PAOLO BORGNA, Il caso. Cpr, il diritto della vergogna — AVVENIRE DEL 3 FEBBRAIO 2021 + Maria Concetta Trigali, I laboratori della segregazione — MICROMEGA, 23 OTTOBRE 2020

 

 

 

Avvenire

 

 

mercoledì 3 febbraio 2021

 

https://www.avvenire.it/agora/pagine/cpr-il-diritto-della-vergogna?utm_medium=Social&utm_source=Twitter#Echobox=1612363596

 

 

 

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Maurizio Veglio

La malapena- Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri

Prefazione di Emma Bonino

Edizioni SEB27- Laissez-passer – 63

Pagine: 104

Anno: 2020- Prezzo: €15,00

 

 

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MAURIZIO VEGLIO è avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione, socio Asgi e lecturer presso l’International University College di Torino. Dal 2011 collabora con la Human Rights and Migration Law Clinic (Hrmlc), con la quale ha supervisionato la ricerca Betwixt and Between: Turin’s Cie, l’istituzione della Refugee Law Clinic e l’avviamento dell’Osservatorio sulla giurisprudenza dei giudici di pace in materia di immigrazione (Lexilium). Oltre all’attività di formazione e ricerca, è autore di numerose pubblicazioni tra cui il volume Lo straniero e il giudice civile (Utet, 2014) e il saggio Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo (“Diritto, Immigrazione e Cittadinanza” 2/2017). Ha curato il volume L’attualità del male. La Libia dei Lager è verità processuale, pubblicato in questa stessa collana nel 2018.

 

dal link dell’editore::

https://www.seb27.it/content/la-malapena

 

 

 

 

 

 

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Il caso. Cpr, il diritto della vergogna

Paolo Borgna 

Un volume di Maurizio Veglio documenta le condizioni di vita disumane e gli abusi che gonfiano la fame di violenza verso gli altri e verso se stessi

Un’immagine del Centro di permanenza temporanea di Torino

Un’immagine del Centro di permanenza temporanea di Torino – Fotogramma

 

C’è un modo ‘illuministico’ per affrontare il tema delle espulsioni degli stranieri presenti irregolarmente in Italia. Un approccio che si snoda attraverso alcuni passaggi logici inoppugnabili. Eccoli. Uno Stato democratico non può rinunciare ad avere contezza di chi vive sul suo territorio e dunque a stabilire i presupposti e le procedure per entrarvi e soggiornarvi. Se uno straniero vi dimora irregolarmente e, ancorché invitato, non si allontana, lo Stato dovrà occuparsi del suo allontanamento. Ma il ‘rimpatrio’ di uno straniero irregolare va preparato: se di lui non si conoscono l’identità anagrafica e la provenienza nazionale, lo Stato deve in primo luogo accertare in quale Paese inviare il cittadino straniero. Quindi, bisogna verificarne in primo luogo la nazionalità (con la collaborazione dei consolati) e poi organizzare il viaggio. Tutte queste cose richiedono un certo periodo di tempo, nel corso del quale la persona da espellere deve essere “trattenuta”. A questo servono i Centri per il rimpatrio (Cpr, un tempo Cie).

 

 

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Non si tratta di “detenzione”, perché lo straniero irregolare deve essere espulso anche se non ha commesso reati. È un mero “trattenimento amministrativo”. Provocato, a ben vedere, dallo straniero stesso: perché è lui a non aver fornito alla polizia i propri documenti di identità. È questo il ragionamento che, a partire dal 1998, fu alla base della regola introdotta dalla Legge Turco Napolitano, che per prima istituì i Cie, prevedendo però un periodo di trattenimento massimo di 30 giorni (da allora gradualmente ampliato sino a 18 mesi e ora stabilito in 6 mesi). E, comunque, è quanto ci è imposto dalle direttive europee (in particolare, la 115 del 2008) che impegnano gli Stati membri all’effettivo rimpatrio degli stranieri irregolari. Tutto molto razionale e corretto. Sennonché, c’è poi la realtà. E ci sono libri come quello di Maurizio Veglio, La malapena (Edizioni SEB 27, pagine 104, euro 15,00) che ci ricordano quante volte, nel corso della Storia, ignominiose ingiustizie sono state commesse applicando leggi ispirate a principi condivisibili. Perché la realtà è più complessa della logica ‘illuministica’.

 

 

 

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Ci sono i Cpr ideali, scritti sulla carta (dove tutto funziona bene). E poi ci sono i Cpr reali: luoghi in cui, come scrive Emma Bonino nella prefazione, lo Stato di diritto è un pallido ricordo. Amiamo sempre citare Voltaire: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». Ma qui le condizioni di vita e quelle igieniche fanno rimpiangere il carcere. L’implacabile memento che Maurizio Veglio ci mette sotto gli occhi fa male. Il “trattenimento” in gabbie che ricordano terribilmente quelle di uno zoo. Il contatto con gli operatori che, di regola, è possibile solo attraverso le piccole fessure delle grate. La possibilità di camminare soltanto nel cortile della propria area di assegnazione. La totale forzata inattività dei “trattenuti”, perché nei Centri mancano quelle strutture (biblioteche, laboratori, palestre) di cui dispongono le carceri. La presenza, mediamente, di sette persone in “moduli” di 50 metri quadrati in cui i gabinetti non sono separati dalla zona dei letti, con privazione totale della minima riservatezza. L’assenza di interruttori della luce, che può essere accesa o spenta solo centralmente dal personale. L’assenza di tavoli su cui mangiare. Il luridume. L’estenuante percorso burocratico anche della più banale richiesta legata alla vita quotidiana. La riduzione dei servizi e del personale, come inevitabile conseguenza del meccanismo dello schema ministeriale di capitolato d’appalto (del novembre 2018).

Il risultato è un imbarbarimento della vita quotidiana che dai “trattenuti” si riverbera sul personale: le forze dell’ordine che sorvegliano; gli operatori e mediatori, contrattualizzati mese per mese dall’ente gestore tramite agenzie; gli operatori legali e il personale sociosanitario. In un sistema in cui tutti sono vittime e l’odio e la diffidenza si diffonde persino tra i “trattenuti”. Gonfiando una “fame di violenza” verso gli altri e se stessi. Molto più che in carcere gli atti di autolesionismo nel Cpr sono quotidiani: labbra cucite; ingestioni di pile; tentativi di impiccagione, abuso di psicofarmaci, ustioni; e poi, tagli, tagli, tagli su ogni parte del corpo.Tagliarsi come disperato tentativo di farsi ascoltare. E ancora, la violenza sulle cose: i servizi resi inagibili, l’incendio dei materassi e delle suppellettili. Dare fuoco. Le fiamme: come umiliazione della prigione che ti umilia; come rivendicazione del diritto ad un trattamento più umano; come simbolo di scontro verso lo Stato; come grido selvaggio di guerra di chi cerca libertà.

 

 

 

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Un grido sterile: destinato inevitabilmente a peggiorare le condizioni di vita nel Centro. Ma che dice molto sulla disperazione che lo alimenta. Un sistema che produce quest’odio denuncia, da solo, il proprio fallimento. Il fatto che in circa la metà dei casi, dopo sei mesi di “trattenimento”, lo straniero venga liberato perché non si è riusciti a organizzarne l’espulsione («Il rimpatrio è un risultato occasionale»), rende ancor più drammatico questo fallimento.Il “trattenimento amministrativo” sarà servito soltanto a distillare odio sociale. Maurizio Veglio ottiene un sicuro risultato: spiegare che quel che stiamo facendo è completamente sbagliato. Le domande su quel che dovremmo fare rimangono aperte. Un esempio fra tutti. Il trattenimento nei Cpr di stranieri provenienti da uno Stato verso cui con certezza non potranno essere rimpatriati (perché quel Paese è teatro di guerra civile o perché lì il trattenuto rischia seriamente la vita).

Poiché i Cpr sono luoghi destinati a preparare il rimpatrio, la permanenza in un Centro di persone che non potranno essere espulse è, ictu oculi, un arbitrio. La frase sfuggita a mezza bocca da un ispettore con riferimento a un cittadino afgano («Intanto lo teniamo dentro tre mesi», termine massimo di trattenimento all’epoca) dà la misura di quanto queste scelte non siano sviste ma decisioni consapevoli. Ma una persona non espellibile (perché a rischio di persecuzioni o torture nel Paese di origine) può essere altamente pericolosa, pur non avendo commesso reati in Italia ma perché, ad esempio, è contigua ad ambienti terroristici.

 

 

 

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Ed allora: che fare? Certo, si potrà applicare «un’appropriata misura di sicurezza, diversa dall’espulsione », come dice la Cassazione. Ma sappiamo che, in concreto, la soluzione non è così semplice. Nulla è semplice, in materia di immigrazione. C’è bisogno di molta intelligenza. Per ridisegnare tutto. C’è bisogno di un impegno comune, che cessi di usare l’immigrazione come terreno di propaganda per conquistare consenso. C’è bisogno, come scrive Emma Bonino, di un tempo in cui «le politiche migratorie divengano patrimonio dell’Europa e non appannaggio di 27 staterelli ognuno con i propri egoismi e le proprie convenienze».

 

 

I laboratori della segregazione

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Dopo la verità processuale sulla Libia dei lager, l’ultimo lavoro di Maurizio Veglio si intitola “La Malapena” ed è un atto di accusa, che racconta di migliaia di uomini e donne, migranti e richiedenti asilo che, pur in assenza di reato, restano imbrigliati nelle maglie di un sistema che li priva della libertà e dei diritti. Un ritratto crudo dei centri di permanenza per i rimpatri, a partire dal Brunelleschi di Torino, definiti “laboratori della chimica della segregazione”.

di Maria Concetta Tringali

http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-laboratori-della-segregazione/

 

 

 

La Malapena arriva in libreria a settembre, con un sottotitolo che non vuole lasciare spazio a fraintendimenti: “Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri”. Va ad arricchire la collana Laissez-passer della casa editrice torinese Edizioni SEB 27

La prefazione è di Emma Bonino e il volume è scritto da Maurizio Veglio, avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. Arriva a due anni di distanza da L’attualità del male, raccolta curata dallo stesso Veglio che lì interviene con il saggio In principio era il corpo.

Di quel volume MicroMega aveva scritto delle moltissime polemiche anche politiche che aveva sollevato per il solo fatto di avere scostato il velo su verità processuali che restano tuttora maldigerite da certa parte di questo Paese. Quella che l’autore, anche docente presso l’International University College, ci propone in questo 2020 è una fotografia forse anche peggiore della precedente.

I temi della Libia sono i temi delle migrazioni, sempre attuali, in maniera drammatica. È solo di qualche giorno fa la notizia dell’arresto di al-Bija. Si tratta di Abdul Rahman Milad, notissimo trafficante di esseri umani, ricevuto in Italia nella primavera del 2017 come “membro della delegazione libica”, su invito dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione. Un criminale accolto fin dentro il cuore delle nostre istituzioni repubblicane.

Veglio, che ci ha abituati a uno sguardo oltre l’orizzonte sulle questioni della Libia, di quel vergognoso invito aveva dato ampiamente conto. Il maggior pregio di La Malapena è dunque la continuità. L’autore riprende in fondo il filo di un discorso mai abbandonato del tutto. E sposta il timone, ci riporta in Italia. Ci mette in condizione di guardare insieme a lui, ma questa volta l’orrore lo vediamo dal di dentro.

Siamo nelle aule dove si decide la vita delle migliaia di migranti, in qualche modo sopravvissuti al mare. Presto arriviamo fin dentro le celle, per scoprire che è carcere durissimo, per non condannati, quello che vediamo. La quarta di copertina è inequivocabile: “La detenzione amministrativa dello straniero nei centri per il rimpatrio (Cpt, Cie, Cpr) è un rito di segregazione, un atto di apartheid che avalla la mortificazione della dignità umana. Mentre sperimentano il fallimento del proprio progetto migratorio, i reclusi subiscono il potere statale nella sua forma più invasiva e feroce. Qui deflagra una violenza a grappolo: contro il diritto, che autorizza giudici non professionisti a convalidare la detenzione di persone che non hanno commesso alcun reato; contro i corpi, esposti alla tentazione dell’autolesionismo; e contro i luoghi stessi, bersaglio della rabbia dei segregati e di un continuo maquillage giuridico e materiale. E poi c’è il paradosso dell’inefficienza: nonostante l’enorme impiego di denaro, appena il 50% delle persone trattenute viene rimpatriato”.

Il nostro – è vero – non è più, da pochissimo tempo, il paese dei decreti sicurezza. All’inizio del mese di ottobre il governo ha varato uno schema di decreto che da qualche giorno, con la firma del Presidente Mattarella, ha mutato almeno in parte lo scenario normativo. Si tratta del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130. La decisione è quanto mai politica, tanto da essere intervenuta solo all’indomani delle elezioni regionali. Rubricato come “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”, il provvedimento pare mettere da parte – pur senza arrivare ad abrogarli del tutto – i decreti voluti da Salvini e dai suoi sodali. E lo fa eliminando il divieto di transito per le navi nelle operazioni di soccorso e vietando espulsione e respingimento in presenza non più del solo rischio di tortura ma tutte le volte in cui lo straniero corra il pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. Laddove si tema una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante, da oggi è dunque previsto il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale.

La Malapena è insomma un lavoro di denuncia, una denuncia forte e chiara, senza infingimenti: “Esistono punizioni così ingiuste e sproporzionate da rovesciare la colpa che pretendono di emendare. Da spostarla sulla testa dei correttori chiamati infine a giustificare il tormento inflitto. E più questo si protrae, più il motivo della punizione sbiadisce fino a evaporare”. E dei centri di permanenza per i rimpatri, di cui Veglio è un conoscitore esperto, ci dice lapidario che quello è “un mondo che abbina ferocia alla casualità”.

Cita il Rapporto sulle visite nei Centri di identificazione ed espulsione e negli hotspot in Italia redatto dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti. L’approfondimento e l’attendibilità delle fonti sono tratto distintivo. Difficile scorgere una seppur minima forma di rispetto per la dignità umana, là dove uomini e donne vengono ammassati come bestie. Moduli abitativi stipati. In sette vivono, mangiano e dormono nello spazio di 50 metri quadri, costretti a usare gabinetti aperti alla vista di chiunque. Dove non esiste più intimità, non resta che un’umanità piegata e piagata. Ciò che si definisce il regime imposto ai detenuti, è roba da fare vergogna, li costringe alla luce o al buio centralizzati, li isola dal mondo esterno, proibendo l’uso delle fotocamere e spesso degli stessi cellulari, il trattamento non prevede nemmeno il diritto di consumare i pasti seduti a un tavolo. Ma prima della detenzione dovrebbe esserci il processo. Si tratta in realtà di un procedimento amministrativo. Ed è qui forse che lo Stato tocca il suo punto più basso, Veglio ce lo ricorda con un’amarezza che traspare da ogni riga: “Oggi quasi più nessuno obietta all’idea della privazione della libertà personale in assenza di un reato, autentica bestialità giuridica di fine millennio”.

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1 risposta a PAOLO BORGNA, Il caso. Cpr, il diritto della vergogna — AVVENIRE DEL 3 FEBBRAIO 2021 + Maria Concetta Trigali, I laboratori della segregazione — MICROMEGA, 23 OTTOBRE 2020

  1. Donatella scrive:

    Forse, nel Giorno della memoria, bisognerebbe parlare anche degli orrori attuali, che si svolgono sotto i nostri occhi.

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