2 gennaio 2012 ore 17:47 Uno scritto di Chiara di tanti anni fa, ma il mio rapporto con l’ambiente (oggi 2013) e’ rimasto lo stesso (“tocca a me”), senza più l’illusione di una modificazione in meglio…in peggio, forse!

chiara: l’estrema immodificabilità dell’ambiente a voi intorno…

mario bardelli, portone, carbonino su tela

 

 

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(la parte precedente si trova in 15 agosto 2011)

da 6.1

….

Curare un malato, infatti. mentale non può che essere uno sforzo collettivo di esperti e non esperti, dal momento che si tratta di costruirgli intorno un ambiente correttivo e corretto: se qualcuno si ammala la responsabilità è sia sua che dell’ambiente -ammesso che esista la responsabilità di nascere con un certo patrimonio genetico-  Entrambi, il malato e i famigliari (“i vicini”), devono operare un lavoro, uno sforzo di energia per curare la malattia e diminuire le probabilità che questa si ripeta. Ed entrambi sono prima di tutto soggetti del cambiamento promosso, oltre che oggetti, in armonia con quegli altri soggetti che sono i vari professionisti, psichiatri e terapeuti, infermieri, assistenti sociali, accompagnanti, amici ecc.

 

Purtroppo ancora oggi, anche se varie filosofie ci guidano all’interdipendenza tra persona e ambiente (e in questo caso ambiente sono soprattutto le persone che abbiamo intorno a noi), di fronte ad un malato mentale tutti gli sforzi si concentrano su di lui, tutti i nostri fari lo illuminano senza considerare il fatto decisivo che l’ambiente va curato con altrettanto assiduità e competenza.

Non si può far nulla, infatti, per un malato lasciando invariato il suo ambiente perché là dove il professionista corregge, l’ambiente disfa,  e se ci arrendiamo di fronte a quella che può sembrare un’impossibilità, l’impossibilità cioè di coinvolgere corresponsabilmente familiari insegnanti ed amici, dobbiamo sapere che obblighiamo, proprio chi si è mostrato più vulnerabile, ad un lavoro doppio che, a me, che l’ho dovuto fare, pare una crudeltà: un infierire proprio su chi è già stato colpito facendogli fare anche quegli sforzi di trasformazione che spetterebbero ad altri.

In questo triste caso, allora, il malato dovrà così curarsi contemporaneamente su due fronti che sono solo schematicamente distinti: 1.  trasformare il suo essere e insieme-grossolanamente parlando- quegli schemi comportamentali e culturali che l’hanno portato alla malattia. 2. ma dovrà anche modificarsi in funzione di persone che, intorno a lui, non accettano di mettersi in gioco: dovrà quindi (mentre cura se stesso) lottare e trasformarsi non solo in funzione della sanità, ma in funzione dei suoi “vicini” finché non avrà imparato a convivere bene con loro, brave persone, senz’altro, ma diciamo anche chiaramente “non propriamente sane”, visto che sono responsabili, per la loro parte, della malattia.

 

Tutto quello che sto dicendo parrà, a voi che mi ascoltate, senz’altro ovvio, ma devo dire con molta fermezza che ovvio non è.

 

Salvo rari casi, solo il malato è messo in discussione perché proprio il non voler sapere della nostra, pur parziale o minuscola, ”malattia”, ci mette una benda sugli occhi facendocelo vedere quale unico responsabile, come fosse una pianta cresciuta in vitro, sradicata dal suo habitat e automaticamente determinata dal suo codice genetico che, invece, di automatico, in questi casi, non ha proprio nulla.

Ma noi, spesso laureati, che abbiamo orecchiato qualche diceria scientifica, siamo convinti, nella nostra ignoranza, di sapere il vero, e difendiamo a tal punto la nostra tranquillità da non rivolgerci neanche agli esperti per sapere come funzionano l’ereditarietà e l’apprendimento, intuendo che potrebbero dirci cose sgradite.

 

Intorno a me (come intorno ai malati da me conosciuti), nessuno si è mai fatto venire il dubbio di aver collaborato alla mia malattia né nella prima crisi di “mania” (stato di eccitazione del disturbo bipolare), dove vivevo in un certo ambiente, né nelle quattro che ho avuto nei successivi vent’anni, in cui vivevo con persone diverse, e, ancor meno, perché meno disturbanti per l’ambiente, sono sorti dubbi nelle varie depressioni che sono seguite a queste.

 

In conclusione, il peso delle trasformazioni, mie e dell’ambiente, è ricaduto su di me, anche se questo non esclude che l’ambiente in alcuni casi abbia risposto positivamente alle mie sollecitazioni.

 

Come racconto in un’altra parte, nel compiere un’azione sull’ambiente, mi è toccato di vivere (esattamente) una fatica di Sisifo: ho avuto, infatti, la sensazione di portare sulle spalle un masso di marmo, quasi inamovibile, e immodificabile, su su fino alla cima di un monte, e ho visto che puntualmente rotolava giù alla minima distrazione mia o  ricaduta, anche piccola, nei miei comportamenti sbagliati: quasi sempre, inoltre, senza avere la consolazione di potermi accorgere che minuscole modificazioni in meglio avvenivano nell’ambiente, anche se spesso, come si dice, al ritmo di “un passo avanti e due indietro”.

Anche oggi che la mia situazione è molto migliorata, la mia lotta continua perché le persone intorno a me non hanno alcuna motivazione propria a migliorarsi se non in funzione del rapporto con me, perché nessuno li ha mai chiamati in causa, quando addirittura non li hanno rassicurati sul loro giusto e sano comportamento.

 

Siamo tutti preda, esperti compresi, dei nostri poveri strumenti culturali che, se hanno una funzione di verità, una verità sempre in evoluzione mai certa, che dovrebbe farci umili e avveduti dei possibili errori, di base servono a proteggere le nostre emozioni e a garantire le nostre sicurezze personali, vere o fittizie che siano, tramite un miscuglio di verità e di schemi ideologici o pregiudizi mai verificabili che trovano una ragione di esistere solo all’interno della nostra specifica storia. Questa intelaiatura mentale ha principalmente la funzione di garantire la nostra sicurezza emotiva. Alcuni le chiamano “illusioni”, ma non si tratta di qualunque illusione, che può anche non avere ricadute immediate sugli altri, io mi riferisco precisamente a quelle che Ibsen chiama “illusioni vitali”, ossia a quelle false spiegazioni di fatti della nostra vita, o aspetti del nostro carattere, senza le quali non potremmo vivere tranquilli. O,meglio, non vogliamo neanche a provare a vivere. Stiamo in piedi perché la nostra testa, e il racconto che ne facciamo a noi stessi, è lassù in alto, ben lontano dalla concretezza della nostra realtà viva, avvolti di nuvole bianche e spesse come in un quadro di Magritte.

Per questo è “quasi” impossibile demolire “le nostre verità”, in cui crediamo come nella squadra del cuore: dico “quasi”, perché se entrano in violento conflitto con altri sentimenti vitali del soggetto, questi può, a volte, intraprendere l’ostico lavoro di rivederle e aggiornarle al sentimento presente che è diventato più importante.

 

Per spiegarmi l’esempio che mi viene chiaro in mente è l’odio che, per secoli, ha sempre perseguitato gli Ebrei: la caratteristica che destava questo sentimento distruttivo, era una  diversità dei loro costumi da quelli dei popoli con cui pacificamente convivevano. Anche gli psicotici si esprimono con una lingua diversa e hanno dei comportamenti che per noi sono assurdi. Le spiegazioni che venivano portate, allora, a giustificazione degli eccidi, erano irrazionali e  del tutto inaccessibili alla critica, come sono sempre le illusioni che ci permettono di sfogare i nostri impulsi più immediati, quelli che sarebbe intollerabile tenerci dentro per la confusione e le angosce che causano sempre: bisogna, quindi, espellerli su qualcuno. Questo qualcuno è sempre colui che ci offre il miglior pretesto in base alla nostra ideologia o insieme di schemi pregiudiziali, quelli sui quali non vogliamo-possiamo esercitare il pensiero che parte dai dati di fatto. In generale, questo qualcuno su cui scarichiamo le nostre passioni, ci dà la certezza di non intraprendere ritorsioni su di noi: è quindi obbligatoriamente una persona più debole di noi.

 

Così fanno anche i malati mentali quando non riescono a digerire le loro emozioni (pensarle), ma attenzione: così fanno su di lui i famigliari sani (e gente varia, anche insegnanti, e a volte anche tecnici) quando si trovano davanti ad un comportamento del malato per loro intollerabile.

Le spiegazioni che danno sono dello stesso tipo logico che venivano date per gli Ebrei, ossia fantasie senza costrutto: il malato vuole assalirmi, ha gli occhi pieni di furore omicida… o “sta per buttarsi dal ventesimo piano”, come hanno detto di me quando hanno deciso di ricoverarmi. In verità io non ne avevo la minima intenzione, non mi era neanche passato per la testa. Se me l’avessero chiesto prima di decidere, l’avrei detto subito, ma è stato più immediato valutare secondo i propri schemi abituali. E’ stato possibile, anche per persone di buon senso, diciamo così, perché io, come persona, non contavo più niente visto che avevo dei precedenti: ero già stata ricoverata alcuni mesi prima e etichettata dallo psichiatra quale malata mentale.

 

Una cosa che fa “scattare” in avanti le nostre difese (schemi) è principalmente l’imprevisto e l’ansia nelle sue varie gradazioni, soprattutto quando ci sentiamo responsabili degli eventi o di una persona che noi vediamo in pericolo. E quest’ansia è sempre compagna della precipitazione, che ci fa credere di dover risolvere una situazione anche senza aspettare che vengano alla luce dati sufficienti per riflettere su cosa è meglio fare.

 

Aspettare con ansia, e con molta ansia, è veramente difficile e nessuno ci ha allenato a farlo, quando sarebbe una delle ginnastiche mentali più proficue per evitarci grossi sbagli. Sbagli che puntualmente facciamo e puntualmente ripetiamo. A meno che qualcuno ci corregga. A questo dovrebbero essere educati soprattutto i genitori (e a volte anche gli esperti), a capire e disciplinare la propria ansia e, in secondo luogo, a saper aspettare che, come si sa, è un’arte che si acquisisce.

 

Per vincere l’ansia ci aiuterebbe, tra tante altre cose, sapere che non siamo mai assolutamente responsabili di una persona o di un evento a meno che la persona sia un bambino.

Per evitarvi tante parole, racconto adesso di un mio paziente, Marco: vive con un più o meno debole delirio di persecuzione che lo segue e gli fa da compagnia, ma per due volte, un certo giorno, in una seduta, ho osservato che il delirio peggiorava rapidamente al punto da temere una crisi.

 

Io stessa, che ho piena fiducia nelle capacità “realistiche” di una parte della mente anche malata, ho dubitato dell’opportunità di parlargli francamente; voglio però dire meglio: parlargli  “come parleremmo a noi stessi” (unica postura, questa, che ci permette di farci capire attraverso il delirio, anche se, per essere efficace, non può essere “recitata”, anche fosse in maniera apparentemente convincente: il malato “tasta” meglio di noi il nostro inconscio).

 

Temevo con le mie parole di causargli una impressione troppo forte, forse un piccolo trauma che avrebbe potuto farlo peggiorare.

Ma poi la fiducia in lui (nei malati mentali in genere) ha avuto la meglio.

Gli ho parlato.

Con garbo, con molto affetto e, soprattutto, con precisione di linguaggio, e poche parole, per non fargli rimbombare ulteriormente la testa, già frastornata dal delirio, ma anche con la serietà dovuta al pericolo presente: “mi pare che tu ti stia avviando su una strada pericolosa per la tua incolumità, forse non ti accorgi del pericolo, ma il delirio è aumentato, devi raccogliere tutte le tue forze e opporti, appoggiati a me, ma bisogna lottare: c’è il semaforo rosso” (racconto in seguito la seduta).

 

Questo mettere le carte sul tavolo aveva la funzione di chiamarlo ad una sua precisa responsabilità, o meglio, ad una sua corresponsabilità con me che lottavo al suo fianco, nella consapevolezza sua e mia,  però, che lui era il protagonista.

 

In una terapia, come con un amico che chiede il nostro aiuto, sappiamo anticipatamente – in base alla nostra esperienza personale – che la possibilità di dare esito positivo a quella che è una vera e propria battaglia tra la parte sana e la parte malata (schematicamente, esiste una scissione tra una parte che vuole affrontare il pericolo e un’altra che non ha il coraggio di farlo), noi sappiamo, dicevo, che la vittoria nasce principalmente dal  “responsabilizzare” la persona in causa. “Farla passare da una posizione passiva ad una attiva”.

Ma cosa vuole dire questa parola? Lo posso dire solo riassumendo il mio comportamento – dato un certo obbiettivo – in quella occasione.

 

Dobbiamo fare in modo che la persona si ponga in modo attivo di fronte a quella situazione che lo spaventa così tanto da doversela occultare, e può farlo (può anche non farlo, o meglio, può aver bisogno di tempo e strumenti e rassicurazioni successive per “una decisione inconscia” difficile da assumere) solo quando capisce che o lo fa lui o non lo fa nessuno.

Contemporaneamente, attraverso i nostri suggerimenti, si deve convincere che ora le cose gli sono un po’ più chiare: sa più o meno dove vuole andare, sa soprattutto che non vuole vivere in questa angoscia, mentre l’ansia si affievolisce piano piano verificando che il quadro si schiarisce, ma soprattutto sapendo con certezza (una certezza emotiva che tocca a noi dare) che non l’affronta da solo. Deve sapere, con certezza assoluta (quella dei sentimenti) che noi siamo due compagni di lotta, legati da un patto di sangue (queste parole le dico a voi per farmi capire) e che io mi rimbocco le maniche tanto quanto lui.

E’ lui il condottiero, ma deve anche sapere che posso “trasportarlo come un pacchetto” sulle mie braccia, se ciò si rendesse, in certi punti, necessario. E devo farlo in modo da non togliergli la bandiera del comando (della responsabilità ad agire).

 

Provando ad usare altre parole: deve lottare in prima fila assumendo fino in fondo la sua parte: non lo fa da solo,  le nebbie che gli rendevano la situazione sconosciuta sono più rade, si è dotato di strumenti – da usare insieme, ma sono prima di tutto suoi – per togliersi da quel terribile stato d’animo di non saper che pesci pigliare; lo abbiamo ripetutamente rassicurato – usando la sua storia, gli avvenimenti passati che  dimostrano nei fatti che può farcela; gli prospettiamo con ampie parole come si sentirà meglio uscendo da quel terribile tunnel. Avere un obbiettivo luminoso è, infatti, un fattore decisivo, come già diceva il Machiavelli, e funziona anche sapendo che di fatto non la troveremo tutta quella luce (questo è, tra l’altro, un esempio chiaro dove l’illusione-suggestione ha una funzione positiva, indispensabile, perché ci dà spinta e voglia di arrivare).

 

Con il tono di voce, l’espressione del viso, magari appoggiando le nostre mani sulle sue, gli dobbiamo certificare che capiamo il suo dolore, il panico, la confusione, e la “sentiamo in noi” – oggi come in altri periodi della nostra vita. Quest’azione, che si potrebbe chiamare “prendersi carico” della sua angoscia, lentamente dovrebbe avere l’effetto di diminuirla…perché già ci siamo noi a patire…

 

A questo proposito, in un’altra parte del libro, ho raccontato una di quelle storielle ebraiche che ci risultano sempre deliziose per il loro umorismo “sapiente”: la ripeto rapidamente in questo contesto per spiegarmi: una coppia, è notte, sono a letto, ma la moglie non ce la fa a dormire perché il marito si agita senza posa . Ad un certo punto si alza. “Adesso, Joaquìm, mi dici cosa c’è”: “Domani mattina devo pagare Jacob e non ho un soldo”. La moglie si alza, apre le finestre che danno sul giardino dell’amico e gli grida di svegliarsi finché questi appare: “domani Joaquìm non ti paga”. Chiude le imposte  e rivolta al marito con decisione: “Adesso dormi perché a dannarsi c’è già lui!”

E’ proprio questo il meccanismo che permette ad un malato (e ad un sano in certe circostanze) di diminuire e addirittura, certe volte, liberarsi dell’angoscia. Non è così difficile imparare a farlo, moltissimi di noi lo fanno spontaneamente, appena un po’ guidati, molti famigliari potrebbero imparare a farlo avendo anche la felicità di verificare che il loro caro diventa più “gestibile”, per usare una brutta parola molto in voga.

 

Tutto quello che ho scritto fin qui, lo voglio sintetizzare in un’unica espressione che caratterizza l’essenza del nostro agire con Marco: l’abbiamo chiamato ad essere una persona, pur molto malato, e glielo abbiamo reso possibile.

 

In questo caso, ho avuto la verifica che avevo fatto la scelta giusta “fidandomi” di lui, perché due o tre giorni dopo mi ha telefonato dicendomi che tutte quelle “cose strane” che gli erano apparse erano diminuite e che riusciva, a momenti, a respirare un po’ meglio (credo inutile aggiungere che Marco vive sotto farmaci che, in questo caso, però, non erano stati aumentati).

 

 

 

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