CLAUDIO TITO, Con il ritorno alla legge elettorale proporzionale il Pd rischia di perdere la sua identità– REPUBBLICA DEL 13 DICEMBRE 2019 –pag. 8

 

REPUBBLICA DEL 13 DICEMBRE 2019 –pag. 8

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Con il ritorno alla legge elettorale proporzionale il Pd rischia di perdere la sua identità

di Claudio Tito

In nessun Paese europeo, anzi in nessun Paese al mondo è accaduto quel che si sta verificando in Italia nell’ultimo quarto di secoli. In soli 25 anni la legge elettorale è cambiata già tre volte.

Ed ora una quarta volta. Una continua e confusionaria giravolta. Si assiste ad una classe dirigente che rincorre i suoi limiti e cerca di colmare i suoi deficit cambiando le regole di elezione del Parlamento. Confonde continuamente i difetti del sistema politico con quelli del modello elettorale nella speranza, rivelatasi sempre vana, di correggerli. Invece di cambiare se stessi, cambiano le norme. Nel 1994, sull’onda di due referendum, l’Italia ha adottato una legge prevalentemente maggioritaria. Si trattava di una scelta dettata dalla richiesta popolare di garantire certezza di governo a chi vinceva nelle urne e stabilità. Poi, dopo poco più di 10 anni, con un colpo di mano dell’allora maggioranza berlusconiana che temeva la sconfitta nelle urne, si è ritornati alla proporzionale ma con un premio di maggioranza, solo alla Camera. Altri dieci anni – per l’intervento della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la “porcata” di Calderoli – viene abolito il premio e aggiunta una quota maggioritaria. E ora un nuovo giro di valzer. L’attuale maggioranza giallo-rossa, con l’assenso della Lega, vuole ritornare ad un modello interamente proporzionale come nella Prima Repubblica. Con in più solo uno sbarramento al 5 per cento.

La dimostrazione di una classe politica confusa, prona agli istinti e agli interessi del momento, chiusa nel recinto delle emergenze immediate e senza una visione strategica.

Nel caso specifico, poi, emerge una gigantesca amnesia collettiva. In tutti i partiti presenti alla Camera e al Senato. Il Pd è nato proprio sull’onda della novità che si era affermata nelle regole elettorali. La fusione di due grandi culture, quella comunista e quella cattolica, ne determinava la natura. Il suo prima segretario, Walter Veltroni, lo aveva definito a “vocazione maggioritaria”. Ma con questo passo indietro, quella “vocazione” semplicemente svanisce. Il Partito democratico rischia di rinunciare alla sua identità. Ne deve costruire un’altra o, peggio ancora, altre. Si rintana in una posizione minoritaria e subalterna alla destra. Non accetta la sfida, non si fida di se stesso, non scende nel campo che aveva consentito alla sinistra di arrivare al governo dopo quasi cinquant’anni di storia repubblicana.

Ma anche per l’M5S è una sorta di testa-coda. Accetta l’idea che i governi tornino ad essere regolarmente – e non eccezionalmente – decisi in quei palazzi che avrebbero voluto aprire come una scatoletta di tonno. Prendono sostanzialmente atto di essere stati sconfitti nel Paese. Di avere come prospettiva di essere un piccolo partito, un accessorio in qualsiasi maggioranza che si formerà nella prossima legislatura.

Il culmine dell’incoerenza è la Lega. Che ha presentato un quesito referendario a favore del maggioritario e contestualmente tratta sul modello opposto. Anche Salvini si accontenta. Di avere la garanzia – almeno secondo gli attuali sondaggi – di essere comunque indispensabile per qualsiasi esecutivo avendo nello stesso tempo la possibilità di “non sporcarsi le mani” con Berlusconi e con la Meloni. L’ennesimo minuetto della politica italiana.

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