EZIO MAURO ::: Governo :: Crisi di governo: il fantasma dell’Opera. La figura del prossimo premier ingombra la scena dall’inizio alla fine del negoziato sul nuovo esecutivo, contiene la soluzione o la pietra d’inciampo decisiva –REPUBBLICA DEL 01 FEBBRAIO 2021 

 

 

REPUBBLICA DEL 01 FEBBRAIO 2021 

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Editoriale

Governo :: Crisi di governo: il fantasma dell’Opera

01 FEBBRAIO 2021

La figura del prossimo premier ingombra la scena dall’inizio alla fine del negoziato sul nuovo esecutivo, contiene la soluzione o la pietra d’inciampo decisiva

DI EZIO MAURO

Dunque la crisi si muove, perché alla fine un governo bisognerà pure averlo, magari anche soltanto per portare il Paese alle elezioni. Ma si muove su un piano inclinato, dove tutto può ancora scivolare all’improvviso scombinando i calcoli strategici e le astuzie tattiche che stanno imprigionando da settimane la vera agenda dei problemi di cui i cittadini hanno ben chiare le priorità: salute, lavoro, economia, ripresa, sicurezza e coesione sociale. Sono tutte questioni che in questa concentrazione di emergenze superano la dimensione dello Stato nazionale e possono trovare una soluzione soltanto dentro un orizzonte europeo, con il piano vaccini, il Recovery Fund, la condivisione del debito. Già questa evidenza — che spiazza i sovranisti e promuove un profilo di governo europeista — dovrebbe stringere i tempi e i modi della crisi, indirizzandola verso una soluzione rapida e responsabile, puntando con senso dello Stato sulla ricostruzione dell’Italia nel dopo pandemia, piuttosto che sul rinascimento nella sabbia dell’Arabia Saudita.

Invece le cose sono ancora aggrovigliate e i ritardi pesano, soprattutto per un Paese fragile. Quando le alternative al voto riguardano un governo politico o un governo istituzionale, messi quasi sullo stesso piano, si capisce che la ruggine di questi mesi sta divorando anche lo spazio della politica, quel minimo spirito di coalizione superstite, quell’embrione residuale di centrosinistra, quel progetto abbozzato di un perimetro riformista, capace di contendere il futuro all’estremismo della destra nazionalista. O si ritrovano quelle ragioni per stare insieme, culturali prima ancora che politiche, o è inutile provarci, perché si cucirebbero soltanto le diffidenze reciproche, le insofferenze personali che incredibilmente hanno trovato il tempo per diventare dominanti in piena pandemia, le piccole convenienze di partito: niente dunque all’altezza della situazione, tutto sotto il livello della sfida che l’Italia deve combattere.

Per capire cosa sta capitando, bisogna distinguere tra la realtà e la sua rappresentazione. In apparenza le dimissioni del governo Conte hanno messo un punto e a capo nella lotta tra Renzi e il presidente del Consiglio. Caduti teoricamente i veti reciproci, è caduta anche l’ipotesi di radunare in parlamento un piccolo movimento di sostegno al governo costruendo un nucleo di centro liberale europeo accanto al Pd e ai Cinque Stelle, per tagliare le unghie al partito di Renzi rendendolo non più determinante. Ma i liberali per dichiararsi tali, per mostrarsi moderati e per dirsi europei hanno prima bisogno di sapere chi vincerà, e oggi il mare è ancora troppo agitato per lasciare i vecchi porti in disarmo ma protetti: meglio aspettare le previsioni del tempo. Conte ha raccolto per ora soltanto naufraghi alla deriva, in cerca di salvezza individuale ma insufficienti nei numeri e soprattutto nel progetto politico generale. Il disegno era avventuroso, è diventato avventurista, comunque è fallito o almeno rimandato.

A questo punto il capo dello Stato ha verificato che la vecchia coalizione è disponibile a riunire i suoi cocci, in mutate condizioni, anche se non sono facili da costruire viste le polemiche di questi mesi. Ma al Quirinale si è manifestata una teorica maggioranza e secondo le regole Mattarella ne ha preso atto: per chiarire se questa ipotesi teorica si può tradurre in pratica ha incaricato il presidente della Camera Fico di un’esplorazione tra i partiti interessati, che è in corso. Tre di questi partiti — Pd, M5S e Leu — hanno messo in testa all’agenda il nome del premier da incaricare, trovandosi uniti su Conte. Italia Viva lo ha messo in coda, e non ha scelto, chiedendo prima un’intesa sulle cose da fare per poi far nascere il profilo del presidente del Consiglio dal programma concordato, anzi da un nuovo contratto vincolante.

Sembra dunque a prima vista che la discussione sia oggi sulle urgenze del Paese, e che su questo si possa (si debba) trovare un’intesa. In realtà la figura del prossimo capo del governo ingombra la scena come il fantasma dell’Opera, dall’inizio alla fine del negoziato, contiene la soluzione della crisi o la pietra d’inciampo decisiva. Dietro la tattica di Renzi c’è infatti il proposito di costruire una soluzione senza Conte, stringendo al tavolo di Fico una pre-intesa sull’azione di governo tra i partiti contraenti, con un doppio obiettivo evidente: prima di tutto dimostrare all’esploratore — che dovrà riferire a Mattarella — come senza il premier uscente sia più facile trovare un accordo, preparando così la via per un cambio di cavallo; poi dimostrare a Conte, nel caso in cui si debba accettare il suo ritorno a palazzo Chigi, che non è più il dominus del governo perché i partiti sono tornati a sedersi a capotavola, tanto che hanno varato un accordo di programma senza di lui, che ne è semplicemente la risultante finale. In questo modo Renzi punta a devitalizzare Conte, trasformandolo da “avvocato del popolo” a puro notaio di un accordo tra alleati che lo designerebbe premier di un governo altrui, rispettando la forma della Costituzione, non la sostanza.

Ma a un certo punto nella crisi qualcuno dovrà porre la domanda fondamentale, che sgombra da sola tutto il fumo tattico di questi giorni: che cosa si sta costruendo, un accordo di tregua armata tra rivali o un governo per il Paese? E soprattutto che respiro, che spazio, che prospettiva e dunque quale destino deve avere questa coalizione che tenta di nascere? È o non è l’unico spazio riformista oggi possibile in un Paese che ha un bisogno urgente di riforme, indispensabili anche per attivare i 209 miliardi del Recovery Plan? Ed è o non è l’unico campo praticabile per un governo europeista e d’impianto occidentale, di fronte all’attrazione che le democrazie illiberali esercitano anche sulla destra di casa nostra?

È dalle risposte a questi interrogativi che dipende l’esito della crisi, la sua qualità, la responsabilità dei leader: non da altro. Il Pd, con Leu, è impegnato a dare un significato all’alleanza con i Cinque Stelle, nata incredula come stato di necessità dopo la richiesta salviniana dei pieni poteri. Il M5S sembra in buona parte sulla stessa linea, dove lo ha portato Grillo, anche se sotto il coperchio di Conte sta ribollendo un Vietnam correntizio. Renzi ha una lettura estemporanea delle alleanze, interpretate a colpi di performance scambiata per politica, e sembra cercare ogni occasione per fuoruscire dall’accampamento dei centrosinistra. Oggi tutto l’incendio appiccato a quel campo pare ridursi allo scalpo di Conte, o almeno al suo indebolimento per disattivare politicamente il premier, mostrandolo nudo nella crisi, senza un partito che lo protegga.

Una tattica che rischia di spingere Conte a ricoprirsi politicamente, versando il suo credito di popolarità in un partito post-democristiano che ruberebbe voti a M5S e Pd, ma soprattutto occuperebbe lo spazio e il futuro dei partitini neo-centristi. Insomma, la crisi si muove, ma come se fossimo condannati a replicare in eterno Badoglio, la guerra continua.

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