IL FATTO QUOTIDIANO DEL 8 GENNAIO 2021 –pag. 17
Pci, il doppiofondo della storia
PADOVA, 7 GIUGNO 1984
Idee – Dall’antifascismo al settarismo interno: il partito si è sempre mosso tra passione e pragmatismo. La stagione movimentista e poi la ritirata nel “Palazzo”. Che ne ha decretato la fine, prima della caduta del Muro
di Giovanni De Luna | 8 GENNAIO 2021
Nella nostra storia degli ultimi cento anni il Pci occupa una posizione probabilmente migliore di quella che lo stesso Pci si meriti. A esaltarne il ruolo sono infatti i limiti di un socialismo riformista eccessivamente schiacciato su un esasperato pragmatismo, incapace di suscitare passioni, lontano dalle pulsioni profonde che hanno segnato la politica del 900.
La capacità dei comunisti italiani di coinvolgere anche emotivamente le masse popolari li ha resi invece protagonisti della più significativa esperienza di alfabetizzazione politica di massa vissuta.Tutto questo è vero, ma non scalfisce il paradosso al quale è inchiodata la storia del Pci: ovunque è andato al potere, il comunismo ha prodotto regimi dispotici, in molti casi spietati; in Italia è stato, al contrario, un potente baluardo in difesa della libertà e della democrazia. È vero manca la controprova; mai potremmo sapere cosa sarebbe successo se i comunisti avessero vinto, nel 1948 ad esempio. Escludendo le soluzioni sanguinarie alla Pol Pot, avremmo avuto anche noi i gulag e il Kgb?
È un interrogativo destinato a restare senza risposta anche perché le vicende italiane ci raccontano tutta un’altra storia. Il partito fu fondato a Livorno, il 21 gennaio 1921. Poco più di un anno dopo, il fascismo andò al potere e l’Italia visse sulla sua pelle l’incubo del totalitarismo novecentesco. Nel 1926, fu istituito il Tribunale speciale, la più potente macchina repressiva mai partorita dalle istituzioni italiane. Tra il 1926 e il 1943 (quando fu soppresso) furono deferiti al Tribunale Speciale 15.806 antifascisti (891 donne). Quasi altrettanti, 12.330, furono quelli inviati al confino (145 donne), mentre 160.000 furono “ammoniti” o sottoposti a “vigilanza speciale”. Quelli effettivamente processati furono 5.620 (124 donne), di cui 4.596 condannati. Di questi, tre quarti erano comunisti.
Questo dato è il primo che ci può aiutare a sciogliere il paradosso enunciato all’inizio.
Di fatto, contro la dittatura furono soprattutto i comunisti a battersi per la libertà e la democrazia, tenendo in piedi l’esiguo mondo della cospirazione antifascista, innervandolo con la loro tenacia e la loro fermezza morale.
Quando arrivò la Resistenza, furono ancora i comunisti la principale forza politica impegnata nella lotta armata contro i fascisti e i nazisti. Complessivamente, i partigiani combattenti riconosciuti in quanto tali alla fine della guerra furono 232.481; il 50% comunisti, il 20% giellisti, il resto divisi tra autonomi, socialisti, democristiani. Dalla Resistenza nacque la nostra Repubblica e scaturì la nostra Costituzione, senz’altro l’esperimento di democrazia più avanzato che l’Italia abbia conosciuto nei 160 anni della sua storia unitaria.
Una Costituzione che per essere attuata ebbe però bisogno di un lotta politica altrettanto aspra – ebbe anche i suoi morti – di quella armata condotta dai partigiani. E, negli anni 50, i comunisti si batterono contro quello che fu chiamato il “clericofascismo”, il tentativo della Chiesa di colonizzare lo spazio pubblico della neonata Repubblica, proponendo una concezione reazionaria della partecipazione politica unita a un esasperato dogmatismo religioso. Dopo i fatti del luglio ’60 e il rilancio dell’antifascismo, nell’Italia attraversata dalla radicalità del conflitto sociale fu ancora il Pci a mediare tra le istanze rivoluzionarie dei movimenti e le istituzioni, contribuendo a riassorbire i fermenti che agitavano il mondo giovanile e a consentire alla nostra democrazia di attraversare indenne gli anni della strategia della tensione e del terrorismo.
Fino agli anni 70 del Novecento, insomma, il Pci poteva legittimamente ostentare una serie di medaglie, ognuna delle quali aveva però il suo rovescio.
Sul modello cospirativo proposto nella lotta contro il fascismo di Mussolini, ad esempio, gravava la plumbea cappa dello stalinismo: il settarismo, il “sospetto” assunto come norma anche nei rapporti umani e affettivi, i dissensi interni drammatizzati come sempre avviene nei gruppi fortemente centralizzati e con esasperati vincoli disciplinari, seminarono guasti che sarebbero durati nel tempo. Nel corso della Resistenza molte di queste caratteristiche si attenuarono ma restò intatta l’orgogliosa rivendicazione della propria diversità insieme a una spregiudicatezza tattica che legittimava ogni “svolta”, anche la più brusca. Nel segno di questa spregiudicatezza e degli ammiccamenti tattici alla Dc, anche nella lotta contro il clericofascismo riviste laiche come Il Ponte o Il Mondo si trovarono spesso isolate a sostenere battaglie come quelle per il controllo delle nascite, il divorzio, il riconoscimento dei figli illegittimi, le rivendicazioni degli omosessuali, il rifiuto di una morale sessuale grettamente puritana, con il Pci che ai diritti civili negava l’attenzione prestata ai diritti sociali.
Guardando agli aspetti positivi e negativi di una lunga storia si può dire che, fino alla fine degli anni 70, i rapporti del Pci con la sinistra italiana erano definiti da una sorta di oscillazione del pendolo. Nella fase acuta del conflitto sociale il partito, per legittimare la propria funzione, doveva normalizzarne la carica dirompente sfruttandone però la spinta per rafforzare il proprio ruolo istituzionale; nelle pause del conflitto, ma soprattutto dopo le sconfitte più rovinose, il suo compito era invece di sostituirsi ai movimenti, di surrogarne la mancanza di slancio, indicando una linea di continuità e di resistenza che permettesse di non smarrire il filo della speranza e della militanza. Anche durante il “lungo 68” c’era la sensazione diffusa che ci si potesse consentire qualsiasi “estremismo” perché poi, alla fine, comunque – anche dopo scontri furibondi – ci sarebbe stata la “mediazione” del Pci (e del sindacato per quanto riguarda le fabbriche) che dal tumulto ribollente della “contestazione” avrebbe poi estrapolato delle istanze in qualche modo compatibili con le regole del sistema politico.
Questo è stato il Pci e questo smise di essere quando – sotto la duplice spinta della “solidarietà nazionale” e della lotta al terrorismo– il partito si fece compiutamente “Stato”, ritirando la passerella gettata tra le istituzioni e i movimenti, rinchiudendosi nel “palazzo” e candidandosi a essere travolto, insieme agli altri, dalla grande slavina che sancì la fine della Prima Repubblica. Nel 1981, Enrico Berlinguer, nella sua intervista a Eugenio Scalfari sulla “questione morale” pronunciava un giudizio definitivo: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela… gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi… hanno occupato lo Stato… gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università…”. Era esattamente così. E questo valeva anche per il Pci. Ben prima del crollo del Muro di Berlino.
Giovanni De Luna (Battipaglia, 9 aprile 1943) è uno storico, accademico e scrittore italiano, specializzato in storia italiana contemporanea
Autore di trasmissioni radiofoniche e televisive, ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Torino, e collabora con La Stampa, Tuttolibri e il programma di Rai Storia Italia in 4D. È stato membro del comitato scientifico del programma televisivo Rai 3 Il tempo e la storia dal 2013 al 2017 e in seguito in quello di Passato e presente, programma della stessa rete con replica su Rai Storia.
Tra le numerose opere, ha scritto un saggio dal titolo Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, pubblicato da Feltrinelli, in cui è narrato un decennio di storia italiana a partire dalla strage di Piazza Fontana del 1969. L’esposizione non è in ordine cronologico, ma divisa per tematiche (la violenza, la crisi del centrosinistra, la centralità operaia), e si concentra in particolare sui protagonisti (dimenticati e non) degli eventi. L’autore ha vissuto alcuni dei fatti in prima persona, avendo militato in Lotta Continua.
per le OPERE
vedi nel link sotto :
https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_De_Luna_(storico)
Quella di De Luna mi sembra una sintesi storica sul PCI in cui ci ritroviamo, anche perché, come l’autore, molta di questa storia l’abbiamo vissuta. Da qui bisognerebbe partire per elaborare e sostenere una politica che allarghi la mente e l’incidenza sulla realtà da parte della “sinistra”, la indispensabilità della quale la constatiamo tutti i giorni.