione Europea e Nato e di tenerci stretti i rapporti con la Russia, anche perché ci ha sempre fatto pagare poco il gas. Io avevo già messo in conto che sarei scappato, se Kharkiv fosse diventata russa. Invece siamo ancora qui e abbiamo creato una rete di volontari fortissima che sfama, procura medicine e aiuta la mia città a resistere giorno dopo giorno».


In effetti Misha a quest’ora avrebbe potuto essere dovunque, anziché vivere sotto le bombe, perché possiede anche il passaporto israeliano. È un imprenditore di talento, uno sportivo. Metà della sua famiglia vive negli Stati Uniti e l’altra metà in Israele. Ha sempre odiato le armi. Si definisce un pacifista, un ragazzo cresciuto con il desiderio che il suo paese entrasse a pieno titolo nell’Unione Europea. Eppure, diverse volte l’ho visto armare il suo kalashnikov nelle due settimane in cui ho vissuto nel suo bunker, sottoterra come lui, dal 26 febbraio, insieme ad altri 10 volontari.


 

Lo scontro generazionale a Kharkiv è tangibile. O meglio, lo era. Come dice un sacerdote che la domenica celebra messa sotto la metropolitana per tutti gli sfollati che vivono dentro i vagoni dal 25 febbraio: «Adesso siamo tutti più uniti e più forti. E uniti dobbiamo restare fino alla vittoria». Anche per lui il dubbio non è contemplato: «fino alla vittoria». Kharkiv, insomma, è la rappresentazione plastica di come Putin abbia completamente sbagliato strategia, finendo per compattare contro di sé l’avversario.

 

 


Respinte immediatamente sul terreno, uccise in seguito ai combattimenti ferocissimi di fine febbraio, le truppe russe non sono più riuscite a metter piede in città. Sono bloccate a nord e a est, appena fuori la tangenziale cittadina. E da lì colpiscono i civili e le loro case, il centro e le periferie, gli edifici sacri e gli zoo, le università, i centri commerciali, le palestre.

 


«Per favore, chiudete lo spazio aereo, per favore», urla una signora sulla sessantina, in coda ad aspettare gli aiuti umanitari. «Quanti bambini devono ancora morire per farvi capire che Putin non si fermerà?»


 

Natasha chiede la stessa cosa. Madre metà ucraina e metà russa, padre russo e una vita a lavorare tra Mosca e Kharkiv, perché le vite di chi abitava questi due paesi si sono sempre intrecciate.

«Ma oggi odio Putin con tutte le mie forze. Come si permette di parlare di nazismo in Ucraina quando io che ho sempre parlato e scritto in russo anche nei documenti ufficiali di lavoro non ho mai avuto nessun problema? Nessuno che mi abbia mai obbligato a usare l’ucraino. Anzi, ho sempre trovato gente disposta a darmi una mano».

 


bunker kharkiv

Bunker antibomba del periodo sovietico, ora base dei volontari di Rescue.now
Fotografia di Luciana Coluccello – 2022

 


Mentre racconta, Natasha ha gli occhi pieni di lacrime. Se li asciuga, prova a fare un brindisi. Alza il calice, e dice «Nasdarovie!» (“salute!”, in russo). Si pente immediatamente: dovremmo parlare solo ucraino d’ora in avanti. Il problema è che proprio non se lo ricorda come si dice “salute” in ucraino. Chiede alle sue amiche: non ne hanno idea nemmeno loro. Giovane donna d’affari nella sua vita precedente, Natasha è oggi una volontaria. Lei e tutte le sue vicine di casa pranzano e cenano sempre insieme da quando è scoppiata la guerra. E insieme raccolgono e smistano cibo, scorte di vario genere per gli ospedali, materiale tattico per i militari.


 

Una di loro, Natalie (50 anni), ha il compagno in Italia. Eppure ha deciso di restare. Per suo figlio e per aiutare il suo paese. «Ho lavorato a Mosca, nel mondo dello spettacolo, per almeno 15 anni», dice commossa e arrabbiata al tempo stesso. «Ma ho smesso di parlare con tutti i miei amici e familiari russi, perché non mi credono. Ho mandato loro i video dei nostri edifici bombardati, ma continuano a dire che non sono stati loro, che la Russia è venuta a liberarci. Persino con mia zia ho chiuso i rapporti: non mi hai mai chiamato, né chiesto come sto. Mi crede solo mia cugina. Non li potrò mai perdonare, non metterò mai più piede in Russia».


 

«Eravamo come fratelli e sorelle, ma non basteranno 50 anni per dimenticare l’orrore e la paura che ci stanno facendo vivere».

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022

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