UNA FOTO DI FEDOR DOSTOEVSKIJ ( 1821-1881 ) IN PRIGIONE … E PERCHE’ C’ERA…

 

Ritratto del 1872 ad opera di Vasilij Perov (Galleria Tret’jakovMosca)


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Fëdor Michajlovič Dostoevskij noto come Fëdor Dostoevskij (in russoФёдор Михайлович Достоевский?[ˈfʲodər mʲɪˈxajləvʲɪtɕ dəstɐˈjɛfskʲɪj] ascolta[?·info]Mosca11 novembre 1821[1] – San Pietroburgo9 febbraio 1881[2]) è stato uno scrittorefilosofo russo.


Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo. Il 16 novembre dello stesso anno, insieme ad altri venti imputati viene condannato a morte, ma lo zar Nicola I, il 19 dicembre seguente, commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. La revoca della pena capitale, già decisa nei giorni precedenti all’esecuzione, viene comunicata allo scrittore solo sul patibolo. L’avvenimento lo segnerà molto, come ci testimoniano le riflessioni sulla pena di morte (alla quale Dostoevskij si dichiarerà fermamente contrario) in Delitto e castigo e ne L’idiota, scritto a Firenze.

Il trauma della mancata fucilazione si assocerà alle prime ricorrenti crisi di epilessia (una forma ereditaria di epilessia del lobo temporale[5] che già lo aveva colpito nel 1839) che segneranno la sua esistenza, e di questo dramma si troverà traccia in alcuni romanzi, quali L’idiota nella figura del principe Myškin.

«A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme. In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”.»
(L’idiota[6])

Sempre nello stesso romanzo:

«Ma il dolore principale, il più forte, non è già quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. (…) Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e sempre spera, fino all’ultimo, di potersi salvare. Si sono dati casi, in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, ovvero, supplicando, ha ottenuto grazia dagli assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, che attenua lo spavento della morte, ve la tolgono con una certezza matematica, spietata. (…) Un solo uomo potrebbe chiarire il punto; un uomo cui abbiamo letto la sentenza di morte, e poi detto: “Va’, ti è fatta la grazia!”. Di un tale strazio anche Cristo ha parlato… No, no, è inumana la pena, è selvaggia e non può né deve esser lecito applicarla all’uomo.»

In modo simile Dostoevskij scrive anche in Delitto e castigo, sempre sulla pena di morte:

«Dove mai ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi – avendo intorno a sé dei precipizi, l’oceano, la tenebra eterna, un’eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d’anni, l’eternità, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!… Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l’uomo!… Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.»
(Delitto e castigo[7])

 

 

 

DOSTOIESKI

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