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Eliane Elias: en un lugar de la Mancha
di Alceste Ayroldi
Dopo ventitré anni appare un disco «perduto» dell’eccellente pianista brasiliana Eliane Elias, nel quale figurano stelle come Eddie Gomez, Marc Johnson e Jack DeJohnette. Ecco i retroscena di questo insolito ritrovamento.
Signora Elias, parliamo di «Music From Man Of La Mancha». Un disco che è appena uscito dopo essere rimasto nel cassetto per ben ventitré anni.
In effetti lo registrai nel 1995. A quel tempo avevo in mente un progetto prevalentemente strumentale. Poi ricevetti una telefonata dall’assistente di Mitch Leigh. Sapevo che era il compositore delle musiche del musical Man Of La Mancha, che ha vinto cinque Tony Award, ma non lo avevo mai incontrato prima. Organizzammo un incontro presso il mio appartamento di New York. Rimasi colpita dal fatto che fosse un tipo molto simpatico che fumava il sigaro, elegantemente vestito, ma casual: una persona molto interessante. Mi disse che aveva ascoltato tutti i miei lavori incisi per Blue Note, che gli piaceva moltissimo il mio lavoro e come lavoravo con gli altri compositori, per esempio António Carlos Jobim, Ivan Lins, Milton Nascimento. Mi disse che aveva un sogno: che io facessi altrettanto con la sua musica, che la interpretassi alla mia maniera. Così mi lascio il cd con le musiche originali e iniziai ad ascoltarlo. Erano musiche che non avevo mai sentito prima, ma capii subito di poterci far sopra qualcosa, di volermi cimentare con quella sfida. Così iniziai a lavorare sugli arrangiamenti, scegliendo nove dei quattordici-quindici brani presenti sul cd. Al termine, chiamai Mitch per fargli ascoltare ciò che avevo scritto. Lui venne a trovarmi a casa, lo feci sedere vicino al pianoforte e iniziai a suonare. Mitch si emozionò e mi diede ampia libertà di azione negli arrangiamenti, nelle armonizzazioni. Quello che volevo raggiungere era di rendere personale la musica di quel lavoro, vicina alle mie idee ma nel maggiore rispetto del compositore e della concezione di fondo. Ho salvaguardato le melodie composte da Mitch ma le ho personalizzate con una mia introduzione e con delle armonizzazioni che rispecchiassero anche le tinte brasiliane a me care. A volte ho creato dei pedali, ho armonizzato ogni nota di una melodia, ho anche usando le modulazioni per costruire emozioni e portarle a un punto culminante. Ma, ritmicamente parlando, ci sono brani in cui mi sono servita di diversi ritmi brasiliani. A Little Gossip è un tipo di ritmo che usiamo nel nord-est del Brasile. Per The Impossible Dream, la mia idea era di farlo come un samba. Ed è un samba con modulazioni che vanno sempre più in alto, per poi rilassarsi alla fine. Mitch adorava l’accordo finale. Tutte queste soluzioni gli piacquero moltissimo.
Perché ha atteso tutto questo tempo prima di pubblicarlo?
Al termine della registrazione ero felicissima e la inviai subito alla mia casa discografica, la Blue Note. Ma era Mitch Leigh il titolare dei diritti dei brani, in qualità di autore, e non la Blue Note; e io ero sotto contratto in esclusiva con la Blue Note. Mitch si volle prendere del tempo ma, per una ragione o per l’altra, non arrivò mai l’occasione giusta per pubblicare il disco. Poi Mitch è deceduto. Quando ebbi l’occasione di parlare con suo figlio, lui mi disse che il padre ascoltava sempre l’album e lo faceva ascoltare a chiunque andasse a trovarlo. Mitch era particolarmente orgoglioso di questo lavoro e amava far ascoltare come avessi arrangiato la sua musica. Così si è raggiunto un accordo con la famiglia di Mitch Leigh e il disco è qui! Lo so che sono passati tanti anni, ma penso che questa musica sia senza età e ritengo che abbia un sound molto contemporaneo. Tra l’altro, credo che si tratti del primo album interamente strumentale mai tratto dalle musiche di Man From La Mancha, un musical conosciuto a livello mondiale. Ovunque le suoni, per esempio in Giappone, tutti le apprezzano. Quando l’album è stato pubblicato negli Stati Uniti, è entrato in classifica già nella prima settimana. Eppure è un album strumentale. Bisogna tener conto che non conoscevo bene la musica di questo lavoro, fatta eccezione per Impossible Dream che avevo ascoltato anche nel film di Arthur Hiller con Sophia Loren e Peter O’Toole.
E quindi con quale criterio scelse i nove brani presenti nel suo disco?
Principalmente per istinto, già dalla prima volta che ascoltai le musiche. E, di conseguenza, ho cercato di seguire un criterio legato agli arrangiamenti – per i quali avevo due differenti trii con cui collaborare – e, ancora, quello che ritenevo fosse il miglior modo per raccontare strumentalmente la vicenda di Don Chisciotte.
Ma lei si sente più vicina a Don Chisciotte o a Dulcinea?
A entrambi! Mi riferisco alla trasposizione cinematografica, ovviamente, dove Cervantes è Don Chisciotte interpretato da Peter O’Toole. Amo di Don Chisciotte la visione del mondo. Per esempio, quando vede Dulcinea, immediatamente la reputa meritevole di amore, di rispetto e se ne innamora. Ma lei è una prostituta. La sua visione della vita, di vedere la purezza o qualcosa di buono in ogni essere umano, penso che sia qualcosa che anch’io mi porto dentro. Così come Dulcinea, anche se è una «cattiva ragazza», ha un suo lato buono.
Perché utilizzò due formazioni?
Innanzitutto a Mitch Leigh piaceva moltissimo il mio disco «Eliane Elias Plays Jobim», che avevo registrato con Eddie Gomez al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. Così, visto che alcuni arrangiamenti che avevo scritto erano perfetti per questo trio, decisi di inciderli con loro due. Ma il mio trio dell’epoca era con Marc Johnson al contrabbasso e Satoshi Takeishi alla batteria, un gruppo col quale giravo parecchio esplorando differenti soluzioni ritmiche che erano perfette per gli arrangiamenti di altri brani, soprattutto con l’aggiunta di Manolo Badrena alle percussioni. Non volevo creare un dream team, per questo preferii ripartire brani e gruppi. Scelsi anche il mio studio di registrazione preferito a New York: il Power Station, dove c’era tutto quello che mi serviva. L’atmosfera era meravigliosa e tutto andò per il meglio.
Qual è stata la sua impressione nell’ascoltare questo lavoro dopo tutti gli anni che sono passati?
È stato come ritrovare qualcosa nella in fondo alla borsetta dopo tanto tempo! Molti miei fan sono stati felici di potermi riascoltare impegnata solo al pianoforte.
È vero che a quindici anni lei già insegnava pianoforte e improvvisazione?
Sì, sono stata quella che si definisce una bambina prodigio! Sono stata in Giappone la scorsa settimana e Sadao Watanabe mi ha raccontato che, quando andò in Brasile nel 1969 rimase colpito da una ragazzina che suonava il pianoforte, per il suo approccio con la musica: quella ragazzina ero io. Mi accorsi subito che per me era facile accostarmi alla musica e al pianoforte: era un dono che avevo ricevuto da Dio. Quando avevo quindici anni, ero già diplomata e iniziai subito a insegnare in un’importante scuola brasiliana dove conobbi moltissimi grandi musicisti come Toquinho, António Carlos Jobim, Vinicius de Moraes.
Quando lei lasciò il Brasile aveva solo ventun anni. Quali erano le sue aspettative?
Le mie aspettative erano di andare a New York e suonare jazz. Incontrare i musicisti che avevo sempre ammirato e suonare con loro i brani che avevo sempre ascoltato. Ma era molto difficile, anche perché non parlavo inglese ed ero da sola. Avevo abbandonato una brillante carriera di musicista in Brasile, dove mi era capitato di suonare con tutti i più grandi musicisti del mio Paese, António Carlos Jobim, Vinicius de Moraes e tanti altri ancora. Quando arrivai a New York cominciai a farmi vedere in giro, a suonare, a partecipare alle jam session. E la comunità dei jazzisti newyorkesi mi accolse subito bene. Ebbi fin dal primo momento il rispetto dei musicisti e delle case discografiche e la mia carriera decollò all’istante. Molti avevano cercato di dissuadermi dall’intraprendere questa avventura, dicendomi: «Sei brasiliana, sei bionda e vuoi andare a New York. Il jazz è una musica da uomini, preferibilmente neri: tu cosa ci fai laggiù?». E invece la musica non ha genere, sesso o colore! Quando ti siedi a suonare, quel che importa è come suoni, indipendentemente dal tuo Paese di origine: è la musica a parlare per te. E con la musica tutte le porte mi si sono spalancate.
E, dopo poco tempo che era a New York lei si unì agli Steps Ahead, dei quali, tra l’altro, qualche anno fa avete anche tenuto una reunion.
Una delle prime cose che feci quando arrivai a New York fu di quella di registrare un mio demo tape da poter dare in giro, lasciare alle case discografiche, come si fa di solito. Prima di venire negli Stati Uniti, una volta che ero in tour in Europa, conobbi Eddie Gomez, che non avevo mai incontrato prima: fu lui a spingermi a trasferirmi negli USA dopo aver ascoltato certa musica che avevo arrangiato. Mi disse che a New York lui suonava abitualmente con Peter Erskine e, in seguito, fece ascoltare i miei arrangiamenti a Mike Mainieri, che era il leader degli Steps Ahead. Eddie mi disse che suonava in un gruppo con Peter Erskine alla batteria e Michael Brecker al sax tenore. Così mi feci viva con tutti questi ragazzi dicendo che avrei voluto suonare con loro. E loro risposero di non aver niente in contrario. Poi mi chiamò Mike Mainieri per dirmi che lui aveva già prodotto molti album ed era interessato a produrre anche il mio lavoro. Accettai e, quando ci trovammo in sala di registrazione, scoprii di essere in studio con gli Steps Ahead! Da non credere, ma era tutto vero. Fino a quel momento loro avevano registrato già tre album, ma solo per il mercato giapponese. Da lì in avanti ho fondato un trio e proseguito la mia carriera da leader. Circa due anni fa c’è stata una reunion degli Steps ed è stato molto bello poter suonare di nuovo assieme.
È stata un’esperienza che ha cambiato il suo modo di pensare la musica?
No, non ha cambiato la mia linea di pensiero. Ma ogni esperienza modifica comunque qualcosa in una persona, perché nulla è statico. Ogni cosa è stata importante nella mia vita, musica, persone, tutto quanto.
Cosa ricorda di quegli anni a New York? La scena newyorkese era più interessante rispetto all’attuale?
Sì, penso proprio di sì. La scena è cambiata parecchio, e direi non sempre in meglio. Quegli anni sono stati magici!
A proposito di scene musicali. Cosa pensa di quella attuale in Brasile?
A essere sincera, è meravigliosa! Il Brasile è un Paese immenso e puoi trovare una serie di influenze diverse a seconda della zona del paese, tutte di qualità. Le cose rispetto al passato sono cambiate, si sono evolute, ma quando torno in Brasile trovo tantissimi musicisti motivati e altamente professionali, che preservano comunque la tradizione musicale. Però alcuni di loro non hanno le stesse opportunità di altri musicisti. Oggi è difficile per tutti, perché l’industria discografica è cambiata e la gente compra poco i dischi, preferisce ascoltarli in streaming o con altre forme grazie a Internet. Molta gente, purtroppo, non si muove di casa, non va ai concerti e le giovani generazioni non apprezzano molto la natura del jazz, l’improvvisazione, l’atto creativo estemporaneo.
Poi arrivò il suo primo album da solista con Randy Brecker. Un lavoro in cui si ascolta la musica del suo Brasile, ma anche tanto groove. Cosa rappresenta questo disco per lei?
Randy veniva dall’esperienza dei Brecker Brothers e volle assolutamente che io cantassi in quel disco. L’album è dedicato a nostra figlia. Rappresenta quella che era la direzione che volevamo assieme imprimere alla nostra musica, anche negli arrangiamenti.
A proposito di Amanda, sua figlia, circa vent’anni dopo la ascoltiamo in «Made In Brazil» e sta seguendo le orme dei suoi genitori.
Amanda ha una bellissima voce e compone. Ha inciso un disco nel 2014 che è stato pubblicato in Giappone, ma non ama la vita del musicista. Ha visto e vede i genitori sempre in viaggio, sempre indaffarati. Preferisce una vita più comoda, diciamo. Suona a New York o in altre località vicine e, di tanto in tanto, si sposta più lontano. Non vuole vivere per la musica.
Nel 1986 è il turno di «Illusions», con la partecipazione di Toots Thielemans. Come nacque questa collaborazione e quali sono i suoi ricordi dell’armonicista belga?
Toots è stato importante per me sotto diversi aspetti. Era una persona meravigliosa e aveva un modo di suonare splendido, così melodico. Quando arrivai a New York e lo andai ad ascoltare gli dissi: «Toots, posso venire a casa tua? Vorrei farti sentire qualcosa». Andai e suonai e, a un certo punto, Toots iniziò a piangere e così di nuovo dopo qualche altra battuta. Io ero imbarazzata. Lui aveva davvero capito cosa avessi scritto e i miei sentimenti. È stata una collaborazione che mi ha dato tantissime soddisfazioni.
Nonostante un’infinità di collaborazioni e altrettante influenze musicali, lei non ha mai dimenticato il Brasile e la sua musica. Quale è il valore aggiunto della musica brasiliana?
La musica brasiliana è molto melodica, con accenti ritmici unici e molto sensuale, e ha un enorme assortimento di canzoni scritte da eccellenti compositori. La musica brasiliana fa parte delle mie radici, del mio patrimonio genetico ed è ciò che amo fare. Mi piace presentare la tradizione musicale sotto altre vesti in una nuova via, quella strumentale. La musica brasiliana, invece, è molto legata alla voce. Io cerco di rappresentare la tradizione musicale brasiliana come strumentista e portare in giro il verbo brasiliano, come se fosse una missione, e il pubblico ama molto questo tipo di interpretazione. Mi piace suonare qualsiasi musica, anche se mi trovo più a mio agio a cantare in portoghese piuttosto che in inglese, ma suono con piacere sia il jazz sia la musica brasiliana, perché sono cresciuta ascoltando – e suonando – entrambi i generi; anzi, in casa si ascoltava molto jazz.
Comunque lei ha un suo personale modo di intepretare la bossa nova, con un grande senso orchestrale e una particolare attenzione per l’armonia.
L’armonia ha un ruolo fondamentale per me, perché anche quando arrangio è lo strumento che uso per creare delle modulazioni, dei colori, ma anche gli aspetti melodici e ritmici sono molto importanti. La buona musica viene fuori dalla giusta combinazione di questi tre elementi. Il compositore e arrangiatore statunitense Johnny Mandel ha cercato per moltissimi anni di fare un disco con me, ma purtroppo per vari motivi ciò non è accaduto. E lui, che ha ascoltato tantissimi pianisti in tutto il mondo, ha descritto così il mio stile strumentale: «Il tuo pianoforte è un’orchestra». Forse perché presto molta attenzione a ogni piega dell’armonia. Anche quando canto, la mia impostazione è sempre legata a ciò che faccio al pianoforte.
Lei ha dedicato alcuni suoi dischi a dei giganti della musica. Ce ne è uno che preferisce in particolare?
In realtà no, non ce n’è è uno in particolare, perché sono tutti importanti per me. Certo, per quanto riguarda il piano jazz sono molto legata a Bill Evans. Ma ce ne sono tantissimi altri che hanno influenzato il mio modo di suonare il pianoforte.
C’è stato qualcuno, nella sua carriera artistica, che l’ha tradita?
Non penso, anche perché non mi creo mai delle aspettative.
Cosa ne pensa dell’attuale situazione politica statunitense?
Preferisco stare lontana dalla politica. Posso dire che l’attuale situazione non è facile: ci sono molte controversie in atto e molte bugie, ed è difficile credere a ciò che viene detto. La gente è disorientata, perché non sa a chi credere e non si sente sicura.
Sta lavorando a nuovi progetti?
Sì, per il prossimo anno, ma è ancora presto per dirlo.
Signora Elias, prima di concludere il nostro colloquio, qual è il suo sogno?
Non ne ho solo uno, ma amo la musica sempre, come se fosse un figlio. E vorrei sempre suonare musica e stare con il pubblico, suonare per loro, perché è ciò che amo fare. Il mio sogno è esattamente quel che faccio: suonare, girare il mondo e conoscere persone dalle quali prendere sempre qualcosa, il loro essere romantici, allegri o rilassati.