GIOVANNI E FRANCESCO MAZZAFERRO, LETTERATURA ARTISTICA BLOGSPOT, 12 FEBBRAIO 2018 ::: GEORGES GROSZ, UN’AUTOBIOGRAFIA –STUDIO- PARTE SECONDA

 

 

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FEB

12

George Grosz. Una autobiografia. Parte Seconda

English Version

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo – 15

George Grosz
Una autobiografia

Milano, SugarCo, 1984, 336 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda

 

 

 

 
Fig. 39) George Grosz, Autoritratto, 1938


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Gli anni americani (1932-1946)

Il 26 aprile 1932, un telegramma da New York raggiunge Grosz nella sua casa di Berlino: “La Lega degli studenti d’arte la invita a tenere lezioni ogni mattina in giugno, luglio ed agosto, per un compenso di centocinquanta dollari al mese, e una lezione serale dall’inizio d’ottobre, per un compenso di centoventi dollari per mese, oltre a due lezioni di critica d’arte ogni mese. Risponda immediatamente a nostre spese” [45]. The Arts Students’ League of New York è una scuola (ancora attiva http://www.theartstudentsleague.org/) creata a Manhattan nel 1875, con un programma ‘democratico’ di apertura rispetto all’Accademia di Belle Arti di New York: sin dalla sua fondazione vi vengono ammessi studenti meno abbienti e sono accettate anche le donne. Per il pittore tedesco, che nell’autobiografia scrive di aver ricevuto la lettera appena dopo aver fatto un sogno premonitore sull’imminente repressione della libertà in Germania, la decisione di partire è immediata: “Oggi so che una forza volle preservarmi. Per che cosa, non so dire. Forse perché testimoniassi? A ogni modo è così che venni in America” [46]. Si imbarca (senza i famigliari) il 26 maggio. È l’inizio di un’attività d’insegnamento che lo occuperà a New York senza interruzioni per 25 anni [47].

 

 

Fig. 40) George Grosz, La parte sud di Manhattan, 1934

 

Grosz è un uomo da sempre affascinato dall’America. L’autobiografia è piena, sin dagli anni della gioventù, di ricordi che testimoniano la sua passione per le storie di indiani e cowboy, per i vestiti e le macchine americane ma anche per gli orsacchiotti di pezza, per gli ‘American bars’ e per il ragtime. Le prime pagine del capitolo “New York in giugno” sono un inno al paese della libertà e delle grandi opportunità.

 

 

 

Fig. 41) Ritratti di I.B. Neumann di Max Beckmann (1919), a sinistra, e Otto Dix (1922), a destra.

 

Arrivato in America, i primi contatti sono con intellettuali di lingua tedesca già ben insediati nel mondo dell’arte newyorkese: il collezionista di grafica austriaco Max Morgenstern (1883-1946) e il mercante d’arte berlinese Israel Ber Neumann (1887-1961). Quest’ultimo – dopo aver sostenuto secessione, dada ed espressionismo a Berlino e in altre città tedesche – si lancia nell’avventura americana già nel 1923, promuovendo con la sua galleria di New York tutta l’arte moderna tedesca ed europea (Chagall, Archipenko), ma anche giovani americani come Alexander Calder. “In quei giorni Neumann era mio amico e mio agente. Poteva discutere d’arte per ore ed ore, con la sua morbida e profonda voce” [48]. E tuttavia i suoi tentativi di riuscire a lanciare l’opera di Grosz negli Stati Uniti, da un punto di vista commerciale, saranno vani.

 

 

 

Fig. 42) George Grosz, Scena di strada a New York, 1932

New York – sia pur “in pieno periodo di crisi” [49] per effetto del collasso dei mercati finanziari del 1929 e della grande depressione – piace all’artista. “D’inverno si vedevano signore in pelliccia che per strada vendevano mele, e molte persone ben vestite che facevano la fila per accedere alla mensa dei poveri. Avevo per molti anni visto cose ben peggiori e le ricordavo bene, cosicché queste non mi parevano poi tanto strane. (…) Amavo New York. E forse New York amava me; ma si deve amare, per essere amati. Non avevo la comune abitudine tedesca di paragonare immediatamente ogni cosa a quelle di casa, e criticare da quel punto di vista. Io, alle nuove impressioni, prestavo me stesso, e prima di esprimere giudizi prendevo tempo. Cercavo d’apprendere la lingua, d’assorbire e comprendere ciò che m’era estraneo e sconosciuto” [50].

 

 

 

Fig. 43) La prima delle tre Lettere dall’America pubblicate su Kunst und Künstler del 1932

Il successo come insegnante è immediato; quello come pittore, limitato. Il suo sarcasmo iconografico non è in linea con il gusto americano. “Saltuariamente mi commissionavano un disegno, ma mi dicevano sempre: «Non sia eccessivamente tedesco, mister Grosz; non sia troppo amaro. Lei sa cosa vogliamo dire, non è vero?»” [51]. I.B. Neumann gli organizza una personale al Barbizon Plaza, un hotel di grandissimo profilo: “Strinsi le mani di un migliaio di persone. Era stato magnifico, tutti erano felicissimi di fare la mia conoscenza; avevano udito «tanto parlare di me»(«Oh, ma certamente!»), sfortunatamente, però, era un successo di prestigio, più che di denaro” [52]. Tuttavia, nonostante la sua arte non si venda, il pittore decide che la sua vita è ormai in America; finite le lezioni, nell’ottobre del 1932, rientra in Germania, ma solamente per organizzare il trasloco e ripartire di nuovo, questa volta con la famiglia, nel gennaio 1933, pochi giorni prima delle elezioni che porteranno al potere Adolf Hitler. L’intenzione originale del pittore, prima della presa del potere di nazisti, non è di rompere i ponti con la Germania: nell’agosto, settembre e dicembre 1932 pubblica su Kunst und Künstler tre lunghe Lettere dall’America [53], vere e proprie corrispondenze giornalistiche che sono un’altra testimonianza del suo stretto rapporto con la scrittura. Sono pagine piene di entusiasmo e nulla traspira ancora dell’insoddisfazione profonda con gli USA che descriverà anni dopo in Una Autobiografia. Ma se nel 1932 Grosz si vede come un ponte tra America e opinione pubblica tedesca, dopo la presa del potere di Hitler e l’incendio – solamente un mese dopo – del Reichstag, l’artista si considera, di fatto, in esilio volontario. L’intenzione di rompere con la Germania si consolida, dopo aver saputo da amici che i nazisti l’hanno cercato invano nell’abitazione di famiglia e nello studio. “Avevo ragione di credere che m’avrebbero ucciso, se m’avessero trovato” [54].

 

 

 

 
Fig. 44) George Grosz, Autoritratto nel momento del ricordo, 1936

 

Già durante il primo anno di permanenza a New York, l’ispirazione come disegnatore satirico si interrompe e subentra una vena più artistica. Ecco quello che scrive: “Allora (…) cominciai io stesso a cambiare. (…) Sentivo che in me diventava predominante l’artista. Improvvisamente mi disgustavano le distorsioni satiriche. (…) Non ero più interessato alle persone intese come individui fatti di svolazzi divertenti. (…) E mentre le persone si allontanavano, i paesaggi e la natura si avvicinavano, vedevo, nei particolari le piante e i cespugli, l’erba e le foglie, le farfalle, le tartarughe, le formiche. I miei panorami divennero desolati e privi di uomini. Era un segno buono o cattivo per il mio sviluppo? Oggi posso dire che era un bene. Non era una fuga, né un volo; era un accostarsi, una penetrazione” [55].

 

 

 

 

 
Fig. 45) George Grosz, Cape Cod, 1939

Così fu, in America, la seconda metà della mia vita, e cominciò con un conflitto interno; mi contrapponevo al passato, un passato che respingo ancora oggi in un certo senso. Più che mai relego la caricatura in una posizione inferiore nel contesto artistico; credo che predomini in periodi di decadenza. Sicuramente, la vita e la morte sono grossi soggetti, ma non adatti al sarcasmo e agli scherzi di buon mercato” [56].

 

 

 

 

 
Fig. 46) George Grosz, Grandi dune, 1940

Mentre oggetti e persone diventavano incessantemente più remoti, altri, nuovi mondi a un tratto s’aprivano. Scopersi la natura nell’incertezza della sua semplicità, compattezza e bellezza, se pure nell’inesorabile legittimità dei suoi elementi. Erravo per ore sopra le dune di Capo Cod, e con umiltà cercavo di riprodurre i miei sentimenti sulla natura come meglio mi era possibile, senza aggiungere od omettere nulla. Parole e frasi ridondanti ed idealistiche cadevano giù come rami morti. Volevo essere un artista libero, e credo d’esserlo stato da quel momento in poi” [57].

 

 

 

 
Fig. 47) George Grosz, Il dio della guerra, 1940

Questo processo d’intimizzazione dell’arte avviene proprio nel momento in cui si scatena il nuovo conflitto mondiale e dunque non può essere definitivo: “Allignano ancora in me i terrori, ma non sono più visioni, sogni o caricature. Non sono inventati o progettati per aiutare a educare l’umanità. Sono costituiti d’una materia apocalittica e rivelano il dualismo del mondo dalla sua faccia nascosta, non il lato dove tutto fiorisce, ma quello dell’omicidio, degli incendi, delle devastazioni e della morte. Credo di sentire in me qualcosa dell’antica tradizione tedesca. È questa tradizione che mi fa sempre vedere la dicotomia vita-morte; non posso dunque più esclamare letteralmente ed ottimisticamente: «Vita!» «Vita!» «Vita!»” [58].

 

 

 
Fig. 48) George Grosz, Hitler o Caino all’inferno, 1944

Le pagine dell’autobiografia lasciano capire, tuttavia, che l’esperienza americana si rivela, in sede di bilancio, una delusione. A quarant’anni assume la cittadinanza della sua nuova patria: vuole “integrarsi totalmente” [59] e si distanzia dall’atteggiamento degli esuli europei, sempre pronti a criticare il paese che li accoglie per la sua assenza di cultura. Vuole perdere l’arroganza europea [60]. Da un punto di vista pittorico, percepisce questo processo come una liberazione, ma il successo non arriva mai: “Quanto più «americano» mi sentivo, tanto meglio dipingevo. Neppure oggi so spiegare questo fenomeno, ma i miei oli divennero più ricchi, i miei colori e le strutture più articolati, più plastico il mio modellare. In superficie diventavo sempre più cinico e saltuariamente avevo eccessi di furore contro l’arte e contro gli artisti. Sia l’una che gli altri, me compreso, mi sembravano completamente superflui, e mi dicevo che sarebbe stato meglio se avessi cambiato vocazione. Questi scatti di nervi, certo, si verificavano sempre quando non vendevo, e ciò accadeva spesso per mesi e mesi di fila” [61]. Il pittore ha a disposizione solamente il modesto salario d’insegnante all’Arts Students’ League, che integra con lezioni private. Il tentativo di fondare una scuola propria di “pittura, disegno, composizione e critica d’arte”, prima con il collega pittore Maurice Sterne (1878-1957) e poi da solo non decolla [62]. In momenti fortunati riceve incarichi d’insegnamento privato da industriali e famiglie benestanti. Di conseguenza Grosz è molto spesso costretto a vivere anche d’espedienti, raccontando menzogne alla moglie e a se stesso. La salvezza proviene da una borsa di studio della fondazione Guggenheim e da un incarico come illustratore dalla rivista Esquire[63].

 

 

 

 
Fig. 49) George Grosz, Io allo specchio della sala del bar, 1937

La volontà di assumere atteggiamenti e mentalità del paese ospite pone Grosz in conflitto con alcuni dei maggiori intellettuali tedeschi in esilio. Il racconto dell’incontro con Thomas Mann (1877-1955) [64], ad esempio, è particolarmente spiacevole: lo scrittore e sua moglie sono convinti che Hitler sia un fenomeno passeggero, e che di lì a qualche settimana il popolo tedesco si libererà di un buffone; il pittore è sicuro, invece, che le masse tedesche siano ormai assuefatte ad accettare ordini senza esitazioni e che ricevano dunque quel che si meritano. La discussione, svolta nel corso di un pranzo, finisce con un litigio e non vi sarà mai un secondo incontro. Grosz riceve la visita dell’amico Brecht, ma di quell’occasione riporta solamente la brutta impressione che gli lascia la guardia del corpo dell’ormai famoso letterato [65]. Mostra invece molta empatia per il suicidio del drammaturgo Ernst Toller (1893-1939) [66] e l’arrivo a Ellis Island dello scrittore Hans Borchardt (1888-1951), che Grosz aiuta ad uscire dalla Germania dopo anni passati nei campi di concentramento: nel corso della prigionia ha perso l’udito, un dito della mano e la necessaria tranquillità [67]. Tra i molti incontri, Grosz conosce a New York anche de Chirico, che descrive come uomo molto solo [68].

 

 

 

 
Fig. 50) Un’illustrazione di Life Magazine con George Grosz e Hitler o Caino all’inferno, 1944

Un grande cinico

Che immagine ricaviamo di Grosz uomo, leggendone l’autobiografia? Nel 1954 il mensile Der Spiegel gli dedica la copertina, definendolo “Il più triste degli uomini in Europa”. L’articolo, disponibile su internet in tedesco [69], parla di qualche verso che Grosz ha composto sul tema, definendosi un “fenomeno della tristezza”. L’espressione è divenuta quasi paradigmatica e viene portata ad esempio di quanto la sua fosse la personalità di un uomo depresso. L’autobiografia inglese del 1946 (e l’edizione tedesca del 1955) non presentano frasi simili. Tuttavia, parlando della sua giovinezza, Grosz scrive: “Ero una persona più socievole allora di quanto lo sia oggi, così il mondo mi sembrava più amichevole. Adesso so che ho vissuto la fine di un mondo, e che gli ultimi anni di quel mondo perduto furono i più inconsapevoli e, perciò, i più felici della mia esistenza” [70].

 

 

 

 

 
Fig. 51) Copertina di un numero dello Spiegel del 1954 dedicata a George Grosz, che vi viene definita come “la persona più triste d’Europa”

 

Certamente, sin dall’introduzione l’autore si compiace di ritrarsi come un grande cinico: “Se in merito al progresso sono diventato scettico, è per le esperienze della mia vita intera. Mio è stato il tempo in cui le più sentite dichiarazioni di fratellanza venivano proclamate a gran voce mentre si combattevano le guerre più sanguinose della storia; era un conforto e un suicidio in grande stile” [71]. A quell’attitudine di fondo contribuisce sicuramente l’esperienza della trincea: “La guerra significò orrore, mutilazione, devastazione. (…) Quando tutto si sfasciò nella disfatta, qualche anno dopo, quando crollò ogni cosa, nulla rimase a me e ai miei amici se non il disgusto, l’orrore” [72]. Negli anni seguenti, l’esperienza negativa della Repubblica di Weimar lo segna per sempre, colpendolo nella capacità di sperare nel raggiungimento del bene collettivo: dopo quegli anni, l’artista crede solamente nella felicità come dimensione privata: “Eravamo come barche al vento, con vele bianche, nere o rosse. Talune issavano orifiamme con tre folgori, o con la falce e martello, o con una svastica su un elmetto d’acciaio; da una certa distanza, parevano tutte uguali. Non riuscivamo a controllare molto bene le nostre imbarcazioni, e dovevamo manovrare accortamente per tenerle lontane dal ciclone. Molte barche erano già state capovolte. La tempesta imperversava ininterrottamente, ma noi continuavamo a navigare; non comprendevamo il suo rumoreggiare, il nostro udito essendo obnubilato dalla fiumana dei comandi. Tutti noi sapevamo che v’era un vento che soffiava da est, e un altro vento che soffiava da ovest. E che l’uragano infuriava su tutto il globo. Era un calderone bollente anche la capitale della nostra Germania. Non si vedeva chi alimentava il fuoco; si poteva solamente scorgere che bolliva, e si sentiva il calore che aumentava. V’erano oratori ad ogni angolo di strada, e cantori d’odio, ovunque. Tutti erano odiati: gli ebrei, i capitalisti, i piccoli borghesi, i comunisti, i soldati, i proprietari terrieri, gli operai, i disoccupati, il Reichswehr, le commissioni di controllo, i politici, i commercianti e, ancora, gli ebrei. Era una vera orgia d’istigazioni, e la Repubblica era così debole che la si poteva notare a malapena. Tutto ciò doveva concludersi con una potente deflagrazione. Era un mondo del tutto negativo, con una gaia schiuma colorata in superficie che molti scambiavano per la vera, la felice Germania prima dell’eruzione dei nuovi barbari” [73]. Le conclusioni a cui porta questo discorso sono totalmente in contrasto con l’immagine che normalmente ci viene proposta di Grosz artista politico che denuncia i privilegi di classe della grande borghesia: “Ponderai allora molto su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Era nell’aria. Ma sempre le mie conclusioni venivano a detrimento di ciascuno. Classificare le persone in bianche e nere sarebbe potuto essere un metodo efficiente per trattare con le masse, ma ciò andava contro il mio buon senso. Quanto più s’ingrandiva il gruppo al quale m’ero associato, tanto più ero diventato individualista. Pervenni finalmente alla convinzione che il mondo è come un fenomeno naturale, un eterno va e vieni, e non è detto che debba essere necessariamente spiegato. Ammetto che questo non era propriamente un concetto religioso, ma dopo Nietzsche dubitavo della «moralità»; non v’è il bene o il male, nella pioggia e nel vento, nelle eruzioni vulcaniche, o nella neve che ci punge le gambe” [74].

Ciò che è chiaro è che l’artista ha grande nostalgia del vecchio regime guglielmino, come epoca contraddistinta da stile e profondità di pensiero: “Ogni cosa che noi oggi sperimentiamo come repellente banalità ebbe inizio durante la prima guerra mondiale. La volgarità della vita pubblica che noi ora accettiamo era allora mitigata da un regime aristocratico moderato. Qualcosa del vecchio umanesimo dei sommi poeti e pensatori era ancora in vita; i tempi dei campi di concentramento, delle esecuzioni in massa, degli odi razziali e di classe non erano ancora arrivati” [75]. Quel mondo ovviamente racchiudeva già in sé tutti i germi della propria rovina: “Vivevamo ancora negli spensierati anni che precedevano la prima guerra mondiale, non ancora nel mondo che Nietzsche aveva presagito. I superuomini, i distruttivi Machiavelli esistevano, ma ancora confinati nei caffè bohémien, negli studi e simili, o davano sfogo ai loro sentimenti sulle colonne dei giornali. Gli orologi del tempo già erano puntati. Hitler, Mussolini, Lenin, erano vivi, avevano le loro carte di viaggio e sapevano dove avrebbero dovuto cambiare convoglio. Ma a noi, comuni mortali, il futuro non era stato ancora rivelato. Grida sporadiche di sacerdoti oracolari suonavano importune, sgradevoli. Gli esseri umani sono innanzitutto ottimisti e desiderano sopravvivere, così s’otturano le orecchie con la cera della speranza, fino all’ultimo istante, ed evitano Cassandra” [76].

 

 

 

 
Fig. 52) George Grosz, Mussolini, il colonialista, 1935

Vivevamo in un quieto, poco dispendioso mondo che non aveva sentito l’odore del sangue e non aveva veduto cadaveri da quasi cinquanta, incredibili, anni di pace, ed era diventato tanto «molle» che la gente si sconvolgeva per il minimo segno d’umana ingiustizia. Eravamo vicini al disprezzo fascista-bolscevico nei confronti degli esseri umani, che vedeva l’uomo come un perfetto zero privo d’identità. Vicini, sempre più; eppure, vi sarebbero stati ancora alcuni anni di «diritti umani». Vi era ancora una traccia degli eccelsi umanisti i quali avevano vissuto e lavorato in Germania, nei primi dell’Ottocento, di Goethe, di Weimar in quanto concetto di cultura, dei fratelli Humboldt, di Hardenberg, Winckelmann, Büchner, del pensiero romantico tedesco – sebben quel movimento irrazionale avesse seminato ciò che non sarebbe sbocciato sino dopo il 1918. Prima della prima guerra mondiale, il socialismo tedesco s’identificava col pacifismo e, grazie a Dio, nel nostro paese non v’erano comunisti. Rosa Luxembourg, la «Rosa Rossa» era socialista; diventò comunista solo in seguito al collasso della Germania e dopo aver espresso a Lenin la propria disapprovazione di taluni principi” [77].

Un uomo solo contro le masse

Se c’è una linea di continuità lungo l’intera biografia, questa è l’orrore della massificazione. In ogni momento della sua vita, Grosz dice di essere terrorizzato all’idea di perdere la sua individualità e affidare il suo destino ad un movimento ‘di popolo’. Ciò vale già negli anni in cui è appena giunto da Dresda a Berlino, immediatamente prima della Grande Guerra: “Le mie speranze personali non furono mai con le masse, anche prima che conoscessi l’opera di Spengler e il chiarissimo Gustave Le Bon. Anche il mio modo di vivere dimostrava la mia tendenza a dissociarmi. Vivevo al di sopra d’ogni cosa e d’ognuno, in uno studio in una soffitta, più vicino alla luna, alle stelle, agli uccelli che alle persone, dalle quali avrei sempre potuto discendere, se ne avessi voluto voglia. Le mie speranze erano basate su me solo, non su altri. Senza essere un intellettuale egotista, solamente a me stesso prestavo attenzione. Volevo aver successo, questa era la summa e la sostanza della mia filosofia, e probabilmente il credo di molti giovani artisti. Naturalmente ero completamente apolitico [78]”.

 

 

 

 
Fig. 53) George Grosz. Disegno di scena per la rappresentazione del Buon soldato Švejk, 1928

La diffidenza – anzi l’odio proclamato –  nei confronti di ogni istituzione collettiva si materializza presto, negli anni del servizio militare durante la Prima Guerra Mondiale (a cui tuttavia – lo ricordiamo ancora una volta – partecipa come volontario): “Odiavo essere un numero; l’avrei odiato anche se quel numero fosse stato alto. Ne fui tanto angustiato che finalmente ebbi il coraggio di gridarlo. Lottavo contro la fetida stupidità e brutalità, ma restavo in una minoranza. Da parte mia non era che una semplice autodifesa. Non ero per alcun ideale o credo; io difendevo me stesso. Un credo? Ah! Credere in che cosa? Nell’industria pesante tedesca, nei grossi pescecani? Nei nostri illustri generali? O nella nostra diletta madre patria? Almeno avevo il coraggio di urlare ciò che molti pensavano. Probabilmente era follia, più che coraggio. Ognuno attorno a me aveva paura. L’avevo anch’io, ma non temevo di resistere ad essa. Di questo discusso tema, potrei scrivere pagine su pagine, ma ciò che ho da dire può essere visto nei miei disegni” [79].

 

 

 

 
Fig. 54) George Grosz. Disegno di scena per la rappresentazione del Buon soldato Švejk, 1928

Grosz viene congedato per motivi di salute, ma, col procedere della guerra, è nuovamente riarruolato (questa volta non come volontario): “Ero stato nuovamente richiamato, verso la metà del 1917. Questa volta dovevo addestrare reclute, e custodire e trasportare prigionieri di guerra. Ma, semplicemente, non ne potevo più. Mi trovarono una notte, quasi privo di sensi, con la testa nella latrina… Rimasi in infermeria per un tempo abbastanza lungo. Improvvisamente, mi dissero che stavo bene. Non era vero, avevo i nervi a pezzi, così rifiutai di alzarmi, poi, infuriato, assalii fisicamente il sergente medico. Non potrò mai dimenticare con quale lurido entusiasmo sette dei miei «compagni» di cura mi si lanciarono contro. Uno di loro, che nella vita civile era un fornaio, si gettò con tutto il suo peso sule mie gambe, esclamando con gioia: «Devo camminarti sulle gambe, devo calpestarle, le tue gambe! Questo ti calmerà un po’». Ottenne ciò che voleva. Questo incidente si stampò nella mia mente in maniera indelebile; come quella gente normale, innocua in altri momenti, m’avesse percosso, e come ne avesse goduto. Non v’era animosità personale. Erano mossi dal principio inconscio: noi non protestiamo, e non lo puoi fare neanche tu. «Lasciate che gli spezzi le ossa!». Probabilmente, dopo di ciò avremo [sic] continuato tranquillamente a giocare a carte, a bere birra assieme, a fumare e a raccontarci storielle sporche. Questo accadde nel 1917, tempo in cui nessuno piú credeva in qualcosa, e noi nell’infermeria ci nutrivamo di vegetali secchi, caffè fatto con le rape e miele artificiale che intaccava le pareti del nostro intestino. Non avevo mai creduto nella solidarietà delle masse, e mai avevo desiderato di vivere con le masse; ma allora, in guerra, quando potei toccare con mano cosa siano le cosiddette masse, trovai solidarietà solo in casi isolati, da amico ad amico” [80].

 

 

 

 

 
Fig. 55) George Grosz. Disegno di scena per la rappresentazione del Buon soldato Švejk, 1928

Anni dopo, qualche giorno prima di lasciare la Germania per gli Stati Uniti, parlando questa volta dei primi anni trenta, Grosz conferma: “Allora m’interessavo ancora di politica, ma la mia fede nelle masse era diventata vacillante – come, francamente, il mio credo nell’arte come «missione». Avevo gradualmente recepito che la propaganda era molto sopravvalutata, che gli agitatori non capivano che la loro azione aveva su loro stessi un effetto diverso da quello che esercitava sulle loro masse tanto amate, e che i leader, coi loro piacevoli slogan, consideravano le masse proletarie alla stregua di un branco di pecore, del quale essi si ponevano alla testa” [81].

La dimensione del racconto

Una delle caratteristiche principali di Una autobiografia – lo si è già detto – è la dimensione del racconto. Basti pensare, ad esempio, al lungo capitolo in cui Grosz spiega la crescente presenza del nazismo in Germania narrando una favola dalla conclusione infausta (intitolata “Un racconto di fate”) [82]. La dimensione del racconto è prevalente anche nel ricordo della visita all’anziano romanziere Karl May [83], nelle pagine in cui spiega il fallito tentativo del Dottor Stadelmann – uno dei sostenitori del dadaismo – di richiamare in vita gli spiriti [84], nel resoconto irriguardoso del ricevimento all’ambasciata sovietica di Berlino [85], nella bella descrizione del viaggio nel capitolo “La Russia nel 1922” [86], nelle pagine sulla “Vita in America” in cui racconta con molto distacco dei suoi umilianti tentativi di farsi assumere a Hollywood [87]. Insomma, il Grosz di Un’autobiografia è, soprattutto, uno scrittore.

 

 

 

 
Fig. 56) George Grosz, Tatlinesque diagram, 1920

Vorrei qui riprodurre, a conclusione di questa recensione, alcune pagine di contenuto erotico. Contengono il ricordo della prima volta in cui il giovane Grosz, ancora bambino, spiando da una finestra, vede una donna spogliarsi e l’osserva meticolosamente. Quella donna è, per molti aspetti, la sua prima modella; forse l’artista racconta quell’episodio avendo in mente i movimenti e le posizioni che, nei decenni successivi, ha chiesto alle modelle di assumere. All’episodio – che qui riporto solo in parte – è dedicato un intero capitolo: “Sbirciando nella tredicesima stanza” [88]. Da un punto di vista temporale, come si è detto, si tratta di una vicenda del periodo giovanile, già rievocato nei ricordi pubblicati sulla rivista Kunst und Künstler nel 1931. Tuttavia nel 1931 l’artista non ne parla, e, a mio parere, queste pagine sono state scritte molto dopo quella data, molto probabilmente negli Stati Uniti.

 

 

 

 
Fig. 57) George Grosz, da Ecce Homo, 1922-1923

Proprio negli anni americani, infatti, Grosz sviluppa appieno la vena erotica che era sempre stata presente nella sua arte (sin dal periodo Dada degli anni venti), facendone uno dei temi costanti della sua attività e producendo una serie molto ampia (persino ripetitiva) di nudi di donna. Sembra quasi che Grosz abbia percorso la stessa traiettoria che ha interessato gli ultimi anni di vita di Reboir, quando scoprì Rubens come fonte d’ispirazione. Rispetto ai decenni precedenti, i nudi di Grosz negli anni americani sembrano aver abbandonato ogni aspetto caricaturale e paradigmatico della condizione umana nella società (fino ad allora la donna era stata sempre rappresentata nuda per dissacrare; quasi sempre, la nudità e la giovinezza delle donne erano contrapposte alla presenza di uomini sempre più anziani,  ritratti in abiti civili e professionali, a segnalare che si trattava di scene di prostituzione) e rivelano piuttosto il piacere dell’osservazione di corpi flessuosi, in posizioni dalla forte carica erotica.

 

 

 

 

 
Fig. 58) Auguste Renoir, Dopo il bagno, 1910

Nei nudi americani di Grosz, la donna è spesso immersa nella natura, come espressione della comune bellezza del corpo femminile e del paesaggio. Secondo i curatori della mostra “Grosz. Gli anni in America 1932-1958”, a servire da modella nelle dune dell’amata spiaggia di Capo Cod, nel Massachusetts, fu la moglie Eva (1895-1960) [89], ritratta, a secondo dei casi, alla maniera di Rubens, Boucher o Dürer. Non bisogna dimenticare, peraltro, che Grosz fu per molti anni professore di nudo all’Arts Students’ League of New York.

 

 

 

 
Fig. 59) George Grosz durante una lezione di nudo nel 1949. Immagine tratta da  Una autobiografia (versione italiana, pagine 252-253)

Credo, dunque, che vi sia un parallelismo intellettuale tra l’inserimento di questo capitolo nell’autobiografia, con la descrizione quasi ‘felliniana’ del corpo maestoso della zia di un amico nell’atto di spogliarsi e i disegni di nudo dei tardi anni trenta e dei primi anni quaranta. La prospettiva del racconto nell’espressione scritta ha come suo elemento corrispondente la chiara volontà descrittiva del disegno. Grosz artista e Grosz scrittore sono in piena sintonia. Vi sono persino corrispondenze lessicali: descrivendo il corpo della donna che, bambino, osserva di nascosto, il pittore parla di “dune carnose” [90], mentre molti delle sue immagini sono rappresentazioni di nudo femminile nelle dune.

 

 

 

 
Fig. 60) George Grosz, Autoritratto con nudo, 1937

 

 

 

 

 
Fig. 61) George Grosz, Nudo di donna fra le dune di Cape Cod, 1938

Il dettaglio della scrittura, la cura della descrizione dei movimenti, il diario delle emozioni del giovane, l’attenzione alla caduta di ogni capo d’abbigliamento, la progressiva scoperta di sempre più remote parti del corpo, tutto ciò sembra rappresentare il corrispondente letterario di un’arte che è divenuta scopertamente sensuale. L’atteggiamento della critica è stato quello di considerare i nudi di Grosz come un’appendice ‘proibita’ della sua attività d’illustratore per riviste leggere come Vanity Fair, un po’ come se si trattasse di fumetti erotici segreti. L’autobiografia (in particolare queste pagine sulla sua prima scoperta di un nudo femminile) ci aiuta però a scoprire un’ispirazione sempre presente nella sua vita e ormai prevalente, negli anni quaranta, sul filone politico-sociale.

Ecco lo scritto: George quasi ancora bambino è andato a visitare un amico e, sul punto di entrare la sua casa, ha scoperto che può ammirare di nascosto – attraverso una fessura – il corpo di una donna che si sta spogliando.

Nel frattempo, la donna aveva aperto la blusa, e io guardavo attentamente, deliziato, dalla fessura a forma di cuore. I suoi seni gonfi, prosperosi, erano spinti verso l’alto dal corsetto alla moda. Erano come due pesche mature in un cesto, e il cesto era ornato di pizzi, come in un rinomato negozio di frutta, perché la moda decretava che una camicia dovesse essere indossata sotto il corsetto. Poi si tolse la gonna. S’abbatté come una conchiglia, fuori portata della luce, nel circolo d’ombra del tappeto. La seguì una sottoveste luccicante. E pure questa cadde sul pavimento. Erano come pelli, pensavo, sconvolto a quella vista. 

 

 

 

 
Fig. 62) George Grosz, Nudo di donna visto da dietro, 1939

La zia del mio amico doveva avere allora circa trentotto anni. Era una cosiddetta signora altera, il tipo di donna che a quei tempi gli uomini prediligevano. C’era stato qualche pettegolezzo quando il padre del mio amico l’aveva portata nella sua casa: veniva da una grande città ed era vestita con ricercatezza; bastò questo perché nella nostra piccola città sorgessero sospetti. Non si sapeva nulla di specifico; si supponeva avesse avuto un affare d’amore, o qualcosa di simile, ma erano solo illazioni, mormorii, perché, ripeto, nulla di concreto si sapeva. E il suo comportamento era sempre ineccepibile, impeccabile, anche con noi ragazzi.

 

 

 

 

 
Fig. 63) George Grosz, Nudo di donna sdraiato, 1939

Era statuaria, anche se d’altezza media; aveva capelli scuri, non neri ma scuri, acconciati in una crocchia… E io ero là, paralizzato. Ogni cosa attorno a me si dissolveva. I miei occhi erano in quella stanza. La donna ora era in piena luce, semi spogliata. Le bianche mutande di batista con il nastro blu erano lunghe, fin sotto le ginocchia. Sebbene fossero doviziosamente tagliate, aderivano strettamente alle cosce forti. Erano allacciate attorno alla vita con un nastro. Vidi i robusti polpacci nelle calze nere che si assottigliavano nello scendere fino agli stivaletti allacciati che sembravano eccessivamente piccoli.

 

 

 

 
Fig. 64) George Grosz, L’artista e la modella fra le dune, 1940

Non avevo mai veduto nulla di simile, forse ne avevo solamente sognato ad occhi aperti. Lei si piegò, raccattò gli indumenti dal pavimento – le curve dei suoi fianchi pieni s’accentuarono un istante, strettamente fasciati dal batista – e li lanciò distrattamente su una sedia.

Attorno a me non un rumore. Assorto com’ero nell’avvincente spettacolo, qualcuno sarebbe potuto arrivare e cogliermi sul fatto. La donna si diresse al lavabo e tornò sui suoi passi. Si slacciò qualcosa sulla schiena; sollevò le gambe e sgusciò dai mutandoni. La camicia, un poco gualcita [sic], frusciò giù come una cascata. Era molto lunga. Raccolse le mutande per riporle sulla sedia con altri indumenti. Era ora in camicia, corsetto, e reggiseno che si tolse; il corsetto allacciato creava rotoli di carne, visibili anche sotto la comoda camicia. Si pose le mani sui seni; cominciò ad aprire i ganci del corsetto. Ci voleva un certo sforzo, potevo, quasi, sentire l’affanno del respiro. S’aperse la parte superiore del corsetto. I grandi seni furono liberati, si riversarono fuori piano, ancora trattenuti dal bordo della scollatura triangolare di pizzo di camicia. 

 

 

 

 

 
Fig. 65) George Grosz, Modella nello studio dell’artista, 1940

Adagiò il corsetto con gli altri indumenti. Ora indossava solo la camicia. Esitò un po’; sollevò una mano al capo come intendesse ravviarsi i capelli, ma scese sulla camicia. Movimenti inconsci, probabilmente. Si sedette sulla sponda del letto; spinse di lato gli indumenti che v’erano sopra e si portò nuovamente la mano ai capelli, sfilandosi una grossa forcina. Si piegò accavallando le gambe; si sbottonò le scarpe. Intravedevo, attraverso la scollatura, i seni che pendevano come frutta matura. Si sfilò le scarpe e arrotolò le calze. M’avvidi solo allora che portava le giarrettiere. I suoi gesti avevano spostato d’un tanto la camicia rivelando la polpa rosata delle cosce, dove le giarrettiere avevano lasciato il segno. Sull’orlo del letto, era in piena luce. S’arrestò un istante, sbadigliò e di nuovo si passò le mani sulla camicia. Si raddrizzò. Notai con piacere che i seni, sotto la bianca batista, erano ritti, come montagnole. S’alzò in piedi improvvisamente, le mani raggiunsero le ascelle, e si sfilò la camicia. 

 

 

 

 
Fig. 66) George Grosz, Nudo di donna in piedi con braccia alzate in un paesaggio, circa 1942

Osservai senza respirare quel morbido e voluttuoso corpo di donna matura, che con lentezza emergeva dal candido involucro. Sembrava che lo stesso arredamento della stanza partecipasse a quello spettacolo. Non stava allungandosi, la sedia, per poter vedere meglio? Non pareva che la lampada guizzasse? Assorbivo tutto, in un’eccitazione mozzafiato. Ero turbato, ma incantato. Era fatta così, una donna! Queste due metà!

Si volse e mostrò una schiena scultorea. Estasiato, ammiravo i rosei, torniti globi delle natiche, con quelle buffe fossette. Notai i rotoli di grasso che spesso hanno le donne voluttuose. E con felice sorpresa scoprii qualcosa di scuro, come un largo cuore peloso, sotto il ventre rotondo e chiaro.

Mosse alcuni passi con naturalezza; e come infatti poteva sapere che qualcuno, in questo caso io, la stesse guardando? Si stirò, si lisciò il corpo; giunse allo specchio e sollevò le braccia, cominciando a pettinarsi. Aveva peli sotto le ascelle, scuri come i capelli. Erano piccole oasi, questi ciuffi di peli, che punteggiavano un vasto e armonico paesaggio di dune carnose, dove poteva rifugiarsi l’assetato per riposare, dopo aver vagato sulle arroventate dune, piccole e grandi. Si sfilò le forcine dai capelli, ne tenne qualcuna in bocca e depose le altre sul tavolo. Aveva pure una sorta di toupet, che si usava per rendere l’acconciatura più tonda e più alta. I suoi capelli si srotolarono e le coprirono metà schiena. Cercò uno spillone che le era caduto, chinandosi e volgendomi la schiena. Non lo rintracciò immediatamente, e di nuovo scorsi quella macchia scura, quel qualcosa in forma di cuore stretto fra le cosce. 

 

 

 

 

 
Fig. 67) George Grosz, Nudo di donna seduta, 1945

Mi sentii febbricitante. Ero scosso dall’eccitazione e non riuscivo a strapparmi di lì. Ero intontito. Com’era possibile che questa rispettabile signora borghese producesse a un tratto un’impressione così diversa? Era una metamorfosi? Riconoscevo a fatica la zia del mio amico, per il modo col quale si muoveva in quella sua camicia. Qualcosa era venuto via insieme con i vestiti, e questo era il frutto stesso. Sensualità femminile allo stato puro, completa d’ogni attributo. Curve bianco-rosate, ombre di carne, vene bluastre in evidenza sulla pelle bianca. Mi venne in mente di colpo un cavallo che avevo veduto. Una giumenta fulva, grigia e bianca. Non aveva i medesimi posteriori? Questa fu la prima volta che vidi una donna nuda e questa esperienza mi stimolò sino al midollo. Era una cosa immensa” [91]. 

 

 

 

 

Fig. 68) George Grosz, Donna sdraiata fra le dune, 1946

NOTE

[45] Grosz George – Una autobiografia, Milano, SugarCo Edizioni, 1984, 336 pagine. Citazione a pagina 245. Il testo del telegramma è contenuto in George Grosz, The Years in America. 1933-1958, Ostfildern, Hatje Cantz, 279 pagine. Citazione a pagina 244.

[46] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 245.

[47] George Grosz, The Years in America (citato), p. 244.

[48] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 250.

[49] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 251.

[50] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 251.

[51] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 255.

[52] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 255.

[53] Si veda: http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1932/0287?sid=c3906b874b9e99b972614f5fffc038f0;

http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1932/0331?sid=c3906b874b9e99b972614f5fffc038f0 e

http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1932/0447?sid=c3906b874b9e99b972614f5fffc038f0.

[54] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 266.

[55] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.

[56] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.

[57] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.

[58] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.

[59] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 269.

[60] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 270.

[61] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 272.

[62] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 296-298.

[63] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 302.

[64] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 308-310.

[65] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 304.

[66] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 311-314.

[67] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 314-317.

[68] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 321.

[69] Si veda: http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-28956891.html.

[70] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.

[71] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 8.

[72] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 110.

[73] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 165.

[74] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 168.

[75] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 22.

[76] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.

[77] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.

[78] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.

[79] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 110-111.

[80] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 121.

[81] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 265.

[82] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 220-239.

[83] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 85-86.

[84] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 156-163.

[85] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 169-173.

[86] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 178-200.

[87] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 281-291.

[88] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 30-38.

[89] George Grosz, The Years in America (citato), p. 86.

[90] George Grosz, The Years in America (citato), p. 36.

[91] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 33-38.

 

Postato 12th February da Giovanni Mazzaferro

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