Anno edizione: 2019
In commercio dal: 4 aprile 2019
Pagine: 171 p., Brossura
prezzo pieno, 15 euro
“Abbiamo troppe cose, io e Maria. E in generale, checché se ne dica, abbiamo troppe cose tutti quanti.”
Furibondo per la bocciatura di un suo brillante progetto di legge, Attilio abbandona la carriera politica e si ritira in montagna, tra boschi e trattori. Condivide le sue giornate con la piccola comunità agreste che lo circonda: la vita all’aperto è la sua guarigione. Ma i ricordi incombono. Hanno la forma immateriale dei rapporti personali irrisolti, delle parole sprecate in televisione, delle occasioni perdute quando viveva in società. E hanno l’ingombro fisico degli oggetti che il passato ha accumulato attorno a lui. Casse e casse di libri, lettere, fotografie, documenti, mobili tarlati, cianfrusaglie. Il canapè di zia Vanda, liso e minaccioso, è il condottiero indiscusso di quello che Attilio considera un esercito invasore. Vorrebbe liberarsi di quelle cataste e comincia a progettare roghi, per ridurre in cenere il lascito minaccioso delle vite altrui. Sogna leggerezza, un cammino più spedito, più libero, sollevato dal ricatto della memoria. Fatalmente, brucerà quello che non avrebbe dovuto bruciare, in un finale di partita segnato dal classico colpo di scena e dominato dalla presenza delle donne: una moglie sempre in viaggio, la sorella femme fatale, la vicina di casa bulgara. Attraverso l’eroe attaccabrighe e insofferente del romanzo, Michele Serra guarda allo spirito dei tempi facendone emergere la rabbia, l’inconcludenza, la comica mediocrità. Ma anche le piccole illuminazioni che salvano la vita.
REPUBBLICA DEL 6 APRILE 2019 –pag.
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Il romanzo
Guerra e pace di un ex politico in fuga dai social
NADIA TERRANOVA
“Le cose che bruciano”, il nuovo libro di Michele Serra, racconta l’esilio agreste di un uomo scappato da un’ondata di odio in Rete. Vittima del sistema?
Non solo: come ci dice l’autore, dentro ognuno di noi c’è il bisogno di un nemico
«Progetto roghi e paci, paci e roghi, e il nesso mi sembra evidente: in entrambi i casi si tratta di ingombri da smaltire, trapassi da compiere da uno stato al seguente», dice Attilio Campi, ritiratosi dalla politica dopo essere stato il bersaglio di un ordinario linciaggio da social network, una di quelle gogne in cui non importa chi ha torto o ragione; per nausea Campi si è dato alla coltivazione dello zafferano nell’amena località di Roccapane, dove ha deciso di godersi i piaceri dell’asocialità. I fantasmi della sua prima vita, però, gli sono rimasti intorno, irrisolti e minacciosi, diventano fantasie di fuochi o di riavvicinamenti e forse è la stessa cosa: è un sollievo far ardere ogni oggetto del passato, ogni screzio dissennato, ogni ricordo che tortura, e trovare infine una conciliazione nell’immagine del fumo che sale su, cioè nella dimenticanza. Dei fantasmi che Le cose che bruciano, il nuovo libro di Michele Serra, evoca in un corpo a corpo, il primo e il più contemporaneo è quello del nemico che siamo noi a nutrire, quello che non abbiamo mai avuto bisogno neppure di incontrare, ci interessava solo odiarlo montando e rimontando le nostre paranoie. In qualità di presidente della Commissione Educazione e Cultura, Campi aveva suggerito di reintrodurre la divisa scolastica per liberare i ragazzi dal dovere dell’originalità a tutti i costi («se avevo proposto l’uniforme per gli studenti era proprio per rimediare a quella forma subdola di banalità che è l’anticonformismo: mettiti addosso questa, ragazzo, così per un po’ non devi più perdere tempo a distinguerti a tutti i costi.
Puoi pensare a chi sei, non a quale felpa metterti»). In rete nessuno aveva capito il senso di quella proposta (sui social il tempo dell’urgenza di dire la propria opinione è sempre inferiore a quello necessario a formarsene una) ed era partita la gogna.
Attilio Campi, lo sventurato, aveva risposto, anzi: si era messo a rispondere uno per uno ai nomignoli inferociti; per il gusto della battuta si sarebbe fatto spellare, mentre l’odio della folla manzoniana raggiungeva l’apice e la solita legge dell’autoesclusione degli intelligenti si compiva. Ma siccome nessuno ha mai soltanto ragione e siamo sempre, insieme, vittime e aggressori, pure se immaginari, soprattutto se immaginari, nel suo buen retiro anche Attilio replicherà il fantasma di un nemico: nella solitudine agreste, lontano dalla televisione, da internet, dalla moglie in viaggio (quasi solo una voce nel telefono), lo tormenta il ricordo di Ettore Mirabolani, uno che di lui ha scritto che lavorava «al soldo del potere». Attilio ha odiato Mirabolani che lo attaccava, come gli sconosciuti di internet hanno odiato lui attaccandolo; non l’ha mai visto e fantastica di incontrarlo fino a materializzarlo in una visione, ma l’ossessione ora lo spinge alla pace, perché «libertà è un rogo ben congegnato» e per sollevarsi dall’affaticamento bisogna bruciare tutto ciò che è vecchio, anche l’odio. Sarà vera tregua, questo desiderio di non avere nemici, oppure il raggiungimento dell’arroganza suprema, quella di voler piacere a tutti? Le cose che bruciano è il racconto di una voce maschile attorniata da donne (la mia preferita è Lucrezia, la sorella, seduttrice e portatrice di verità imbarazzanti), ma le più fantasmagoriche presenze nel romanzo non sono umane, sono gli oggetti, sono le foto scontornate dentro gli album, gli utensili ereditati e inutilizzabili, gli scatoloni che svuotano e riempiono le case di famiglie con la loro domanda assillante: chi sei, chi sei stato, chi vuoi essere. Alla crudeltà dell’amputazione, Serra preferisce il movimento irrequieto della fantasticheria; leggerezza non è tanto eliminare quanto sognare di farlo, è cullarsi, rimpiangere, promettersi.
Leggerezza è voler comprare ciò che all’improvviso è diventato necessario, è invocare un oggetto di cui fino a poco prima non si sapeva neanche il nome, una sarchiatrice meccanica, e poi vedere di nascosto l’effetto che fa. Leggerezza è starsene da un’altra parte, lontano da tutto, anche dalle nostre ragioni. In Attilio Campi che si autoesilia come fosse un personaggio di Pessoa c’è la consapevolezza che essere nel giusto e affermare, pretendere di esserlo non sono la stessa cosa, anzi: la seconda può ridurre la forza della prima. Poi, sul finale, Le cose che bruciano si trasforma in una domanda sull’identità e i suoi confini: chi è davvero Attilio Campi, e che cosa significa essere un figlio? La risposta è una canzonatoria demolizione delle certezze biologiche della cosiddetta famiglia naturale, una risposta che si ripete uguale e segreta dalla notte dei tempi e fa vacillare il protagonista. Intanto, nello scorrere onirico delle stagioni, al fuoco si è sostituita l’acqua: ci sono gli odori saliti dalla terra innaffiata, il tubo che smuove i microrganismi e antropomorfizza i vegetali, l’acqua condensata nelle nuvole, il presagio di una pioggia in ottobre. No, non è ancora il tempo giusto per la pira, si ripete ogni giorno Attilio Campi – e anche il lettore comincia a vederla come un miraggio mentre l’oppressione degli oggetti si fa assedio insostenibile. Se la vita non è altro che l’arte di perdere le cose, come scriveva la poetessa americana Elizabeth Bishop, questo romanzo malinconico, ironico e ossessivo ce lo mostra in tutta la sua crudele, allegra inevitabilità.