TOMMASO RODANO, INTERVISTA A MARCO REVELLI : “La peggiore delle ipocrisie è l’‘armiamoli a casa loro’” — IL FATTO QUOTIDIANO DEL 14 MARZO 2022 + MARCO REVELLI, IL MANIFESTO 13 MARZO 2022

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 14 MARZO 2022

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/14/marco-revelli-la-peggiore-delle-ipocrisie-e-larmiamoli-a-casa-loro/6524810/

 

L’INTERVISTA

 

Marco Revelli: “La peggiore delle ipocrisie è l’‘armiamoli a casa loro’”

SOCIOLOGO E STORICO – “Il crimine l’ha compiuto Putin, non c’è dubbio, c’è un aggressore e un aggredito. Né ho dubbi da che parte stare: con gli aggrediti e i deboli, contro gli aggressori e i forti. Ma il punto è come farlo”

DI TOMMASO RODANO 
14 MARZO 2022

Professor Revelli, ci avviciniamo al ventesimo giorno di guerra. Non cessano raid e bombe, è stato ucciso un giornalista americano e gli Stati Uniti minacciano di rispondere. Siamo in una spirale irreversibile?

Si può sempre fermare le spirali distruttive, anche se ogni giorno che passa diventa più difficile. La sensazione è disperante. Si è aperto un vaso di Pandora dal quale escono tutti i demoni del nostro tempo. Quando esplode l’incendio, corre come il fuoco in un prato secco. Per questo le guerre non bisognerebbe lasciarle scoppiare: è stato fatto davvero tutto il necessario? Il crimine l’ha compiuto Putin, non c’è dubbio, c’è un aggressore e un aggredito. Né ho dubbi da che parte stare: con gli aggrediti e i deboli, contro gli aggressori e i forti. Ma il punto è come farlo.

 

Lei ha scritto sul Manifesto che c’è un obbligo “morale, civile e politico di fare il possibile per evitare che la guerra si estenda e si incrudelisca”. Le chiedo, appunto: come?

 

Io ho le idee chiare su cosa non bisogna fare. Non sopporto l’appello “armiamoli a casa loro”, urlato da più parti con alto tasso di retorica. Capisco sia un modo per lenire il senso di colpa, ma aggiungere armi dove ce ne sono già troppe non serve né a ridurre le sofferenze della gente, né a limitare il livello e l’estensione del conflitto, piuttosto il contrario. Oggi (ieri, ndr) si registrano nuovi bombardamenti nell’estremo ovest dell’Ucraina, probabilmente con l’obiettivo di chiudere la via di afflusso delle armi. Cosa fare invece è più complesso.

 

Le sanzioni possono essere sufficienti?

 

Sono uno strumento delicato, che va utilizzato per punire il colpevole e non il suo popolo. Non sempre ottengono l’effetto sperato, perché i veri responsabili in genere non vengono raggiunti. A volte sono anzi un boomerang: rischiano di danneggiare in misura maggiore chi le applica.

 

Senza armi né sanzioni, quali strumenti restano?

 

Si deve decidere se aiutare il popolo ucraino a difendersi o se l’obiettivo è fare la guerra a Putin. Le due cose non coincidono, anzi: voler colpire Putin costi quel che costi rischia di rendere il conflitto persino più sanguinoso. Per me aiutare il popolo ucraino significa tentare di evitare che paghi un tributo ancora più grande e doloroso a questa guerra. Vuol dire, quindi, muoversi in una situazione complessa: favorire ogni tipo di negoziazione, costruire tavoli di pace, immaginare soluzioni che permettano a entrambi i contendenti di arrivare a un accordo. Praticare forme di razionalità e non suggestioni retoriche.

 

Crede che il sentimento nazionalista ucraino sia un artificio retorico?

 

No. Non si tratta di giudicare i comportamenti del popolo ucraino, che ha tutti i diritti di scegliere cosa fare, in una situazione così drammatica. Non mi permetterei mai di dire agli ucraini che in nome dell’onore devono combattere, come non direi mai che devono arrendersi. Non posso stabilire se un altro deve scegliere la patria o la morte. Siamo noi che dobbiamo misurare le parole.

 

C’è chi paragona la resistenza ucraina a quella partigiana.

 

Mio padre Nuto ha combattuto due guerre: quella fascista, negli stessi posti in cui si svolge il conflitto orrendo di oggi, sul Don e in Donbass. E poi quella partigiana. L’insegnamento fondamentale che ha tratto dalla sua esistenza è l’orrore della guerra, la sua bestialità.. Pure se la Resistenza è stato un momento catartico, poiché ha potuto combattere contro il nemico vero, i fascisti e i tedeschi, non me l’ha mai descritta come la “bella guerra”. Anche la guerra giusta ti porta dentro delle ombre e ti segna, ti lascia delle ferite: non ti restituisce innocente come prima. I paragoni tra l’Ucraina e i partigiani sono campati per aria: è un uso simbolico della storia, il contesto è totalmente diverso. La resistenza comportava sacrifici, ma non era un atto disperato.

 

La resistenza ucraina invece è un atto disperato?

Non sono un esperto militare, ma mi pare che le forze in campo siano molto sbilanciate.

 

Nei nostri media vede un’esaltazione della resistenza armata?

 

C’è un’esaltazione anche tra quelli che sulla Resistenza hanno sempre sputato sopra. Nei dibattiti televisivi ora si richiamano ai partigiani gli stessi che fino a ieri li consideravano solo i responsabili delle foibe. Non scherziamo.

 

 

 

IL MANIFESTO DEL 13 MARZO 2022

Il potere di contagio della guerra e la verità della memoria. Opinioni. Stiamo con gli aggrediti e i più deboli. Per ridurre le sofferenze dei civili e per la fine del conflitto. Mandare armi dove ce ne sono già troppe non serve né all’uno né all’altro scopo

 

Incisione, testa di Medusa. 1875Incisione, testa di Medusa. 1875

© Getty Images

 

 

 

Marco Revelli

EDIZIONE DEL13.03.2022

PUBBLICATO12.3.2022, 23:59

AGGIORNATO14.3.2022, 20:46

 

La guerra contiene in sé l’infinita potenza del negativo. Con un altrettanto infinito potere di contagio. Dovremmo saperlo, ma lo dimentichiamo sempre: non si limita a distruggere vite e mondi. Corrompe e contamina occupando le menti e le anime con la propria logica perversa. Ha le caratteristiche che Gustav Jung attribuiva all’archetipo germanico di Wotan – il Capo della caccia e l’Ospite Furioso che irrompe della casa dell’Io e lo stravolge -, definendo “questo fenomeno generale come Ergriffenheit, uno stato di rapimento o possessione”. Resisterle è difficile.

 

Forse solo chi l’ha conosciuta davvero, ne ha provato l’orrore “col corpo” – chi ha visto il volto di Medusa, direbbe Primo Levi -, riesce a sottrarsi fino in fondo alla cattura (a non lasciarsi “pietrificare dentro”). Probabilmente per questo, nel frastuono mediatico in cui siamo precipitati dal 24 di febbraio, con l’aggressione russa all’Ucraina, i pochi capaci di parlarne con un barlume di “coscienza di causa” sono quei militari (penso al generale Fabio Mini, ad esempio) che sono stati effettivamente in uno “scacchiere di guerra” a differenza di troppi professionisti dell’informazione o della politica.

 

Personalmente questa lezione l’ho dovuta imparare da mio padre Nuto, che l’essenza della guerra dovette “viverla” nel punto più terribile della ritirata di Russia, nel gennaio del ’43, nella piana di Nicolaevka, in quella che chiamerà la “notte dei pazzi”, quando – scriverà – “capì tutto”: la vergogna del fascismo, lo sfacelo dell’esercito, il tradimento del Re, la lontananza di una patria indifferente e corrotta, guidata dai retori dell’”armiamoci e partite”. Soprattutto l’orrore irredimibile della Guerra.

 

La verità indicibile che gli avevano rivelato i suoi alpini, montanari costretti a diventare soldati, e cioè che in guerra, in ogni guerra, è sempre la povera gente a pagare il prezzo più caro. Sono loro, e non quelli che le guerre le decidono e le comandano (o magari anche solo le commentano), a subirne sofferenze e conseguenze.

 

Scrivo questo perché quella memoria famigliare sepolta nella mia infanzia col suo carico di tragedia mai veramente superata, mi è ritornata fuori d’improvviso all’esplodere di questa nuova guerra, combattuta negli stessi luoghi di quella di allora, con gli stessi nomi che ritornano. Un’emozione nuova su un materiale emotivo vecchio, una lacerazione in più rispetto a quelle che la cronaca quotidiana infligge a tutti oggi. E mi chiedo come far tesoro della lezione di allora per affrontare i dilemmi di oggi. Come tentare quantomeno di evitare che gli errori e le sofferenze di allora si sommino con (gli stessi?) errori e sicuramente le stesse sofferenze di oggi.

 

Credo che il primo pensiero, per chi intenda resistere alla possessione di Wotan, sia l’obbligo morale, civile e politico di fare il possibile (e anche l’impossibile) per impedire che la guerra scoppi (e su questo interroghiamoci se davvero Europa e Occidente sono innocenti). Ma soprattutto, e a maggior ragione, una volta sciaguratamente scoppiata, per impedire che si estenda e incrudelisca.

 

Non si tratta qui di decidere “da che parte stare” tra aggrediti e aggressori, tra più deboli e più forti: si sta con gli aggrediti e i più deboli, con buona pace dei manifestanti fiorentini che denunciano il pacifismo “equidistante”. Ma di scegliere, consapevolmente, “come stare”. Con quali forme e quali mezzi, al fine di ridurre al minimo le sofferenze della popolazione e di avvicinare il più possibile la conclusione del conflitto. Mandare armi là dove ce ne sono già troppe (e ne vediamo purtroppo i tragici effetti) non serve né all’uno né all’altro scopo.

 

Significa gettare benzina su un fuoco che occorrerebbe invece spegnere prima possibile; alzare un livello di scontro che ci si dovrebbe sforzare di abbassare. Rischiare di allargare i confini di un conflitto che si dovrebbe invece limitare, finendo per coinvolgervi gli stessi che dovrebbero svolgere il ruolo di mediatori. Confondere un’onorevole mediazione con la “perdita dell’onore” è pessima retorica, foriera di rovine.

 

Ha ragione Donatella Di Cesare quando ci invita a scegliere se vogliamo “aiutare il popolo ucraino aggredito” o “fare la guerra a Putin”, perché le due cose sono in contraddizione. La seconda opzione (combattere contro un nemico usando, peraltro, i corpi degli altri) significa, come è stato ferocemente detto “rendere lo scontro sempre più sanguinoso” fino al rischio estremo. La prima implicherebbe compiere ogni possibile sforzo per favorire un negoziato accettabile per entrambe le parti in una prospettiva di pace onorevole. Personalmente non ho dubbi.

 

Infine un’ultima implorazione: per favore non si usi il paragone con i “partigiani” per sostenere la linea dell’”armiamoli a casa loro”, fuori luogo e fuori contesto come ha ben messo in chiaro Alessandro Portelli su queste pagine, utile solo a sopire i sensi di colpa per la propria passata e presente impotenza.

Allora, purtroppo, la guerra mondiale era da tempo scoppiata, la lotta partigiana appariva una scelta difficile ma non disperata, e soprattutto il grosso degli armamenti proveniva dallo scioglimento del regio esercito o veniva conquistato con colpi di mano. L’uso propagandistico della storia, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e sull’eticizzazione simbolica di fatti tra loro diversi ricondotti a un unico, semplificato, effetto emotivo, non ci aiuta certo a resistere alla vertigine dalla guerra. Anzi.

 

 

 

 

https://ilmanifesto.it/il-potere-di-contagio-della-guerra-e-la-verita-della-memoria/

 

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1 risposta a TOMMASO RODANO, INTERVISTA A MARCO REVELLI : “La peggiore delle ipocrisie è l’‘armiamoli a casa loro’” — IL FATTO QUOTIDIANO DEL 14 MARZO 2022 + MARCO REVELLI, IL MANIFESTO 13 MARZO 2022

  1. ueue scrive:

    Finora è la cosa migliore che ho sentito sulla guerra, su questa guerra a cui attribuiamo significati diversi da quelli che ha e quindi sbagliando anche le reazioni.

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