LUIGI MANCONI, LA GIUSTIZIA NELL’ETA’ DELLA STIZZA—IL LIBRO DI DIDIER FASSIN, PUNIRE, FELTRINELLI –IL CORRIERE DEL 18 DICEMBRE 2019 — se affronta le stesse problematiche (non saprei dire…) di Giso Amendola, è senz’altro più comprensibile-chiara

 

IL CORRIERE DEL 18 DICEMBRE 2018

https://www.corriere.it/cultura/18_dicembre_18/giustizia-saggio-didier-fassin-feltrinelli-4a6dacf4-02dc-11e9-aeef-bd27e207a202.shtml

 

 

La giustizia nell’Età della Stizza
Quella voglia matta di punire

Calano i reati, sale l’insofferenza (e non solo degli innocenti). Alcuni paradossi
nella retorica della lotta al crimine esaminati da Didier Fassin (Feltrinelli)

Mona Hatoum (Beirut ,1952), «Grater Divide» (2002, scultura in acciaio), Boston, Museum of fine artsMona Hatoum (Beirut ,1952), «Grater Divide» (2002, scultura in acciaio), Boston, Museum of fine arts

Partiamo da un interessante dilemma, diciamo così, cognitivo: come si concilia il dato del calo del 77.9 per cento degli omicidi volontari in Italia tra il 1992 e il 2018, col fatto che, nello stesso arco di tempo, il problema della sicurezza costituisce il primo fattore di angoscia collettiva? La risposta va cercata in ciò che viene detta «percezione».

Il libro del sociologo e antropologo francese Didier Fassin «Punire. Una passione contemporanea» (pagine 187, euro 19) è pubblicato da FeltrinelliIl libro del sociologo e antropologo francese Didier Fassin «Punire. Una passione contemporanea» (pagine 187, euro 19) è pubblicato da Feltrinelli

La cosa va presa alla lontana. La «scena del crimine» nella sua ricorrente rappresentazione mediatica richiama immediatamente due tipi di domanda. Il metodo degli interrogativi è lo stesso e i contenuti sono speculari. Il microfono sfiora le labbra del familiare della vittima (in genere la moglie del tabaccaio o dell’orefice, ferito o ucciso nel corso di una rapina) e implacabile arriva la domanda: «Che pena vorrebbe per quei criminali»? Stessa scena, stessi personaggi, stesso microfono. Cambia, ma solo un po’, la domanda: «Potrà mai perdonare quei delinquenti?».

Didier Fassin (1955)
Didier Fassin (1955)

Tanto è diventato frequente questo dialogo, nelle sue molteplici varianti, che sfugge pressoché a tutti il suo connotato, alla lettera, primitivo. L’amministrazione della giustizia — il punire o il condonare — viene affidata al giudizio della vittima (come, nelle società tribali, il corpo del reo alla vendetta dei familiari dell’ucciso).

All’opposto, la giustizia moderna si fonda sul principio di terzietà: il suo esercizio è attribuito a istituzioni indipendenti, che sottraggono agli opposti contendenti il potere di giudicare e sanzionare.

C’è una ragione anche di natura psicologica per questa fondamentale tappa del progresso delle società. L’atto del punire porta sempre con sé, inevitabilmente, un elemento di piacere. La consapevolezza che l’infliggere un castigo comporti comunque un fondo di sadismo ha costituito un incentivo alla civilizzazione di quello che rappresenta uno dei processi essenziali della modernizzazione. Ovvero la formazione di un sistema neutro della giustizia, sottratto alla passionalità dei soggetti direttamente coinvolti (vittime, autori di reato, testimoni), che ha contribuito in misura fondamentale alla realizzazione di uno stato di diritto.

Ma se il sistema di diritti e garanzie di quella forma contemporanea e liberale di Stato viene scosso costantemente da domande di provvedimenti autoritari e illiberali e da tempeste emotive che ne contestano la presunta fiacchezza nella repressione del crimine, sulla base appunto di quella «percezione» alterata e deformata, evidentemente un problema c’è. Eccome se c’è.

Ed è proprio quello che affronta l’antropologo e sociologo francese Didier Fassin nel suo Punire. Una passione contemporanea (Feltrinelli). Rapportarsi alla materia pericolosa e delicata del castigo e delle pene impone di fare i conti non solo con il sistema del diritto, ma anche con i meccanismi di funzionamento della psicologia sociale e della morale collettiva. Infatti, per capire come sia stato possibile che negli ultimi dieci anni nelle società democratiche e con i crimini in calo si sia registrata una recrudescenza della repressione e della punizione, occorre guardare non solo agli ordinamenti giuridici e ai codici, ma anche alle paure e alle ansie, alle inquietudini e alle debolezze che si agitano nel fondo della vita sociale.

È allora che si avvia l’era del castigo, negli anni Settanta e Ottanta, ed è un fenomeno che riguarda tutti i continenti e, in particolare, quello europeo e quello americano.

All’epoca, negli Stati Uniti le persone recluse nelle carceri federali erano circa 200 mila. Oggi raggiungono i 7 milioni: in questo incremento, un ruolo fondamentale è stato giocato dalla «guerra alla droga» che ha coinvolto prevalentemente individui maschi neri.

In Europa — con l’eccezione di alcuni Paesi scandinavi — l’aumento della popolazione detenuta si registra ovunque, con un picco in Italia (più 180 per cento in quarant’anni).

Secondo Fassin la spiegazione è da ricercare nella combinazione di due fattori, uno culturale (la crescente intolleranza verso comportamenti devianti e trasgressivi) e l’altro politico: ovvero il populismo penale delle élite al governo, che agitano, a fini elettorali, ansie e paure (ed è una delle cause di quella «percezione» di cui si è detto).

Ecco un altro motivo di interesse: molto spesso i provvedimenti più criminogeni vengono presentati come destinati a tutelare il popolo: e invece — argomenta Fassin — molto spesso le scelte politiche selezionano chi deve essere punito, circoscrivendo le fasce sociali da colpire. Una maggiore severità, infatti, porta molto spesso a una maggiore diseguaglianza. E questo si manifesta in modo nettissimo nelle conseguenze della «guerra alla droga».

Nell’intento di elaborare una vera e propria antropologia del castigo, Fassin prende le mosse da un’analisi empirica e da un’ampia letteratura scientifica, fino a esplorare le radici profonde della volontà di punizione nei comportamenti individuali e collettivi. È qui che si ritrova ciò che Giuseppe De Rita e il Censis hanno definito rancore, quale motivazione più intensa di quella volontà così diffusa di rivalsa sociale. E senza dubbio la definizione è appropriata, dal momento che persino il suono del termine in italiano (quel ran e, poi, ancora una erre nell’ultima sillaba) fa echeggiare un brontolio, un rumore torvo, qualcosa che cova, nel profondo del corpo collettivo della società.

Ma la categoria del rancore, che ha una sua grandezza, è composta e accompagnata da altri sentimenti per così dire «minori». La stizza è uno di questi e in genere viene trascurata. In apparenza, una emozione molto ordinaria e domestica, inelegante e mediocre. Ma se assume la forma e la forza di una reazione collettiva, essa è destinata a lasciare un segno nella società. È un sentimento che ha una sua peculiarità perché si basa su motivazioni occasionali, estemporanee, in genere superficiali, ma che si addizionano e si alimentano vicendevolmente, dove il ritardo dell’autobus si somma alla cafoneria dell’impiegato delle poste, il colesterolo nel sangue all’aumento del prezzo della benzina, la legge Fornero sulle pensioni alla cacca dei cani sul marciapiede.

È un dispetto, un’irritazione, un umore che non ha radici profonde. Ma che determina una risposta insofferente e una replica intollerante. Non a caso, il gesto di rabbia nel gioco del calcio si chiama proprio fallo di reazione. Che si vada, dopo quella del Castigo verso l’Era della Stizza?

Qui interviene un’altra considerazione significativa. È opinione comune che a invocare punizioni e pene siano coloro che sanno di non meritarle e di non doverle subire (diciamo così, «le persone oneste, gli innocenti»). Ma probabilmente è vero l’esatto contrario: la voglia di punizione degli altri nasce da una sorta di bisogno di redistribuzione, diffusione capillare e condivisione della quantità di castigo meritata dalla cattiveria complessiva della società. Quasi un desiderio di risarcimento per quello che si sa di dover subire. Che nessuno sfugga alla punizione serve, al colpevole consapevole di esserlo, a sentirsi almeno un po’ alleviato nella propria espiazione.

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