RICCARDO LUNA- INTERVISTA A STEFANO MERLER :: Merler: “Da 12 anni l’Italia è senza un piano pandemico, ci è costato molto caro” –REPUBBLICA DEL 7 SETTEMBRE 2020

 

 

 

REPUBBLICA DEL 7 SETTEMBRE 2020

https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/09/07/news/intervista_merler-266529026/

 

 

STEFANO MERLER

 

Intervista

Coronavirus

Merler: “Da 12 anni l’Italia è senza un piano pandemico, ci è costato molto caro”

07 SETTEMBRE 2020

Parla il ricercatore che elaborò per il governo gli scenari del Covid

 

DI RICCARDO LUNA

L’uomo degli scenari “troppo drammatici per poter essere divulgati” (Andrea Urbani, ministero della Salute); il “matematico intelligente”  che aveva realizzato la prima proiezione italiana dei dati cinesi sul covid-19 “che avrebbe gettato il paese nel panico” (Agostino Miozzo, presidente del Comitato tecnico scientifico); quell’uomo è Stefano Merler.

Ha 51 anni, da 25 è un ricercatore della Fondazione Bruno Kessler di Trento dove è entrato che già si occupava della sua passione: la matematica applicata alle epidemie. In pratica cerca di capire cosa farà un virus. Non è lui l’autore del “Piano pandemico” approvato dal Cts il 4 marzo e poi misteriosamente sparito, al punto che se ne nega l’esistenza: di quello si occuparono l’ospedale Spallanzani, l’Istituto Superiore di Sanità e il ministero della Salute; lui contribuì a quel lavoro solo nella parte dei modelli matematici alla base degli scenari esaminati. Tutto in effetti parte da quando Stefano Merler il 12 febbraio venne ascoltato dal Cts riunito al ministero della Salute alla presenza del ministro Speranza. Quel giorno presentò uno studio intitolato “Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul sistema sanitario nazionale”.

Nel testo di quel documento non c’è molto, ma nei grafici si vede benissimo che il covid-19 avrebbe potuto contagiare due milioni di persone provocando 70 mila morti. In quei giorni non lo diceva nessuno, come faceva a saperlo?

“Non lo sapevamo, erano scenari, le certezze erano altre. La prima era che il virus sarebbe sicuramente arrivato in Italia. Il 7 gennaio ero stato chiamato a lavorare ad un progetto di ricerca per Science coordinato da Boston da Alessandro Vespignani. Quello studio dimostrerà che l’epidemia in Cina era molto più diffusa di quel che dicevano e che probabilmente era già uscita dai loro confini. Era tardi per bloccare i voli. Il 20 gennaio lo sapevamo”.

E il 27 gennaio lei in una intervista ad un quotidiano locale dice che il coronavirus “sarà una cosa seria, anzi serissima” facendo arrabbiare alcuni suoi colleghi.

“Erano i giorni in cui andava di moda dire che era come una influenzetta ma bastava leggere i lavori scientifici che arrivavano sulla parte clinica del virus dalla Cina per capire. Ricordo uno studio di inizio febbraio che diceva che il 25 per cento di chi andava in ospedale aveva bisogno di terapia intensiva e molti addirittura di ventilazione meccanica. Erano quelli i dati spaventosi, ed erano fatti noti, non erano studi nostri”.

Il 5 febbraio l’Istituto Superiore di Sanità la invita ad un seminario a porte chiuse sul coronavirus: li avvisa del pericolo?“Penso che lo conoscessero già. Quel giorno in realtà presentai lo studio di un collega, Marco Ajelli, che per la prima volta dimostrava che gran parte della trasmissione dei contagi era pre-sintomatica. Quello è stato il momento peggiore, quando abbiamo capito la gravità della minaccia”.

Può spiegare meglio?

“I virus sono contenibili essenzialmente con due misure: l’ìsolamento dei contagiati e la quarantena dei contatti. Ma questa vale solo se si verificano due condizioni: una bassa contagiosità, il famoso R0 più basso di 1; e una bassa frazione di trasmissione non vista, quella asintomatica o pre-sintomatica. Questo è il motivo per cui abbiamo smesso di provare a contenere l’influenza che pure ha un R0 basso. E spiega perché riuscimmo a controllare la Sars che ha un R0 attorno a 3, ma è contagiosa solo fra chi ha sviluppato i sintomi. Insomma, lo scenario che avevamo davanti era devastante”.

 

Come avete fatto da Trento a capirlo?

“Quella ricerca venne fatta in collaborazione con l’università di Shanghai che fornì tutti i dati. La presentai e ricordo che erano tutti spaventati. L’unica cosa che non sapevamo era quando il virus sarebbe arrivato in Italia, ma sapevamo che ci avrebbe travolti”.

 

E quindi venne invitato sette giorni dopo a presentare il famoso studio sugli scenari italiani al Cts. Che in realtà non era poi così allarmistico: perché decise di esaminare scenari con un R0 molto più basso di quello registrato in Cina, dove aveva raggiunto 3?

 

“In realtà anche quella della Cina era una sottostima perché i contagi si erano diffusi a scuola chiuse, prima per il capodanno cinese e poi per ordine del governo. Per l’Italia la prima stima fu di un R0 al massimo di 1.6 ma già nei documenti successivi (la bozza di piano pandemico del 22 febbraio, ndr) R0 era stato portato a 2. Comunque c’era un denominatore comune a tutti gli scenari: per il sistema sanitario sarebbe stato un disastro e il lockdown era inevitabile”.

 

Nel suo studio del 12 febbraio il virus impiega oltre 200 giorni per arrivare al caso numero mille. In realtà sono bastate meno di due settimane. Perché?

 

“Speravamo che il virus non fosse già in Italia. Nelle stime conclusive (la versione del piano pandemico del 4 marzo, ndr), quel numero diventa 38 giorni. Un valore che conferma che i primi casi risalgono  a gennaio e che quello che abbiamo chiamato paziente zero era il paziente mille”.

 

C’è qualcosa che avreste potuto fare prima? Per esempio conoscere la disponibilità di materiali di protezione sanitaria e di mascherine ordinandone l’approvvigionamento. 

“Non posso rispondere a questa domanda. Dal mio punto di vista prima del paziente 1 non potevo fare altro. E il giorno dopo su indicazione dell’Istituto Superiore di Sanità ho iniziato a collaborare con regione Lombardia dove abbiamo fatto un lavoro splendido: la prima ricerca sulla diffusione del virus con i dati reali, pubblicata a fine marzo, ma disponibile all’inizio del mese. Lo studio dimostrava che senza lockdown solo in Lombardia avremmo avuto 20 mila morti in un mese. Quella ricerca ha aperto gli occhi a tutti ed è stata alla base dei provvedimenti presi l’8 marzo”.

 

Qualcuno oggi dice che il lockdown si sarebbe potuto fare solo in alcune regioni del Nord.

“Sbaglia. All’inizio di marzo misurammo l’R0 in tutte le regioni e in otto era sopra 3. Non solo in quelle del nord, c’erano anche Toscana, Lazio e Campania. Il lockdown ha salvato moltissime vite”.

 

Quale è stato il momento più difficile?

“La notte fra il 1° e il 2 marzo. Abbiamo passato ore in videoconferenza a discutere del caso Bergamo. Al Cts era stato chiesto un parere sulla chiusura e alla fine lo abbiamo dato, i verbali lo testimoniano, bisognava chiudere. Ma quella notte non riuscii a prendere sonno”.

 

Lei ha partecipato anche al piano per le riaperture graduali di maggio. Adesso tocca alla scuola, che accadrà?

Aumenterà il carico di trasmissione, il numero di contagi. Ma quello che più preoccupa è l’influenza. Oggi il sistema tiene perché in tutte le regioni i presidi sanitari bloccano i focolai sul nascere. Ma questo è possibile perché tosse e febbre ora sono quasi sempre sintomo di covid-19. Che accadrà quando arriverà l’influenza è un mistero”.

 

Che cosa ha imparato da questi nove mesi in prima linea?

“Che un piano pandemico serve. E’ difficile, forse anche inutile, farne uno vero adesso. Ma passata questa epidemia dobbiamo investire tempo e risorse per farlo. Abbiamo pagato un prezzo altissimo per non averlo aggiornato per dodici anni. E non dobbiamo pensare che queste epidemie siano una rarità: solo in questo secolo è la settima, una ogni tre anni. Queste cose succedono. Occorre prepararsi a gestirle. Non dobbiamo mai più trovarci come stavamo noi a febbraio, quando brancolavamo nel buio”.

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1 risposta a RICCARDO LUNA- INTERVISTA A STEFANO MERLER :: Merler: “Da 12 anni l’Italia è senza un piano pandemico, ci è costato molto caro” –REPUBBLICA DEL 7 SETTEMBRE 2020

  1. Donatella scrive:

    Finalmente qualcosa di chiaro detto da uno specialista che ci lavora.

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