Caleb Williams
William Godwin
Editore: Edizioni Theoria
- EAN: 9788899997120
- 16 euro, prezzo intero
Mary Shelley
GUIDE.SUPEREVA.IT / GIALLO E NOIR—SETTEMBRE 2005
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Il Romanzo ProtoPoliziesco di Godwin
Quando esce, nel 1794, il romanzo di William Godwin ha il titolo originale di “Things as They are; or the Adventures of Caleb Williams”, ovverossia “Le cose così come sono”, sottotitolo, “Le Avventure di Caleb Williams”. A sottolineare che l’intendimento iniziale dell’autore non era tanto quello di porre l’accento sulle sensazionali peripezie del protagonista, quanto piuttosto quello, nemmeno tanto celato, di evidenziare chiaramente le lacune storico-sociali tipiche della sua epoca.
Doveva essere infatti, sostanzialmente, un’opera di denuncia, un affresco sociale dell’Inghilterra del MilleSettecento vista attraverso l’ottica di un fervente idealista giacobino.
Per William Godwin il regime monarchico era imperfetto, quello democratico ancora meno affidabile, e andavano entrambi soppressi in nome di una lungimirante visione, piuttosto utopistica in realtà, di una società moderna priva di leggi, di regolamenti e di convenzioni sociali.
Oltremodo fiducioso nelle infinite potenzialità dell’essere umano come creatura politica, capace di vivere in società anche in assenza di norme e convenzioni, Godwin professava l’abolizione totale di ogni tipo di vincolo e di ordinamento. Via le leggi, andavano abolite le prigioni, soppressa la proprietà privata, occorreva abrogare, perché superate, le istituzioni matrimoniali e il precetto religioso. L’uomo, in poche parole, andava lasciato totalmente libero fidando unicamente sulla superiorità del suo lato raziocinante rispetto all’istinto.
Ma già nel 1831, alla seconda pubblicazione dell’opera, le cose cambiano. Il titolo del romanzo ciclopico in tre volumi diventa, più semplicemente, “Caleb Williams”, e contemporaneamente gli infuocati patemi idealistici di Godwin sfumano in una più composta ragionevolezza.
Si potrebbe dire, per assurdo, che quella che doveva essere un’opera di contestazione e di denuncia, si è lentamente trasformata nelle mani del suo autore in un testo altamente rivoluzionario, sì, ma solo dal punto di vista letterario.
Perché è innegabile che Caleb Williams apre un’ epoca, ed è forse il primo esempio, ciclopico, di applicazione del famoso principio della creazione inversa. Godwin infatti parte dalla fine per arrivare all’inizio. Scrive, nell’ordine, prima il terzo volume, poi il secondo e infine il primo. Questo bizzarro percorso a ritroso conferisce all’opera un ritmo incalzante, una verve aggressiva, una rapsodia serrata, capace di catturare il lettore dall’inizio alla fine, o meglio ancora, dalla fine all’inizio.
Eliminando via via tutto ciò che non era funzionale alla narrazione, sopprimendo tutti i dettagli che non risultavano prettamente indispensabili per la perfetta comprensione della storia, Godwin conferisce al romanzo una vibrante intensità e una magnifica coerenza strutturale. Ogni parte ha la sua ragione d’essere, e appartiene, interamente, a un complesso esercizio da laboratorio simile a quello cui potrebbe ricorrere un chimico per dimostrare e sviluppare una sua tesi o intuizione.
Ripreso poi da Poe questo metodo scientifico di ingegneria applicata alla trama raggiunge per la prima volta con Godwin un livello di perfezione tale che, a opera compiuta, non sarà più possibile togliere, cesellare o modificare nulla senza alterare, irrimediabilmente, la funzionalità della struttura.
Il sogno di tutti gli scrittori, tanto che potrebbe tranquillamente essere usato come libro di testo nei corsi di scrittura che oggi imperversano in ogni dove.
Leggendo Godwin con gli occhi di uno scrittore, abbandonando per una volta il placido ruolo del lettore inconsapevole, si possono cogliere infatti preziosissimi precetti per portare a compimento con maggior consapevolezza l’arte sublime dello scrivere e del creare.
Emergono infatti, chiarissimi, gli elementi basilari di quella che sarà l’ossatura canonica di tutta la letteratura poliziesca ancora da venire. Causa ed effetto vengono ripercorsi all’indietro in un cammino suggestivo che stimola l’inventiva e l’intuizione del lettore. Uno alla volta tutti gli indizi e le motivazioni trovano concretezza nel fluire progressivo della storia. Le azioni umane obbediscono a uno schema ben preciso, debolezze e passioni seguono un iter prestabilito, rispondono ad esigenze predeterminate, perché, come disse secoli dopo Agatha Christie, la natura umana è sempre uguale e tutto è prevedibile.
Le vicende del protagonista, contrastate e dolorose, sono improntate a episodi alternati di delitti, indagini a ritroso, inseguimenti, dibattimenti processuali, confessioni e strabilianti rivelazioni.
Le memorie struggenti di Caleb Williams, incompreso e perseguitato, iniziano con un incipit vigoroso, fortemente evocativo, praticamente il manifesto stesso di tutta l’opera.
“Da molti anni la mia vita è teatro di sventure. Sono stato oppresso da una tirannia ossessionante alla quale non potevo sfuggire. Ho visto le mie speranze stroncate. Il nemico si è dimostrato sordo alle implorazioni e infaticabile nel perseguitarmi. Le sue vittime: la mia reputazione e la mia felicità.”
La storia, secondo i canoni dell’epoca, è oscura e intricatissima. La narrazione è resa vibrante dall’esigenza manifesta del protagonista di scagionarsi da accuse ingiuste e infamanti. Si parte, come già detto dalla fine, ripercorrendo a ritroso il cammino della narrazione.
Caleb lavora come segretario di un dotto gentiluomo, Mr. Falkand, il cui carattere, aspro e riottoso, soggetto a frequenti sbalzi d’umore, altenante tra depressione e impulsi collerici, suggerisce oscuri segreti nel suo passato.
Il Maggiordomo di Falkand, Collins, con manifesta indiscrezione, si presta a fare da confidente all’incuriosito Caleb, svelandogli, poco alla volta, tutte le vicende giovanili del comune padrone e datore di lavoro.
Un lungo viaggio in Italia, dissapori e schermaglie per motivi d’onore, il rientro in Patria e lo scontro con un esponente rozzo e volgare della nuova borghesia ascendente, Mr. Tyrell, il corteggiamento sfortunato verso Emily, con questi imparentata, e la morte di quest’ultima a causa delle angherie e delle persecuzioni di quel perfido signorotto di campagna arricchito troppo in fretta.
Tutto questo culmina in un confronto a scena aperta, Tyrrel colpisce, atterrandolo, Falkand dinanzi agli sguardi attoniti dei notabili del paese e poco dopo, logicamente, viene scoperto il suo cadavere.
Il maggiordomo continua a raccontare e lascia intendere che dopo il consequenziale processo Mr.Falkand sia riuscito, quanto mai opportunamente, a far incriminare e condannare per il delitto due esseri loschi, ma innocenti, il fittavolo di Tyrell e suo figlio, anch’essi oppressi e maltrattati dal defunto.
E così il primo volume pone già le premesse per un intricatissimo Mistery.
Falkand, ormai anziano, burbero e bizzoso, è chiaramente oppresso da un’antica colpa e il maggiordomo, con scarsa fedeltà, ha prontamente rivelato buona parte dei tenebrosi segreti di famiglia, lasciando davvero poco, ma molto poco all’immaginazione.
Ma finora si potrebbe trattare ancora solo di maldicenze, o di maligne insinuazioni, perfino di sterili supposizioni per nulla suffragate dalle prove.
Ecco che allora il secondo volume è dedicato all’indagine. In un secolo in cui l’aura di concretezza va facendosi sempre più necessaria ed essenziale, non è consentito in alcun modo condannare e giudicare chiccessia in assenza di quelle piccole particelle, solide e concrete, che vengono comunemente denominate come prove materiali.
Così Caleb indaga, sconfinando spesso nell’illegalità, osserva documenti, scruta lettere, manomette bauli, fino a suscitare l’isterica reazione di Falkland che, in un impeto di disperazione, confessa le sue colpe, per poi rinsavire e costringerlo a mantenere il segreto, pena la sua rovina. Caleb inizia dunque un periodo di forzata complicità poi, non resistendo oltre, decide di darsi alla macchia, perseguitato dalla vendetta di Falkland che lo accusa di furto, e alla fine riesce a farlo imprigionare.
Il terzo volume è quello della catarsi, finale ma non certo liberatoria.
Fuggito di prigione e poi riacciuffato, Caleb, ingiustamente perseguitato, ottiene alfine il ritiro di ogni accusa da un Falkland sempre più vecchio e stanco. Lo incontra perfino davanti a un giudice, dove l’antico padrone si riconcilia con il segretario, ammettendo tutte le sue colpe giovanili, per poi morire di lì a pochi giorni.
Ma per Caleb non sarà un trionfo, la sua onorablità è ormai compromessa, il suo nemico era ormai fragile e malato e la vittoria non ha alcun sapore, anzi egli sente di essere in qualche modo responsabile di questa morte fino al punto da riconoscersi anch’egli, alla fine, colpevole di un delitto a sangue freddo.
Sono state le sue insistenze, le sue curiosità, le sue ostinate investigazioni a condannare a morte l’anziano e dignitoso Falkland, e Caleb non se lo perdonerà mai.
Ecco che allora la vicenda si chiude con un perfetto percorso circolare, Caleb da indagatore diventa indagato, da inseguitore diventa inseguito, da innocente diventa colpevole.
Ma chi è in fondo Caleb Williams, questo novello investigatore prototipo del detective dilettante?
È uno scrivano, un segretario, un uomo di lettere. Assunto dal suo padrone per la stesura di saggi letterari, egli trae profitto dalle dotte conversazioni, assapora i libri, ne assimila i contenuti.Attraverso lo studio degli autori, della loro metodologia narrativa, degli scopi che essi si prefiggevano, Caleb riesce ad acquisire quelle doti analitiche e deduttive che gli consentiranno, poi, di trasformarsi in investigatore quando tenta di ricostruire la vita avventurosa del suo padrone, anche se va detto che mal gliene incoglie.
Ecco che allora sarà stato Falkland stesso a causare la sua nemesi. Quando ha fornito al suo segretario i mezzi per indagare, insegnandogli ad approfondire, ad analizzare, a vagliare criticamente le fonti e i materiali disponibili, egli ha armato, di fatto, la mano, o meglio, la mente, che poi lo ha condannato a morte.
Nel momento in cui Caleb è in fuga dalla prigione, reietto e abbandonato, confinato in uno squallido sobborgo di Londra per sfuggire alla cattura, egli vive o sopravvive scrivendo e pubblicando racconti. E anche qui il suo unico mezzo di sostentamento risulta in realtà fornitogli dal suo antico padrone, già, perché le opere che Caleb vende e produce non sono frutto del suo ingegno ma bensì della sua memoria.
Egli praticamente si limita a riscrivere i libri che ha letto, raccontando le vicende criminali riportate dai grandi autori. Ripresentando sotto altra luce vicende già narrate, non solo compie in prima persona un reato macchiandosi di plagio, ma oltre tutto mette a profitto, ancora una volta, risorse che erano state poste a sua disposizione proprio da quel Falkland che invece ha perseguitato.
Il percorso circolare è dunque unitario, complesso e ciclicamente perfetto, sia dal punto di vista narrativo che da quello morale.
Il dilemma è chiaro, è più colpevole un agiato gentiluomo che uccide, travolto da un momento di passione perché gravemente provocato nell’onore, o un segretario che, solo per bieca curiosità, sputa nella mano da cui mangia?
Caleb spia, complotta, intriga, trama, apre lettere private, viola i segreti, accede a documenti personali, manomette serrature, cassetti e bauli. Falkland ha ucciso e lasciato condannare due innocenti al posto suo.
Non vi è dubbio possibile su quale sia il crimine più grave, ma Falkland in fondo è un gentiluomo, ha agito in preda all’ira, i due figuri che ha lasciato condannare erano comunque dei personaggi loschi, e per di più appartenenti a una classe sociale inferiore. Questo, secondo la mentalità dell’epoca gli concede non poche attenuanti.
Caleb invece è un servitore prezzolato, un misero segretario sotto salario, un uomo che approfitta indegnamente dell’ospitalità del suo datore di lavoro, ripagandolo con l’inganno. È un delatore, un traditore e una spia.
Questo li pone sostanzialmente sullo stesso piano, la bilancia, ancora una volta, torna ad essere in parità.
Ed è sempre l’onore, e non la vendetta, che costringe Falkland a perseguitare Caleb, di cui è disposto a macchiare la reputazione pur di riuscire a salvare la propria. Quindi anche qui il confronto è alla pari.
Emerge dunque, a conti fatti, la scomoda sensazione che da sempre accompagnerà ogni investigatore, professionale o dilettante che sia. Per quanto ispirato alla difesa della giustizia, nonostante agisca spesso per scagionare gli innocenti, al di là delle sue indiscusse e valide motivazioni, un investigatore è, e sempre sarà, un indelicato compagno, un personaggio equivoco, un maledetto ficcanaso e un sospetto spione, costretto spesso a violare le sacre regole dell’ospitalità e a ignorare le più comuni convenzioni sociali.
La strada della detection è ormai tracciata. E da questo momento in poi tutti gli investigatori privati della storia assomiglieranno a Caleb Williams e saranno chiamati a condividere lo stesso destino.
REPUBBLICA DEL 14-12-2018 pag. 38-39
CULTURA
Riscoperte
La vera storia del “nonno” di Frankenstein
MICHELE MARI
William Godwin era il padre di Mary Shelley. Ma anche l’autore di “Caleb Williams”, un romanzo quasi dimenticato, ora ristampato, che anticipa le atmosfere del capolavoro della figlia uscito duecento anni fa
“Nonno di Frankenstein”, nel senso che la futura Mary Shelley era sua figlia, William Godwin (1756-1836) costituisce un curioso caso di perbenismo radicale. Rappresentante dell’alta società inglese e cultore delle sue “buone maniere”, avverso a ogni forma di violenza, Godwin sognava un mondo senza governi e senza prigioni, un mondo pacificamente anarchico in cui l’uomo, debitamente educato, sapesse autoregolarsi secondo le sue quasi illimitate potenzialità.
A questa utopia dedicò tutta la vita, con saggi, articoli, conferenze e diversi romanzi, il primo dei quali è senz’altro il più bello. Apparso nel 1794, subito dopo un ponderoso saggio che denunciava gli abusi del sistema giudiziario britannico, Caleb Williams (ripubblicato ora da Theoria, traduzione di Romina Bicicchi) vogliono mettere il lettore di fronte all’orrore e all’angoscia che nascono da questi abusi, e lo fanno con uno stile in parte ancora settecentesco, fatto di digressioni e di commenti, in parte già romantico, con una spiccata propensione per l’incubo e il raccapriccio.
Caleb Williams, per quasi mezzo romanzo, non esiste: è semplicemente la voce narrante, che si affida oltretutto a narratori di secondo grado. Qui i protagonisti, talmente opposti l’uno all’altro e però magneticamente e fatalmente attratti l’uno dall’altro come le due anime di un doppio, sono l’impeccabile Falkland e il vilain Tyrrel, due proprietari terrieri che sfruttano ogni occasione per farsi la guerra e provocarsi. Arrogante, violento, facinoroso, Tyrrel getta sul lastrico i propri fittavoli, corrompe, calunnia, rovina le reputazioni e le persone, fa morire di crepacuore e di consunzione la giovane cugina da lui promessa in sposa a uno dei propri sgherri, insomma è un mostro, la cui unica nota di umanità consiste nel patire morbosamente la propria inferiorità antropologica rispetto a un angelo di bontà e di stile come Falkland, l’unico che sappia tenergli testa e confonderlo con le proprie buone maniere, appunto.
Buono ma non stupido, Falkland, che in cuor suo sa di essere atteso dall’unica soluzione possibile: un duello all’ultimo sangue. Fin qui, nel suo contrasto manicheo, il romanzo ha più del romance che del novel, ma le cose cambiano improvvisamente: Falkland viene poco decorosamente malmenato in pubblico dal suo rivale, che poche ore dopo è trovato morto.
Sfumata la possibilità di una solenne vendetta, Falkland, oltretutto sospettato del vile assassinio, incomincia un lungo viaggio nella pazzia: il senso dell’onore, in lui quasi una forma d’arte, lo tormenta e lo stravolge, trasformandolo a poco a poco in un demone ossessionato. Così questo gentiluomo che sembrava uscito dal Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione e che, come Don Chisciotte, aveva letto troppi romanzi cavallereschi, diventa una specie di capitano Achab, solitario, misantropo, arso dal di dentro, più simile a uno spettro che a un uomo: «lui, che era vissuto di grandiose e sublimi fantasie, sembrava che ora non avesse altre visioni se non di angoscia e disperazione».
E Caleb? Al servizio di Falkland fin da ragazzo, Caleb commette la leggerezza di indagare nel passato del padrone, che dopo essersi ammantato nei propri misteri decide di accontentarlo nel modo più perfido: gli svela tutto (cosa che noi non faremo) a patto di legarlo a sé per la vita e per la morte. Schiacciato dal peso della rivelazione, Caleb cercherà di licenziarsi, poi di fuggire, ma sempre la lunga mano di Falkland (che nella seconda parte del libro assurge a gigantesco demiurgo del male, alla maniera del Vathek di Bedford o del Melmoth di Maturin) lo raggiunge e lo punisce, facendolo imprigionare sotto false accuse. Incomincia così il calvario del narratore, che evade ingegnosamente dalle prigioni solo per essere nuovamente incarcerato in condizioni peggiori. Il suo destino, è sempre più evidente, non è separabile da quello del suo persecutore («tutte le vicende della mia vita sono indissolubilmente legate alla sua storia: per colpa delle sue sventure, la mia felicità, la mia reputazione e la mia esistenza sono state irrimediabilmente distrutte»), anche perché entrambi sono dominati da un senso altissimo della “reputazione”, idolo fantastico che ha snaturato Falkland e che, nella speranza di poterne provare l’innocenza e il buon nome, aveva spinto l’adorante Caleb all’opera di investigazione. Così, quando nel finale Caleb ha la possibilità di ristabilire la propria reputazione ai danni di quella di Falkland, fa un passo avanti e due indietro, ritratta e si contraddice, e assumendo sul proprio capo tutte le nefandezze di Falkland entra volontariamente nel ruolo non solo del colpevole ma anche dell’infame. Vittima e carnefice hanno confuso i loro ruoli per sempre, in ossequio alla pulsione masochistica che scorre sotto tutto il romanzo.
Romanzo gotico, certo; antesignano del giallo moderno; variazione rousseauiana sui mali procurati all’individuo dalla società: tutto vero, a patto di saper cogliere, nel sorriso di Rousseau, il ghigno del marchese de Sade (l’ultimo decennio del ’700 del resto è il suo decennio). Da qui alla smorfia della creatura di Frankenstein il passo non è poi tanto lungo.