LIMES ONLINE 29 GENNAIO 2015
LAÏCITÉ CATTOLICA E JIHADISTI SECOLARI: LA MAIONESE FRANCESE È IMPAZZITA
Carta di Francesca La Barbera – 2015
29/01/2015
Alienati da un laicismo intriso di cattolicesimo, i giovani di banlieue sposano una guerra purificatrice volta a scindere fede e cultura. Così propagano, a loro insaputa, la secolarizzazione occidentale, ma al prezzo di una violenza cieca. La Francia deve ripensare se stessa.
di Frédéric PICHON
Pubblicato in: DOPO PARIGI CHE GUERRA FA – n°1 – 2015
1. In base a una legge del 1872, in Francia è vietato acquisire informazioni sul credo religioso delle persone, a meno che ciò non avvenga nell’ambito dei censimenti indetti dalle autorità pubbliche.
La breve Terza Repubblica, infatti, riteneva si trattasse di una questione privata, rilevante solo per la sfera personale.
Un principio riaffermato da una legge del 6 gennaio 1978 che ribadiva il divieto di «raccogliere o trattare dati di carattere personale attinenti, direttamente o indirettamente, alle origini razziali o etniche, alle opinioni politiche, filosofiche o religiose».
A causa di questa norma, la stima che quantifica in circa 5 milioni gli individui di «cultura» musulmana è una mera supposizione, da molti contestata.
Gli istituti demoscopici francesi, che si basano su questionari concernenti l’adesione a un credo religioso, ottengono risultati molto più bassi, ma assai divergenti: l’Ifop (Institut français d’opinion publique) nel 2009 parlava di 3,5 milioni, mentre enti pubblici di statistica, come l’Insee (Institut national de la statistique et des études économiques) e l’Ined (Institut national d’études démographiques), nel 2010 stimavano i musulmani in 2,1 milioni.
Costretti tra il rispetto della sfera personale e le semplici ipotesi, gli statistici francesi esitano ed è lì che si ingenera quell’immenso equivoco definito dalla demografa Michèle Tribalat«inestricabile disordine statistico».
A conferma di questa assoluta incertezza, c’è la mancanza di stime plausibili perfino da parte di Claude Guéant, già ministro dell’Interno e teoricamente l’uomo meglio informato di Francia in proposito, che nel 2011 affermava risiedere in Francia tra i 5 e i 10 milioni di musulmani.
In ogni caso, una cosa è certa: la Francia è il paese europeo che conta il più alto numero di musulmani, seconda solo alla Bulgaria per l’incidenza di questi sul totale della popolazione.
L’irrompere improvviso dell’immigrazione musulmana nell’attualità è tanto più difficile da decifrare in quanto sfida le nostre categorie d’analisi, già messe a dura prova dall’avanzato processo di secolarizzazione delle nostre società e dalla diffusione di una visione anglosassone del fenomeno multiculturale.
La laicità alla francese non ha mai significato l’interdizione, né tanto meno la negazione, del sentimento religioso. Eppure essa ha preteso di relegare il sentimento religioso nella sfera privata; il che rimanda in realtà a una concezione teologica del fatto religioso. Una concezione la cui matrice è profondamente cattolica, nella misura in cui la distinzione tra dimensione interiore e dimensione pubblica è ben presente in tale cultura. Collocare la religione nell’ambito della sfera privata è un modo tutt’altro che neutro di porsi rispetto a questo fenomeno umano; si tratta di una visione prettamente cristiana della religiosità.
Abbiamo dunque a che fare con una laicità che può paradossalmente definirsi cattolica: basti ricordare che in Francia metà dei giorni festivi è rappresentata dalle grandi festività del calendario liturgico cattolico e che solo un artificio linguistico permette di definire la cura statale degli edifici religiosi, in stragrande maggioranza chiese cattoliche, come «manutenzione dei monumenti storici».
Da qui deriva l’incapacità di pensare il (nuovo) fenomeno religioso dell’islam francese.
L’islam è per sua natura egalitario e ostile agli aspetti gerarchici o magisteriali. La realtà profonda dell’islam è composta da una galassia di sensibilità, di dottrine e di scuole giuridiche. Sebbene oggi l’islam globale appaia unificato sotto il profilo dottrinario dall’interpretazione wahhabita che le petromonarchie del Golfo hanno diffuso grazie alla loro potenza economica, esistono ancora rivalità tra i musulmani radicali; rivalità ulteriormente accresciute dall’orizzontalità delle nuove tecnologie dell’informazione.
Internet gioca infatti un ruolo cruciale nell’accentuare un tratto fondamentale dell’islam: la diffidenza verso tutte le autorità umane – il cui rispetto è visto come širk (idolatria) – che porta a privilegiare la relazione diretta con Allāh.
Sotto questo profilo l’islam è veramente una religione del Libro, al contrario del cattolicesimo, che erige una barriera interpretativa tra il credente e la Bibbia: il magistero, che grazie alla tradizione è il solo a poter parlare validamente del testo sacro.
2. È da questo equivoco che bisogna partire per spiegare il fallimento dei tentativi di istituire un islam di Francia.
Nel 2003 Nikolas Sarkozy, allora ministro dell’Interno, fu l’artefice del progetto volto a costruire un organismo di rappresentanza dell’islam, che prendeva a modello (tra gli altri) la Conferenza episcopale francese. Ma di fronte a un tale pluralismo, com’era possibile avere un solo organo di rappresentanza? Come si è potuto pensare che il Cfcm (Conseil français du culte musulman) potesse essere veramente rappresentativo e accettato da altre organizzazioni, come l’Uoif (Union des organisations islamiques de France) vicina ai Fratelli musulmani?
L’islam francese è fortemente dipendente da Stati stranieri (Marocco, Algeria, Turchia), desiderosi di proteggere le loro rispettive diaspore e di difendere i propri interessi nella Repubblica, mentre organizzazioni come l’Uoif sono finanziate indirettamente da alcuni Stati musulmani, a eccezione degli Emirati che l’hanno inserita nella lista delle organizzazioni terroriste 1.
In tal modo, la Francia ha condannato personalità musulmane come Dalil Boubakeur o Hassen Chalghoumi (ex predicatore vicino al movimento Tablīġī Ğamā‘at e fautore di un «islam repubblicano») ad apparire come marionette nelle mani di uno Stato «laico», in 2 realtà intriso di religione.
Si tratta dunque di un sistema inadeguato, calato dall’alto sui musulmani di Francia e che continua ad allargare il fossato tra i suoi dirigenti e la massa dei fedeli. I predicatori radicali non hanno trovato alcuna difficoltà a improvvisarsi imam, accogliendo nelle proprie sale di preghiera quanti erano respinti dalle moschee ufficiali.
La questione della strutturazione di un islam di Francia non esaurisce il tema del ruolo della popolazione musulmana in seno alla società francese e della radicalizzazione di certi elementi.
È in effetti sull’assetto repubblicano francese che bisogna interrogarsi, alla luce della sua evoluzione da modello di assimilazione a modello di integrazione. La situazione francese non può essere considerata prescindendo dai cambiamenti globali e dalla circolazione dei modelli culturali, prevalentemente anglosassoni, ai quali abbiamo assistito a partire dagli anni Ottanta.
Al contempo, l’immigrazione verso il territorio francese motivata dalla ricerca di lavoro, a lungo ritenuta temporanea, è stata sostituita dai ricongiungimenti familiari (decreto del 29 aprile 1976). Questa decisione fu presa allorché il modello francese, diviso tra multiculturalismo e ideali repubblicani, cominciava a vacillare e le società europee erano in preda ai dubbi sulla loro identità, dilaniate dalla miscela di terzomondismo, senso di colpa e odio di sé analizzata dallo scrittore e saggista Pascal Bruckner 3.
Dunque non è solo e tanto l’emarginazione della popolazione musulmana in un paese segnato dalla crisi economica e da una massiccia disoccupazione il punto centrale, quanto piuttosto i dubbi esistenziali della società ospite: disoccupazione e diseguaglianze, infatti, chiariscono solo in parte perché i giovani discendenti degli immigrati, spesso cittadini francesi, si mostrino più religiosi dei loro genitori e non spiegano appieno la radicalizzazione di alcune frange.
Nelle società europee contraddistinte dal cosiddetto «post-ismo» (post-storiche, post-moderne, ma anche post-tragiche), i difensori dello spirito repubblicano laico e universalista, che tende sempre più verso una sorta di indifferenziazione sociale, hanno immaginato di integrare i nuovi arrivati senza tener conto del loro retroterra culturale e religioso.
Orientate da una sorta di neocolonialismo mentale, le élite francesi – convinte che le culture si sarebbero diluite nel grande universo globale e incapaci di considerare le attitudini religiose degli immigrati e dei loro discendenti come costruzioni culturali, al contempo morali e politiche– hanno fallito, stupendosi di fronte alla tragica manifestazione della discrasia tra le loro aspettative e la realtà.
Si tratta di una discrasia culturale: la massificazione e la ghettizzazione delle popolazioni musulmane ha portato alla costituzione di una controsocietà in cui i riferimenti alle origini prevalgono e nella quale il controllo sociale ha molte più occasioni di esercitarsi (di solito attraverso la «protezione» del corpo femminile). La società dell’informazione ha fatto il resto, favorita dalle crisi geopolitiche degli ultimi anni che hanno investito il mondo musulmano. Il conflitto israelo-palestinese non ha alcuna difficoltà a trasferirsi nella società francese, come ha fatto notare il politologo Gilles Kepel, che ha sottolineato in particolare la virulenza dell’antisemitismo e dell’antisionismodelle persone intervistate in occasione della sua ricerca sulle periferie francesi 4.
Carta di Francesca La Barbera – 2015
È contro questo muro di reciproca incomprensione, eretto con discrezione nel corso degli ultimi trent’anni in Francia, che si sono schiantati i vignettisti di Charlie Hebdo.
Da una parte una cultura dell’irriverenza, figlia della tradizione anarchica, ma ormai impercettibile a molti francesi, nella misura in cui la sovversione dei valori è divenuta la norma dagli anni Ottanta in poi; dall’altra il letteralismo, la risposta dettata da una cultura per la quale la sacralità è sedimentata nel profondo e per la quale il codice d’onore, la vendetta, fanno parte – piaccia o meno – delle convenzioni sociali.
3. Le crisi geopolitiche che da oltre dieci anni segnano il Medio Oriente, in particolare l’Iraq (dal 2003) e la Siria (dal 2011), non hanno fatto che accentuare la deriva di questa controsocietà.
Come spiegare perché un giovane francese di vent’anni, di norma originario del Maghreb e ignorante del Mashreq ( = l’insieme dei paesi arabi che si trovano a est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica), si senta improvvisamente coinvolto da problemi apparentemente così lontani? Perché i giovani francesi rappresentano gli effettivi più importanti tra i jihadisti europei presenti in Siria?
Nel giugno 2014 è stato proclamato lo Stato Islamico a cavallo tra Iraq e Siria: il ritorno di un califfato, la cui elaborazione concettuale risale agli albori dell’islam, appare una sorta di utopia rivelatrice della profonda crisi che attraversa il mondo islamico.Concepito come il modello attraverso cui assicurare la successione (ḫilāfa) al Profeta, il califfato unifica il potere politico con quello religioso.
L’improvvisa proclamazione a califfo di alBaġdādī appare desueta, ma costituisce una formidabile vampata di utopia, tanto più che nei territori interessati da questo proto-Stato essa ha una forte risonanza escatologica. Questa dimensione produce un effetto di trascinamento sulle popolazioni sunnite locali, ma anche sulla gioventù francese che non si riconosce più nel nostro paradigma culturale:per costoro, il jihād è lo strumento attraverso cui purificarsi dalla contaminazione prodotta dal contatto con le nostre società.
La geografia gioca in questo caso un ruolo più pronunciato: non c’è che da consultare la letteratura jihadista per constatare quanto il riferimento allo šām («spazio a sinistra», opposto allo yaman, «lo spazio a destra») e all’Iraq siano preponderanti. Furono precisamente quelli i luoghi dove l’islam sperimentò le prime lacerazioni (Ḥusayn, figlio di ‘Alī, fu sconfitto e ucciso a Karbalā’) e sarà proprio lì che avrà luogo la battaglia finale contro Šayṯān alla fine dei tempi. «Lo šam è il luogo dell’ultimo raduno, nonché la terra della resurrezione», afferma un ḥadiṯ attribuito ad Abū Dar al-Ġifārī, per citare uno solo delle centinaia di ḥadiṯ che fanno riferimento allo šam.
SAYYID AL-QUTB ( 1906- 1966 ) — foto al processo che lo condannerà a morte
https://it.wikipedia.org/wiki/Sayyid_Qutb
Sayyid al-Quṯb, l’ideologo dei Fratelli musulmani, scriveva in Ma‘ālim fī l-ṯāriq (Pietre miliari): «La hiğra (emigrazione) non è obbligatoria se non nella misura in cui consenta l’aggregazione dei musulmani in uno spazio dove sorgerà la verità».
Tutti questi riferimenti figurano da tempo, in piena legalità, su numerosi siti jihadisti francofoni. Vi si ritrovano sempre gli stessi ingredienti: rigenerazione, emozione, rinuncia. Rigenerazione attraverso il ritorno nelle terre storiche e apocalittiche; emozione religiosa condita dalle effusioni che questi giovani si scambiano, (ri)costituendo così una umma; rinuncia allo stile di vita occidentale, spesso giudicato corrotto e permissivo. I giovani jihadisti, che si sentono in conflitto con la società e con la loro famiglia, marcano la loro differenza impegnandosi in un movimento religioso estremo, critico e respinto dalla maggior parte della gente, fortemente mediatizzato e spettacolare, che li strappa in modo radicale e vincolante al loro ambiente e al loro modo di vivere.
Se per i giovani europei questo sentimento religioso può essere ricondotto alla laicità e perfino al carattere eccessivamente permissivo delle società in cui vivono e che rigettano, esso si rivela seducente anche per i giovani maghrebini e sauditi, che vivono in società dove la religione è molto presente, ma in cui la reazione con l’occidentalizzazione è fortissima. In questo senso, essi partecipano senza saperlo alla mondializzazione dell’offerta religiosa, orizzontale, senza magistero, nomade e deculturata, sposando i modi dell’informazione globalizzata consentiti dai social network e riscontrabili in forme assai simili nei movimenti evangelici e nel fenomeno nordamericano dei cristiani born again (rinati).
Il successo di questo neofondamentalismo risiede nel fatto che esso produce una paradossale apologia della deculturazione, permettendo di concepire una religione pura e indipendente da tutte le sue varianti e dalle influenze culturali.
Alla ricerca di un’identità e con la pretesa di rifiutare la mondializzazione occidentale e i riferimenti culturali del loro paese d’origine, i jihadisti europei partecipano in realtà a questa globalizzazione, che istituisce una divaricazione profonda tra cultura e fede. Una sorta di schizofrenia che si risolve nella violenza cieca e nel nichilismo.
(traduzione di Alessandro Sansoni)
1. «L’Uoif classée “organisation terroriste” par les Emirats arabes unis», Le Monde, 18/11/2014.
2. Il movimento del Tablīġ è stato fondato da Muhammad Ilyas al-Kandhlawi nella prima metà del XX secolo in India. Presente in Europa dagli anni Sessanta, punta ad aggregare la popolazione islamica dei paesi di cultura non musulmana e cerca di ravvivare la loro fede nel quadro di un’interpretazione letterale ma pacifica dell’Islam, senza obiettivi politici.
3. P. BRUCKNER, Le Sanglot de l’Homme blanc, Tiers-Monde, culpabilité, haine de soi, Paris 1983, Seuil.
4. G. KEPEL, Banlieue de la République: Societé, politique et religion à Clichy-sous-Bois et Montfermeil, Paris 2002, Gallimard.