MARIA ELENA VINCENZI, ROMA –INTERVISTA A LUIGI MANCONI SUL CASO CUCCHI — REPUBBLICA DEL 1° MARZO 2019, PAG. 19

 

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Luigi Manconi, (Sassari1948), è un politicosociologo e critico musicale italiano.

Dal 2008 dirige i siti abuondiritto.itinnocentievasioni.net dedicato ai luoghi e alle procedure di privazione della libertà, e italiarazzismo.it, dedicato al rapporto tra immigrazione straniera e società italiana.

È padre di tre figli: Davide, Giacomo e Giulia. Sposato con la giornalista Bianca Berlinguer. Dal 2007 è affetto da una grave forma di ipovisione causata dal sommarsi di più fattori, tra i quali glaucomadistacco della retina e forte miopia.

 

LA STORIA INTERA PER CHI VOLESSE:: 

https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Manconi

 

 

 

repubblica del 1° marzo 2019–pag. 19

https://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20190301&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2

 

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LUIGI MANCONI E ILARIA CUCCHI

 

 

Intervista

Manconi

“A noi per capire sono bastati dieci giorni allo Stato invece dieci anni”

MARIA ELENA VINCENZI,

ROMA

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STEFANO CUCCHI E LA SORELLA ILARIA

 

 

«Questo secondo processo per la morte di Stefano Cucchi mostra un’articolata strategia dell’omertà, tesa a tacitare e a falsificare». Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto, è uno dei firmatari del comunicato battuto dall’Ansa alle 15.38 del 26 ottobre 2009.

Quello che, secondo l’accusa, convinse l’Arma che fosse necessario depistare per coprire le responsabilità dei militari.

Come nacque quel comunicato?

«Ero in contatto con Ilaria Cucchi e sulla base delle sue informazioni e di quelle di volonterosi cronisti locali, scrissi insieme a Patrizio Gonnella quella ricostruzione e la trasmettemmo alle agenzie».

Mercoledì in aula il pm ha chiarito come quella prima ricostruzione fosse quella corretta anche se è stata nascosta per anni.

«Sono parole che possono gratificare, ma prevale l’amarezza per i quasi dieci anni persi. E per lo scialo di sofferenza, di frustrazione, di inganno nei confronti dell’opinione pubblica».

Lei aveva informazioni privilegiate?

«Solo il racconto dei familiari di Stefano, qualche modesta ricerca e l’esperienza fatta con casi simili come quello di Federico Aldrovandi. Mi resi conto quello stesso pomeriggio di aver toccato un nervo scoperto: mi chiamò un cronista che contestava punto per punto il comunicato. Sembrava un interrogatorio. Era evidente che tenesse tra le mani una velina dell’Arma con la versione che poi sarebbe diventata quella prevalente e che attribuiva la responsabilità alla polizia penitenziaria».

Cioè quella del primo processo.

«Esattamente. E tenga conto che all’epoca era alto dirigente del Dap, Sebastiano Ardita, un fior di reazionario dotato di grande onestà intellettuale, al quale fu affidata un’inchiesta interna alla polizia penitenziaria. Indicò chiaramente che le responsabilità andavano cercate nella fase successiva alla perquisizione in casa Cucchi.

Dunque tra i carabinieri. Quel documento venne trascurato da tutti. Si assecondarono le indagini indirizzate contro la penitenziaria.

A essere convinti che bisognasse guardare nelle caserme dell’Arma rimanemmo Ilaria Cucchi e io».

Dunque sono stati in tanti a non voler vedere la verità?

«Può apparire bizzarro che a sottolinearlo sia un cieco, ma a non voler vedere sono state decine di persone. Con Ilaria ne abbiamo contato un numero elevatissimo, circa 140, che tra l’arresto e la morte hanno sfiorato Stefano senza prestargli soccorso. Di più: Stefano è passato attraverso 11 luoghi dello Stato, 11 stazioni di una via crucis dove non ha incontrato compassione».

Perché ci sono voluti 10 anni per la verità?

«Quello che è emerso è l’espressione dell’antico complesso di inferiorità di pressoché tutta la classe politica e del sistema mediatico nei confronti delle forze di polizia e in particolare, dei carabinieri.

Invece di operare per la democratizzazione di questi corpi, si contribuisce alla loro opacità. Nessuno, ma proprio nessuno, ha mai pensato che l’intera Arma sia un corpo malato.

Ma è certo che siano numerosi (e tendano a ripetersi) gli episodi di illegalità e di violenza, che possono essere prevenuti e stroncati solo se gli autori vengono rigorosamente sanzionati. E invece sembra ancora prevalere lo spirito di corpo e di autotutela. A offendere l’onore della divisa non è chi denuncia abusi, a opera di quelli, pochi o tanti — certo non pochissimi — che usano metodi violenti: sono piuttosto quelli che quei metodi applicano. Si ricordi che lo Stato fonda la sua legittimità giuridica e morale sulla capacità di tutelare l’incolumità del cittadino affidato alla sua custodia. Quando questo non avviene è la crisi dello Stato di diritto».

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