Michele Smargiassi (Dovadola, 8 ottobre 1957) è un giornalista italiano.
Laureato in storia contemporanea all’Università di Bologna con una tesi di storia della fotografia, entra nel 1982 a L’Unità, per passare nel 1989 a La Repubblica, dove cura anche il blog Fotocrazia. I suoi articoli e le sue inchieste giornalistiche sono citati in numerosi saggi di autori quali Giovanni Floris, Roberto Ippolito, Giorgio Simonelli, Silvio Ciappi.
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MICHELE SMARGIASSI, BLOG AUTORE. REPUBBLICA DEL 7 OTTOBRE 2016
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Le borgate di Pais e i sociologi con le scarpe lucide
«Non c’è gnente da fotografa’, non semo divi der cinema, semo dei disgraziati, capito? E invece de venì ogni du’ ggiorni con ‘ste macchinette, venite co li sordi, così ce ripulimo un po’ e risparmiate pure tante gitarelle».
Foto Rodrigo Pais, © Archivio Rodrigo Pais (Università di Bologna), g.c.
L’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, anno 1947, non sarà forse il film più riuscito del neorealismo italiano, ma c’è una scena che non può lasciare indifferente un fotogiornalista, neppure settant’anni dopo.
Quella in cui Anna Magnani, nei panni (sporchi, per dirla con Andreotti) di una borgatara di Primavalle rovescia una bacinella d’acqua sporca in faccia al fotografo che vorrebbe farle un pittoresco ritratto miserabilista mentre fa il bagnetto al bambino in una tinozza all’aperto.
E non è finita. Il monologo continua così:
«Quelli vengono pe’ impicciarse, te schiaffano una bella fotografia alta un metro sul giornale con sotto scritto: ecco a sora Angelina, eh, guardate quanto è bella, quanto è disgraziata. I figli so’ pieni di croste e di pidocchi, so sette in famiglia, dormono in dù stanze, non c’hanno una lira e a merenda se magnano le unghie dei piedi! Sai che piacerone che te fanno, ti senti proprio sollevata dopo! Almeno servisse a qualche cosa, tanto semo condannati a miseria a vita!».
Non so se quel fotografo fradicio avrebbe potuto essere Rodrigo Pais. Direi di no, e non solo perché era il fotografo dell’Unità, e nelle borgate ci andava spesso assieme ai sindacalisti comunisti dell’Ania, quelli che (com’è corta la memoria politica…) facevano come i centri sociali oggi, organizzavano i senzatetto, i cortei dei baraccati, guidavano le occupazioni di case.
Forse era anche una caratteristica sua, di carattere. Nelle fotografie sulle periferie romane riemerse dal suo sterminato archivio (acquisito oggi dall’Università di Bologna e curato da Guido Gambetta) ed ora esposte, molte per la prima volta, in una mostra a Trastevere, la sua presenza fra e dentro le baracche, se non proprio gioiosamente accolta, sembra tollerata dai borgatari (in posa, o più o meno “naturalmente” intenti alle loro occupazioni) con un misto di imbarazzo, aspettativa, a volte indifferenza, forse rassegnazione e perfino fatalismo.
Foto Rodrigo Pais, © Archivio Rodrigo Pais (Università di Bologna), g.c.
In certe foto di Pais, Roma sembra Bombay. Una metropoli del Sud del mondo che sembra fatta solo di periferie.
La metastasi suburbana di Roma ha radici lontane, più antiche, forse di migliaia di anni, degli sventramenti fascisti con relative deportazioni di popolani dal centro storico ai bordi sfrangiati del polipo urbano; dei bombardamenti che ne continuarono l’opera; dei piani Ina-Casa che dovevano risolvere il problema e invece, insufficienti e mal progettati, dormitori premeditati, divennero calamite di baraccopoli spontanee: ma non è questo il luogo per raccontare questa storia.
Parliamo di fotografie, e di come la raccontarono loro. Servirono «a qualche cosa», quelle «macchinette» invadenti? Le mostre di questo genere, in realtà, raramente permettono mai di dare una risposta a questa domanda.
Le foto di Pais, nel loro insieme un’inchiesta smisurata, stratificata, complessa (urbanistica, antropologica, politica, sociale, perfino morale), fatta di immagini prese con mestiere sicuro, di temperature diverse, dal freddo rilievo urbanistico alla raccolta di documenti di denuncia sociale alla Hine, alla costruzione iconico-emotiva stile Fsa, quelle foto ci sfilano davanti ormai senza alcun rapporto alle occasioni in cui furono scattate e al contesto editoriale in cui apparvero.
Pais in quegli anni gestiva un’agenzia fotografica che produceva immagini per diversi giornali, non tutti della sinistra. Molte, probabilmente le più crude (il bambino che nella sua baracca mostra ridendo, come un trofeo di caccia, un grosso topo di fogna morto che tiene per la coda), non furono neppure pubblicate. Quali? La mostra e il libro non ce lo dicono.
Foto Rodrigo Pais, © Archivio Rodrigo Pais (Università di Bologna), g.c.
Ma una vera storia del fotogiornalismo può essere fatta solo guardando le pagine dei giornali. Non ho modo di dimostrarlo, ma temo che se andassimo a ripescare i contesti stampati in cui all’epoca apparvero queste foto rimarremmo abbastanza delusi.
Come spiegano bene Uliano Lucas e Tatiana Agliani in un libro che non fa sconti a quella storia, in quegli anni fra ricostruzione e boom i giornali italiani chiedevano ai fotografi foto-stampelle. Foto-illustrazioni per articoli che consideravano le proprie parole l’unico vero contenuto informativo.
Foto subordinate e neutralizzate dai quadri giornalistici, ideologici e retorici, ovviamente diversi e spesso opposti, in cui erano chiamate a comparire, più elementi di richiamo – come i titoli – che racconto visuale strutturato.
Vale la pena di riportare da quel volume il brano di un’intervista di Franco Malaguti, per anni grafico dell’Unità, a Lucas:
“Era l’assoluta incomprensione verso il linguaggio visivo. La foto tuttalpiù era ‘decorativa’: nelle tre o quattro pagine dedicate al comitato centrale, che erano obbligate, si chiedevano tre o quattro foto per spezzare, ossia la foto serviva per inserire macchie grigie o semmai per testimoniare, molto raramente, che qualcosa fosse avvenuto, ossia se c’è l’alluvione del Polesine può passare una famiglia in barca o che risale l’argine, se c’è Longarone si pubblica la foto del luogo della frana, non il resto.”
Solo oggi, solo rimettendo insieme la visione di lungo periodo di un fotoreporter che seppe dare una forte continuità al suo lavoro, in una mostra e un volume che restituiscono integrità e qualità materiale a quelle immagini, quel racconto si ricompone; ma – è bene saperlo – è il significato di oggi quello che leggiamo nelle foto di allora.
Forse solo nel cinema di Pasolini, Accattone, Mamma Roma, lo scenario delle borgate romane «tristi e beduine» riuscì a fondersi con il loro riscatto poetico, politico e intellettuale.
Foto Rodrigo Pais, © Archivio Rodrigo Pais (Università di Bologna), g.c.
Ed è la narrazione, che i contemporanei difficilmente potevano avere così chiara, di una neoplasia politico-urbanistica la cui dinamica è in fondo tanto semplice quanto vergognosa. Di una città-calamita, gigantesca voragine dove l’immigrazione di massa (Roma fu città di inurbati ancora prima di Milano e Torino) era funzionale al mantenimento (nel senso peggiore della parola) della città improduttiva del potere e della rendita, dei feudi urbani ecclesiastico-notabilari e poi politico-amministrativi, dove i ghetti di stracci erano funzionali ai quartieri di lusso, perché era a Centocelle o al Tufello che si rifugiavano di notte le sore Angeline «che di giorno spazzavano i corridoi dei ministeri», sintetizza feroce Franco Ferrarotti, il sociologo, in un testo recuperato nel libro che accompagna la mostra.
Ferrarotti è stato fra i pochi a usare, anche praticandola personalmente, la fotografia come strumento di ricerca sociale. «Senza questo ausilio tecnico», scrive, «che oggi è alla portata di tutti e che ha perso valore perché tutto ciò che è facile diventa stupido, non avrei mai sviluppato un interesse profondo per il mondo e il sottomondo».
Ma i sociologi non la amavano, perché «non amano sporcarsi le scarpe, le mani, prendersi un raffreddore», e la fotografia si fa solo sul campo, non alla scrivania.
Al loro posto andarono a sporcarsi le scarpe i fotografi dei giornali, i bistrattati scattini delle redazioni. Che una cultura dell’analisi sociale non l’avevano, e la coscienza politica e lo sdegno morale, per quanto nobili, non potevano esserne il surrogato.
Immagini senza interpretazione, teoria senza immagini. Solo ridando vita alle immagini degli archivi il loro senso integrale si ricompone. Utile per noi, oggi. Troppo tardi per quello che sarebbe stato utile allora.