MARIA BORIO, SCELTA DI POESIE DA ” SINDROME DEL DISTACCO E TREGUA ” DI MAURIZIO CUCCHI, ( MONDADORI 2019 ) – DA NUOVI ARGOMENTI, 28 GENNAIO 2019 +++ RECENSIONE DI PAOLO MAURI, LA REPUBBLICA DEL 23 SETTEMBRE 2019, pag. 35

 

Nuovi Argomenti

 

28 GENNAIO 2019

 

DI MARIA BORIO, CAPOREDATTRICE POESIA

 

 

Sindrome del distacco e tregua

Maurizio Cucchi

Articolo acquistabile con 18App Carta del Docente
Editore:Mondadori
Collana:Lo specchio
Anno edizione: 2019
In commercio dal: 29 gennaio 2019
Pagine: 104 p., Brossura
18 EURO, PREZZO PIENO

Sindrome del distacco e tregua

 

 

 

Pubblichiamo una scelta di poesie da Sindrome del distacco e tregua, l’ultima raccolta di Maurizio Cucchi uscita per la collana “Lo Specchio”, Mondadori, 2019.

 

 

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

***

Ma poi, e basta qualche ora,
dopo l’orrore della massa accodata,
ecco la tregua benefica che scioglie
la sindrome sinistra e pervasiva
del distacco.

Che paesaggio, piano, indifferente,
serenamente bigio nell’oceano,
nelle sue piccole bianche casine silenziose
e io, la spuma tranquilla alle mie spalle,
in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento
di improvvisa adesione. Non totale
adesione, ma quasi.

***

 

da Il penitente di Pryp’jat’

 

Nella foto di Kostin lei è di spalle, avanza
con un bastone e un sacchetto nero,
curva, ingobbita nella sua veste scura
e un fazzoletto in testa in una strada
solitaria, di terra e ciuffi e sassi.
Vecchissima arranca verso un dove
di patria, un dove di pace e morte.

*

Su tutto spicca la grande insegna
bianca sul prato, a sovrastare
quasi trionfale, la desolazione:
Припять 1970, l’anno
della sua edificazione. C’erano
la via dell’amicizia dei popoli,
la via degli entusiasti, una città
privilegiata di tecnici e maestranze,
l’idea del futuro nei palazzi, nelle menti
delle famiglie, dei bambini
nei parchi e nelle scuole.

Lo spettacolo fu quello
di una luminescenza strana,
meravigliosa, dissero. I pompieri
accorsero, si tolsero le tute,
tutto. E morirono tutti.

*

Ma solo dopo 36 ore
l’intero popolo della nuova città
fu finalmente evacuato.

Cesio-137. La nube
seccava le mucose nella bocca
e tonnellate di materia radioattiva
furono sparse nel vento, portate
dal vento verso nord. Un rilascio
pari a duecento volte Hiroshima
e Nagasaki messe assieme.

Nel caos dell’esito attivo
si annusava l’odore della carne marcia,
si andavano moltiplicando orrori vari
al sistema osseo, al connettivo, al sistema
nervoso e circolatorio.

Videro galline dalla cresta nera,
il latte si rapprendeva in polvere
bianca, nacquero sette ermafroditi.
Una moria di animali negli orti
diventati bianchi, nella foresta
rossa. C’era chi sollevava
strisce di pelle dal suo corpo con le mani.

Una quiete sinistra e irrevocabile.

*

Ci si abitua, è… normale. Si gode
di una sopravvivenza minuziosa,
in un farcela giorno per giorno, strappando
ogni giorno come un frutto, come
un regalo in più da far fruttare.
Prezioso, inestimabile, ed è solo un giorno
sottratto al proprio nulla.
In una città deserto per filosofi.

*

Spostavo lento il dito sulla mappa,
sul colore verde chiaro del paese
così labile e remoto. Leggevo i nomi
strani delle oblast, delle città. Ecco
Rivne, Žytomyr, Ovruč, che cercavo,
e le venature di azzurro più a nord.
Così, mentre ero al tavolo, la carta
si ingigantiva, si ingigantiva, a un tratto,
a dismisura e diventava terra, diventava
un intrico di terra, boscaglia e di palude
che quasi mi inghiottiva nel suo verde
e ocra. Iniziava lì la corsa in gruppo
nel bosco, preceduto, io, da due figure
femminili, alte, rapide e in nero.

Fino a trovarmi solo, in superficie, tra la sabbia bianca e le sterpaglie, proprio di fronte a quella specie di trapezio bianco, con la scritta in cirillico e la data, in nero, 1970. Lì, di fronte, si è di colpo aperta una via di campagna, miserabile, poche baracche ai lati, e lei, la vecchia che avanza, solo in apparenza sopraffatta.

Io l’ho seguita, fino alla cittadina
storica e infestata, verso la casa
dell’architetto. Qui mi hanno cantato
la leggenda del fantasma
il penitente che si aggira
solitario dietro una chiesa e appare
di notte, le lunghe dita bianche, la faccia
piatta, l’occhio sformato, i lunghi capelli
biondi arruffati, nerovestito dalla voce
roca, traslucido e urlante.

*

L’epilogo quale che sia non conta. Mai.
Così il meccanismo, la banale trama. Conta
l’insistere virtuale sulla scena,
la rapsodia sparsa e sempre minuziosa
delle circostanze. Poi

perdo l’orientamento, senza paura,
certo, ma deluso, e il dito,
d’improvviso impaziente, torna
curioso a muoversi, a grattare,
prima di depositarsi ormai stremato sull’atlante.

***

Giuseppe, per gli amici “El Pinìn”, e un desiderio di ruvida serenità, per qualcuno rudimentale o selvaggia. Non so perché, ma comincio a infastidirmi di tutto ciò che
è lì per niente, che non ha, insomma, una stretta utilità concreta. E che, s’intende, non ha neppure un requisito di bellezza. Perché, dopo tutto, proprio la bellezza… la bellezza disinteressata… Ma asciutta, ardua, priva di leggiadre soste ornate, decorate. Sì, homo aesteticus, se si può dire, e non il solito infelice homo oeconomicus.

Perché non è economico il reale,
mentre cerchiamo in un estremo
patetico conato di ricrescere
verso l’abisso, ottusi, scossi
dalla sacra idiozia della moneta.
Mi basta, minimale e individuo
come sono, la più modesta
resilienza del soggetto.

***

Osservo dalla mia finestra la chiave di volta della casa di fronte e subito penso a un ritmo scandito perfetto, a una musica, insomma, a un movimento, un movimento del corpo. E insieme penso a una provvisoria matematica esattezza, e soprattutto a un campo più vasto, un campo aperto di possibilità molteplici, o forse infinite, un campo intrecciato di corrispondenze sottili e di rimandi, di percezioni sensoriali diverse, leggibili, appunto, come “foreste di simboli” ai più sconosciute, dove “profumi, colori e suoni” portano in sé il progetto compiuto di un pensiero nascosto.

***

Clairoir

Sono pronto, finalmente, a scivolare
in pace indietro, ma è sempre poco,
verso ciò che è stato e che non so,
che è, permane, pur senza visibile traccia
e mi ha generato anonimo, nei passi
anonimi, nell’anonimo circolare
nel mondo innumerevole in appellativi
e umili viscere di terrestre terra
remota e ovunque come in quell’anno,
in quel numero inciso lassù,
sotto i ferri ingegnosi del clairoir,
dov’è la croce, forse alchemica,
aerato e ancora nitido: 1721,
i Brandeburghesi. Quando le storie ricordano:
la famiglia reale britannica s’inoculò il vaiolo.

***

Ma qui,
in questa rugosa e fresca Europa,
delle infinite, sottili differenze,
che la lingua rivela nei fantastici
nomi – Bilbao o Oxford, Tallinn, Roma
o Trondheim, Timişoara o Brno
o Murmansk, è ancora il vasto,
inimitabile, storico territorio,
ideale e reale, autentico
nostro mutante habitat.

***

La materia si erge, si protende,
ed è insieme fitta, ottusa e acuta
e in queste forme di impeccabile
eleganza misteriosa, per noi,
labirintica e leggera.
Il suo corpo tende a ricomporsi,
nelle costruzioni sottili dell’arte,
come una scrittura musicale
antica o d’avvenire e sempre
da scoprire, perlustrare e amare.

Immagine: Opera di Teresa Maresca.

 

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (“XII Quaderno italiano di poesia contemporanea”, Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).

 

 

 

REPUBBLICA/ CULTURA — 23 SETTEMBRE 2019–pag. 25

https://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20190923&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2

 

 

CULTURA

La nuova raccolta di Maurizio Cucchi

Il privilegio dell’idiota in cerca di poesia

di Paolo Mauri

 

 

 

 

 

Verso la fine della sua ultima raccolta, che si intitola Sindrome del distacco e tregua, Maurizio Cucchi serenamente confida: «La poesia ha parole pesanti/ che in queste strane pagine/ sembrano mobili e leggere./ Viaggiano quasi imprendibi-li,/ cangianti, e disorientano/ la nostra vecchia mente di carta…» e poi chiosa: «La poesia/ chiede di spargersi e andare/ lieve e piana nel mondo,/ che forse non lo sa/ però la sta aspettando». Viaggiano dunque le parole e viaggia il poeta dentro e con le parole.

Sindrome del distacco e tregua è denso di itinerari e si percorre e ripercorre accompagnati da una musica di fondo, dal ritmo che tutto pervade. E la poesia sgorga anche visitando la devastata città di Pryp’jat dove si arriva navigando sulle carte di un atlante e guardando la fotografia di una vecchia che arranca per la strada. Il panorama è spettrale, si tratta nientemeno dei resti della città costruita nel 1970 e bruciata dalla centrale atomica di Cernobyl’. A un certo punto la carta geografica subisce una metamorfosi, appare «un intrico di terra, boscaglia e di palude/ che quasi mi inghiottiva nel suo verde/ e ocra…». C’è un fantasma che, dicono, si aggira da quelle parti, «le lunghe dita bianche, la faccia/piatta ». Dalla terra avvelenata sono scappati tutti quelli che potevano, ma qualcuno è ritornato, tanto la vita è corta lo stesso e al più si cerca la frutta col verme, perché vuol dire che non è contaminata.

Dunque la poesia si fa racconto. In un attimo Cucchi ridiventa il bambino che era stato (e che continua ad essere nel fondo della memoria): «Ero sereno nel mio lettino/ nella mia cameretta così nuova… ». Immagina nel buio della notte incontri straordinari con animali che sembrano prendere vita da un disegno infantile: «Io avevo la mia clava bene in pugno,/ ma osservandolo negli occhi,/ negli occhioni spalancati di stupore» prova un sentimento fraterno che induce al sorriso. Ritroveremo ancora il bambino che esplora frammenti di mondo sulle carte geografiche, deluso dal fatto che non ci siano più paesi fantastici, ma anche il Cucchi lombardo, già autore di un volume di prose intitolato La traversata di Milano, e qui intento a rovistare in certe periferie una volta campagna dove trova la villa abitata dal Petrarca e certe cascine dai nomi che gli appaiono belli: «Monluè/ naturalmente, e poi Sellanuova, Merlata/ Monterobbio, Casanova, Taverna» fino alla Martesana costeggiata «da quella strada adatta al vero,/ al vero uomo, al classico viandante».

Sindrome del distacco e tregua è un libro complesso, ma non più di un diario di tanti giorni diversi. Voltiamo pagina e siamo a Nizza, ad esplorare certe strade e a interrogare scritte e nomi. Il capitolo nizzardo si apre con una dichiarazione d’amore per le venditrici del mercato che «hanno parole di terra, aspre parole/ perdute». E Michelline «la vecchia pescivendola arguta/ biondastra; sorridente mentre taglia,/ fiera e ghignante mentre incarta/ e urla, ma con moderazione ». Chissà se guardandola ha fatto balenare all’autore l’immagine della Ninetta portiana col suo banco di pesce al Verzee di Milano. Ma le vie di Nizza hanno molte storie da raccontare, anche curiose, come la targa che commemora un poeta locale di nome Juli Eynaudi o, poco oltre, un’altra che ricorda Rosalinde Rancher, che scrisse un poema eroicomico presente nella biblioteca di Garibaldi a Caprera. Dunque la storia maggiore o minima si affaccia e prende corpo per poi svanire come l’ immagine labile di una Madonna sul muro. Ma ecco che nell’ultima sezione, intitolata Un idiota sociale , l’io che scrive dichiara: «Sono tornato principiante/ e lo considero il mio solo privilegio./ Godo, infatti, di un presente che sorride/ aereo a una nuova idea di movimento,/ di apertura a un possibile futuro».

Forse è questa la condizione ideale per pescare nel fondo delle parole l’enigma fascinoso della poesia che il mondo non sa di aspettare. E ancora una volta ecco che Cucchi si rimette in caccia: immagina viaggi “immaginari e liberi” e insegue parole “ardue e basse” come quelle che qui trascrivo: «sgagnare, sbroffare, scorlire, /sfrisare, scarpare, spantegare/ e persino strasare». E mentre interroga il muro di una casa con un minimo balcone, riprecipita là «dov’era il letto più morbido del mondo, di piuma, dove felice o col magone sprofondavo ». Sì, ancora una volta l’infanzia. Ma qualcosa la turba fortemente, sicché «poi mi sono guardato allo specchio e ho rivisto il volto di mia madre, mentre lui aveva/ una mano mangiucchiata dai topi nel bosco». Sindrome del distacco e tregua interroga il lettore, come sanno fare i libri di poesia autentica che non si concludono con la fine perché la loro trama si riavvolge e la fine potrebbe essere un inizio. Come qui, dove un flash enigmatico recita: «Verso la fine o poco prima/ seduto al piano aveva detto:/ ero così contento…». E si capisce che il verso contiene una tragedia imprevedibile, forse l’arco di volta di una vita intera.

Il libro

Sindrome del distacco e tregua di Maurizio Cucchi (Mondadori, pagg.112, euro 18)

 

 

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Paolo Mauri (Milano9 gennaio 1945) è un critico letterario e giornalista italiano.

Laureatosi in Lettere all’Università la Sapienza di Roma con Natalino Sapegno e Alberto Asor Rosa, ha pubblicato a 26 anni il primo lavoro critico su Carlo Porta (Milano, Ceschina, 1971) e iniziato a poco più di trent’anni, nel 1977, a collaborare con La Repubblica, della cui pagina culturale è responsabile. Accanto all’attività giornalistica continua a coltivare quella di critico letterario con una lunga serie di monografie e di edizioni dedicate soprattutto agli “scrittori del nord” (Luigi Malerba, ancora Carlo Porta, Guido GozzanoErnesto RagazzoniOttiero OttieriEnrico FilippiniGiovanni Comisso, ma anche di scrittori-pittori come Scipione, e Toti Scialoja. Ha inoltre diretto la rivista letteraria Il cavallo di Troia (198189). Tra i numerosi premi letterari vinti si ricordano il Premio Cesare Pavese nel 1998 e il Premio Viareggio nel 2007.

(WIKIPEDIA)

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