Daniele Santoro, Federico Petroni::: La morte di Soleimani, il viceré persiano in Medio Oriente. — ANSA.IT — 5 GENNAIO 2020

 

 

ANSA.IT  — 5 GENNAIO 2020

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/oceania/2020/01/05/australia-24-morti-negli-incendi_2b3b3576-bc7b-4d6c-bab4-107e054f1922.html

 

 

La morte di Soleimani, il viceré persiano in Medio Oriente

 

An Iranian carries the portraits of Iran's Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei and Revolutionary Guard's Quds Force, Gen. Qassem Soleimani during the funeral of the victims of the attacks on Tehran's parliament complex and the shrine of revolutionary leader Ayatollah Ruhollah Khomeini, in the capital Tehran on June 9, 2017. - Tehran hit out at Washington and Riyadh as tens of thousands attended the funerals Friday for those slain in the first attacks in Iran claimed by the Islamic State group. (Photo by ATTA KENARE / AFP) (Photo by ATTA KENARE/AFP via Getty Images)

 

Un iraniano mostra le foto della guida suprema della Repubblica Islamica Ali Khamenei e del comandante della Forza Quds del Corpo dei guardiani della rivoluzione Qassem Soleimani in occasione dei funerali delle vittime degli attacchi al parlamento e al mausoleo dell’ayatollah Ruhollah Khomeini rivendicati dallo Stato Islamico (Teheran, 9 giugno 2017 (foto di Atta Kenare/Afp via Getty Images).

 

 

 

 

 

 3/01/2020

Il gesto più ostile degli Stati Uniti in 40 anni di rivalità con l’Iran.

di Daniele Santoro, Federico Petroni

 

 

ARTICOLI, SCONTRO USA-IRAN, IRAN, IRAQ, USA, MEDIO ORIENTE

Il generale iraniano Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica, è rimasto ucciso in un raid missilistico degli Stati Uniti a Baghdad. Soleimani si stava recando all’aeroporto della capitale dell’Iraq scortato da un miniconvoglio di cui faceva parte il capo delle milizie sciite irachene Abu Mahdi al-Muhandis, anch’esso deceduto nell’operazione.

Si tratta dell’atto più ostile degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran nei quarant’anni di rivalità innescata dalla rivoluzione del 1979. Una rivalità fondata su elementi strategici (la comune ambizione a esercitare un ruolo egemonico in Medio Oriente) e alimentata da fattori emotivi e brucianti episodi, come il sequestro del personale diplomatico dell’ambasciata americana di Teheran proprio nel 1979.

Soleimani era il viceré del Medio Oriente persiano, riverito dagli sciiti della regione – e da non pochi sunniti – quale eroe della guerra allo Stato Islamico. Era il manovratore delle milizie irachene, architetto della strategia persiana tra Tigri ed Eufrate e uomo di collegamento con l’Hezbollah libanese. Incarnava la proiezione estera di Teheran, la necessità iraniana di una sfera d’influenza fino al Mediterraneo.

La sua uccisione segna il culmine, per il momento, della campagna di “massima pressione”lanciata dall’amministrazione Trump contro la Repubblica Islamica. L’offensiva è partita nella primavera 2018 con la denuncia dell’accordo sul programma nucleare di Teheran e con il ripristino delle sanzioni.

Ma l’obiettivo è di molto superiore. Perché Washington vuole recidere il corridoio con il quale Teheran punta a raggiungere il Mediterraneo. Proposito giudicato incompatibile con l’intenzione americana di impedire a qualunque potenza mediorientale di raggiungere una posizione egemonica nella regione. Ciò a cui gli apparati statunitensi ritengono che gli iraniani stiano lavorando negli ultimi anni, durante i quali Teheran ha rafforzato le posizioni in Iraq e in Siria approfittando della guerra allo Stato Islamico.

 

 

Carta di Laura Canali - 2019Carta di Laura Canali – 2019

 

 

È tutto fuorché un caso il fatto che l’Iraq sia l’epicentro delle tensioni. Il paese dei due fiumi riveste un ruolo fondamentale, quasi esistenziale, nella strategia iraniana. Oltre a essere uno snodo dell corridoio sciita, l’Iraq è essenziale per la difesa della Persia. Per Teheran, perderne il controllo implica il rischio di trovarsi il nemico alle porte. È dal 2003, anno in cui gli Stati Uniti spalancarono agli iraniani le porte di Baghdad abbattendo il regime di Saddam Hussein, che Washington e Teheran si contendono l’influenza in Mesopotamia in una guerra di ombre a bassa intensità. Di cui l’uccisione di Soleimani rappresenta, per ora, l’apice.

 

Peraltro, negli ultimi giorni si è assistito a un’escalation di attacchi e provocazioni. Il 27 dicembre il gruppo paramilitare Kataib Hizbullah ha attaccato una base militare a Kirkuk uccidendo un contractor civile e ferendo quattro militari statunitensi. Washington ha risposto due giorni dopo bombardando le milizie filoiraniane e uccidendo 25 dei loro membri. Fra il 31 dicembre e il 1º gennaio è poi andato in scena l’assalto all’ambasciata americana a Baghdad, culmine di ripetuti tentativi da parte di attori legati all’Iran di penetrare la Green Zone. L’episodio si è risolto senza nessun ferito tra il personale diplomatico, ma Trump aveva esplicitamente minacciato una rappresaglia.

 

L’eliminazione di Soleimani ha però una valenza molto più clamorosa. Lo scopo dell’operazione è impressionare gli iraniani, per indurli alla resa.

 

Una reazione dell’Iran ci sarà, deve esserci. Ma nonostante la roboante reazione della guida suprema Ali Khamenei e dei vertici della Repubblica Islamica, Teheran non è nella posizione di alzare ulteriormente l’asticella del confronto. Difficilmente si spingerebbe a chiudere lo Stretto di Hormuz, a rappresaglie militari dirette o ad avviare una campagna terroristica contro Israele e le postazioni statunitensi in Medio Oriente. Altissimo sarebbe il rischio di subire attacchi entro i propri confini, peraltro in un momento di debolezza per il regime. A suggerirlo sono le recenti proteste in patria e la durissima repressione nel sangue. Nonché le manifestazioni sempre più feroci in Iraq e in Libano contro la stessa influenza persiana. Senza contare che una guerra con gli Stati Uniti nell’anno elettorale sarebbe un regalo magnifico a Trump.

 

La risposta della Repubblica Islamica potrebbe limitarsi a Baghdad e dintorni. Dove i suoi alleati hanno lanciato appelli per liberare il paese dalla presenza militare americana (5.500 soldati, in aumento), vedi la riattivazione del famigerato Esercito del Mahdi da parte del leader sciita Moqtada al-Sadr. Ciò non esclude la possibilità di eventi drammatici. Ma suggerisce che nessuno dei due rivali ha intenzione di allargare il conflitto.

 

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