LUCA GERONICO, AVVENIRE.IT-14 MARZO 2021 -10 anni di conflitto in Siria.  Una generazione ormai perduta dentro la guerra +++ LORENZO TROMBETTA, Verso altri dieci anni di guerra in Siria- LIMES ONLINE — 15 MARZO 2021 

 

 

Carta di Laura Canali - 2020

LIMES ONLINE, CARTA DI LAURA CANALI 2020

 

 

 

AVVENIRE.IT– 14 MARZO 2021 –

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/una-generazione-ormai-perduta-dentro-la-guerra

 

10 anni di conflitto in Siria. 

Una generazione ormai perduta dentro la guerra

Luca Geronico

Che fine hanno fatto i tanti Omran fotografati sulle ambulanze, tra le macerie, nelle pozzanghere? E le madri in lacrime che lasciano Aleppo? Sono anche queste le vittime non conteggiate

 

 

Una generazione ormai perduta dentro la guerra

 

 

 

 

 

Padri - Due uomini, in una pausa di uno dei quotidiani bombardamenti, portano in salvo i bimbi neonati nel quartiere di Salihin nella periferia settentrionale di Aleppo: l’assedio alla città è divenuto simbolo della guerra in Siria - Ansa

 

 

 

 

 

Madre e figlio lasciano la loro casa a Raqqa nel 2017 - Ansa

 

 

 

 

 

Paura - Omran aveva 5 anni il 17 agosto 2016 quando fu ritratto su una ambulanza - Ansa

 

Omran Daqneesh

 

 

 

 

 

 

Protezione - L’arrivo nella zona controllata dai soldati curdi, 2019 - Ansa

 

 

 

 

 

 

 

 

Choc - Bimba impaurita in un centro medico nel Ghouta, 2018 alle porte di Damasco - Ansa

 

 

 

 

 

 

Padri – Due uomini, in una pausa di uno dei quotidiani bombardamenti, portano in salvo i bimbi neonati nel quartiere di Salihin nella periferia settentrionale di Aleppo: l’assedio alla città è divenuto simbolo della guerra in Siria – Ansa

 

Omran Daqneesh oggi dovrebbe avere dieci anni, o poco più. Nessuno sa più, esattamente, dove sia finito il piccolo di 5 anni che il 17 agosto 2016 venne immortalato da uno scatto su una ambulanza ad Aleppo, lo sguardo vitreo, immobile, incapace di spendere altre lacrime dopo aver visto, sotto il boato di una bomba, morire la sua famiglia. Pochi, 5 anni dopo l’assedio di Aleppo, ricordano chi abbia compiuti il raid aereo, e chi sia stato colpito sotto le bombe. Poco importa. Lo sguardo innocente, e paralizzato dal terrore di Omran non domanda questo.

Nemmeno le lacrime e la rabbia di quei padri in corsa fra le macerie di Aleppo, come della Gouta e di Idlib, come sull’altro fronte – a Damasco e a Latakia – non ci domandano questo. Come le lacrime di madri che, abbandonando Aleppo, Damasco o Latakia o Homs, in questi dieci anni si sono trovate a concepire in grembo, a generare per il loro popolo, il dolore inesprimibile e lacerante della nostalgia. Omran e i suoi fratelli, Omran e le sue sorelle, Omran e i suoi padri, Omran e le sue madri – prima ancora di una verità su questo conflitto, prima ancora di una soluzione politica a questa carneficina consumata nel silenzio, allo scempio dei diritti umani nei campi profughi, nelle vendette delle milizie, nelle carceri del regime, negli assedi medievali con la popolazione taglieggiata da mafiosi signori della guerra capaci di chiedere e aprire a comando acquedotti e check point – Omran e i suoi fratelli ci chiedono di avere il coraggio di incrociare il loro sguardo.

È il dolore di una, forse ormai due generazioni, che si sono perdute, come inghiottite nella “foiba granda” di questa guerra civile siriana. Un dolore che reclama di essere ascoltato, di avere almeno la giustizia della memoria. Un dolore innocente che – al di là e al di sopra di ogni convinzione politica o religiosa di chi lo ascolta – chiede di essere curato come una ferita profonda dell’umanità. Nessuno sa se Omran ha ritrovato luce in quello sguardo, e se un sorriso possa celare il dolore di quella notte di bombe e sangue sulla sua vita, sulla sua generazione, sulla Siria. Ed è questo non sapere che inchioda la comunità internazionale e la Chiesa della Fratelli tutti, alle sue responsabilità.

E troppo poco sperare che in un campo profughi sia giunto un pacco alimentare, o in un prefabbricato qualcuno insegni a leggere e scrivere a Omran e ai suoi fratelli. È troppo poco dover sperare che qualcuno, la sera, si prenda cura di questi figli della guerra con un piatto di minestra calda in un Paese dove la disoccupazione è al 40%, una medicina è un lusso, una laurea carta straccia. Omran e i suoi fratelli, dopo 10 anni di guerra civile, ci chiedono un futuro possibile.

 

 

 

LIMES ONLINE — 15 MARZO 2021 

https://www.limesonline.com/siria-dieci-anni-violenze-idlib-damasco-aleppo-iran-turchia-russia-israele-usa-assad/122721?prv=true

 

 

Verso altri dieci anni di guerra in Siria

Carta di Laura Canali - 2020

Carta di Laura Canali – 2020

 

 15/03/2021

Le condizioni che hanno determinato lo scoppio delle violenze nel 2011 sono destinate a ripresentarsi entro il 2031. Assad o (clienti delle) potenze straniere: malgrado la propaganda, non esiste oggi un buon governo nelle Sirie.

 

 

di Lorenzo Trombetta

SIRIA, PRIMAVERA ARABABASHAR AL-ASAD

 

 

Dieci anni dopo lo scoppio delle violenze armate in Siria, rimangono in forma più acuita e radicata i fattori della guerra. Con questo presupposto si addensa all’orizzonte la concreta possibilità di un’altra più devastante ondata di violenza su larga scala attorno al 2031. Non solo nel paese ancora oggi al centro del conflitto.

Tra dieci anni infatti si verificherà in tutto il Medio Oriente e nel Mediterraneo sudorientale un altro boom demografico, simile a – ma numericamente meno significativo di – quello del 2010.

 

L’esplosione demografica non è stato però l’unico ingrediente per lo scoppio della guerra in Siria, alimentata da una miriade di cause politiche, sociali ed economiche sedimentatesi nel lungo periodo. Nel corso dell’ultimo decennio non solo si sono aggravate all’ombra della violenza, dell’impoverimento e della polarizzazione identitaria, ma non sono state nemmeno contenute e mitigate dalle entità statuali nazionali e sovranazionali.

 

Le generazioni di giovani e meno giovani che attorno al 2030 chiederanno con rabbia diritti e spazi non saranno le stesse cresciute negli anni Novanta del secolo scorso e nei primi anni di questo secolo. Saranno i figli della guerra, dell’esclusione, dell’abbandono, della povertà estrema e della fuga per mare. Saranno persone che non avranno conosciuto i banchi di scuola, cresciute in un contesto di odio nei confronti dei loro carnefici e ostilità aperta nei confronti dell’Altro, chiunque esso sia. Questi caratteri si potevano riscontrare anche prima del 2011, in Siria e in tutta la regione, anche se in forma meno marcata. La Siria attualmente appare diversa da quello del marzo del 2011. Con uno sguardo più attento si riconoscono invece una serie di elementi di continuità, sia pure in un quadro di incessante trasformazione.

 

Partiamo dal livello regionale. Russia, Iran e Turchia non hanno soltanto mantenuto una loro vicinanza al contesto siriano ma sono penetrati in maniera più organica e radicata in territori ricchi di risorse e strategicamente rilevanti. Mosca, Teheran e Ankara controllano, con gradi di influenza diversa, i centri del potere politico, economico e culturale attualmente presenti in Siria.

 

Il plurale è d’obbligo: “i centri” del potere e non “il centro”. Perché Damasco non è più l’unico luogo dove si formalizzano le decisioni. La città, con le sue istituzioni che al vertice fanno capo al presidente Bashar al-Asad, rimane la capitale della Repubblica Araba di Siria, paese membro dell’Onu e governo formalmente riconosciuto dal diritto internazionale.

La regione semi-autonoma nord-orientale dominata dalle forze curdo-siriane ha un suo centro per molti aspetti ormai autonomo da Damasco: la capitale amministrativa di Qamishli, contraltare alla vicina Hasake, capoluogo dell’omonimo governatorato della Siria pre-2011. Qamishli decide non solo in virtù di una visione curdo-siriana ma anche delle volontà dei quadri – non siriani e non arabofoni – del Pkk curdo, provenienti dai monti Qandil tra Turchia e nord-Iraq.

 

I distretti del nord e del nord-ovest dominati dalla Turchia e dalle forze cooptate da Ankara rispondono invece a un centro del potere rappresentato da diversi governatori turchi presenti fisicamente in Turchia, che a loro volta rispondono alla capitale della Repubblica di Turchia: Ankara. Si tratta del governatore di Gaziantep per l’area a nord di Aleppo (in maniera ridotta alle autorità di Kilis); del governatore di Hatay per Idlib; del governatore di Sanliurfa (Urfa) per l’area a nord di Raqqa.

 

Questa multipolarità è una novità importante, ma il rapporto tra centro e periferia rimane dominato, in continuità con il passato recente e remoto, da un sistema clientelare che esalta il ruolo dei mediatori locali: anello cruciale tra il potere centrale – quale che esso sia, siriano o straniero o ibrido – e gli abitanti dei vari territori.

 

 

Carta di Laura Canali - 2020
Carta di Laura Canali – 2020

 

Il tradizionale rapporto di clientela è ben noto alle potenze straniere da decenni presenti direttamente e indirettamente in Siria.

La Russia, per esempio, che vanta una relazione decennale con gli Asad, non interagisce soltanto con e tramite i vertici del potere a Damasco. Sul territorio – da Qamishli ad Aleppo, da Raqqa a Tartus, passando per Latakia, Hama, Damasco e Suwayda – ha una serie di interlocutori locali con cui negozia direttamente, aggirando i passaggi formali del potere centrale, su questioni non solo militari ma anche religiose, culturali e relative alla fornitura di servizi.

 

L’Iran, alleato strategico di Damasco sin dal 1980, ha un canale istituzionale aperto con il regime ma ne ha altri con entità locali formali e informali, per motivi legati agli aspetti religiosi, culturali, militari e di sicurezza. Dalla bassa valle dell’Eufrate vicino al confine con l’Iraq fino a Idlib e ad Aleppo, passando per Damasco e la Siria centrale.

La Turchia storicamente punta ad avere influenza su tutto il nord della Siria; è riuscita negli ultimi anni a coronare il sogno di sottomettere commercialmente e culturalmente il nord-ovest e buona parte del nord alla sua egemonia: da Idlib a Tall Abyad passando per Afrin, Azaz, Bab, Jarablos, Manbij e Ra’s al-Ayn.

Tra chi per il momento ha abbandonato la Siria ci sono l’Arabia Saudita e il Qatar, fino al 2011 potenze finanziarie rilevanti nel contesto della bolla della crescita degli investimenti edilizi e nel turismo. Il Kuwait ha mantenuto una sua presenza dietro le quinte, non tanto con le sue istituzioni ma con imprenditori con ottime entrature nelle dinamiche locali.

 

Gli Emirati Arabi Uniti, gli stessi che ormai vanno a braccetto sotto il sole con Israele, da più di un anno hanno riallacciato cordiali rapporti con Damasco e nei giorni scorsi – durante la visita ad Abu Dhabi del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – hanno sostenuto esplicitamente la fine dell’isolamento di Asad da parte della comunità occidentale.

 

Non la pensano così gli Stati Uniti, che per la prima volta in questi anni hanno stabilito una presenza militare diretta in Siria. Un elemento di rottura rispetto al passato, pieno di ripercussioni strategiche rilevanti per l’Iraq e per il Golfo. Washington non intende abbandonare la regione, tantomeno quando l’Iran e la Russia si sono rafforzate proprio grazie al conflitto siriano.

Anche Israele ha guadagnato terreno. Sebbene non intenda espandere la propria influenza diretta a nord-est delle contese Alture del Golan, negli ultimi anni i servizi di sicurezza israeliani hanno allacciato rapporti con una serie di attori militari e politici locali sul lato siriano dell’altopiano che separa la pianura di Damasco dal lago di Tiberiade.

In questo territorio di contatto, l’Iran continua a mantenere una presenza rilevante, sebbene camuffata da divise siriane. Ma in questi anni Israele ha dimostrato di aver esteso la sua capacità di penetrazione e di negoziazione nell’area di Qunaytra e della valle del fiume Yarmuk.

 

Ciascun centro del potere locale si relaziona con le comunità tramite degli intermediari. Si tratta di vecchie e nuove elite: attori istituzionali, leader religiosi, imprenditori, ma anche signori della guerra, contrabbandieri, esponenti del partito Baath nelle aree governative o funzionari del Pkk nel nord-est oppure rappresentanti dell’intelligence turca nel nord-ovest. Ci sono personaggi che rientrano in più di una di queste categorie. La loro appartenenza ideologica può essere coerente col passato oppure non avere alcuna rilevanza nella loro capacità di essere attori-cardine tra centro e periferia.

 

Nonostante la propaganda dilagante, non esiste un buon governo nella Siria di oggi. Non soltanto a causa della crisi economica e finanziaria, che colpisce duramente dall’anno scorso milioni di siriani di tutti i territori e di tutte le appartenenze. Tutti gli attori dominanti, siano essi le elite locali e centrali e i loro rispettivi sostenitori stranieri, esercitano il potere in maniera autoritaria.

 

Con gradi diversi – certamente – nessuna entità istituzionale in Siria ha abbandonato i tradizionali sistemi di controllo e repressione della società. Né poteva essere altrimenti dopo decenni di autoritarismo e di conflitto armato. Le violazioni umanitarie continuano in maniera più o meno sistematica. Il Baath nelle aree governative continua a essere uno dei migliori strumento di controllo e repressione per il regime; la sua capillarità ed efficacia fa invidia al sistema di controllo e repressione messo in atto dalla Turchia, dalla Russia, dall’Iran, dai vertici del Pkk curdo non siriano.

 

Nessuno degli attori regionali e siriani esercita la sua egemonia in un’ottica di sviluppo. Neanche in questo caso potrebbe essere altrimenti, viste le premesse che stanno alla base del loro coinvolgimento in Siria. Si predilige rafforzare un meccanismo di economia di rendita misurata nel breve e medio termine. Le attività produttive sono sempre più trascurate, mentre si intensifica lo sfruttamento delle risorse del territorio.

 

Questo ha un effetto devastante nella tenuta dell’ecosistema naturale e umano. Si incoraggia di fatto l’abbandono dei terreni agricoli, un processo già avviato dalla fine degli anni Novanta e nei primi anni Duemila ma che adesso ha raggiunto proporzioni senza precedenti nella storia contemporanea della Siria e di una regione la cui economia è tradizionalmente basata sull’agricoltura. Il ritorno alla terra è ostacolato dalle politiche di altri speculatori, sostenuti dal sistema clientelare tra elite e potere centrale, per cui nel breve e medio termine chi ha perso l’accesso alle risorse del territorio ne rimarrà escluso. Le masse di diseredati senza terra e di sfollati hanno in questi anni affollato i cerchi più periferici di città fortemente danneggiate dal conflitto o rese sature dall’afflusso massiccio di profughi.

 

La città, come accade da millenni, rimane l’elemento chiave del governo locale. Ma il contesto urbano è attraversato da tensioni e conflitti accesi. L’espansione edilizia non regolata non è accompagnata dalla costruzione di un tappeto di infrastrutture di base necessarie a includere i nuovi arrivati. I poteri centrali non investono nello sviluppo urbano sostenibile, lasciando spazio agli speculatori. Questo ingigantisce la presenza di persone impoverite e senza diritti presenti in favelas sempre più distanti fisicamente dal centro cittadino e ostacolate dall’ormai cronica assenza di servizi e infrastrutture di collegamenti. I disastri ambientali sono destinati ad aumentare; i loro effetti saranno di volta in volta più devastanti in un territorio violentato dalla guerra, abbandonato e lasciato alla mercé della logica del profitto immediato.

 

I poteri centrali e i loro clienti locali continueranno a usare il pugno duro per reprimere ogni periodica forma di contestazione, più o meno violenta e articolata. L’unica forma di negoziazione finora espressa dagli attori dominanti in Siria è quella militare e della sicurezza. Nessun attore esprime, nemmeno lontanamente, una visione genuinamente inclusiva.

 

Nel 2031, milioni di giovani in Siria e in tutta la regione torneranno a farsi sentire in maniera più decisa del 2011. Ma avranno solo il coltello fra i denti.

 

 

Carta di Laura Canali - 2013

Carta di Laura Canali – 2013

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