GIOVANNI (A SINISTRA) E FRANCESCO MAZZAFERRO
LETTERATURA ARTISTICA.BLOGSPOT.COM–5 FEBBRAIO 2018
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George Grosz
Una autobiografia
Milano, SugarCo, 1984, 336 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
Fig. 1) L’edizione italiana del 1984 |
Storia di un testo
George Grosz (1893-1959) ci ha lasciato un’autobiografia e un’imponente raccolta di lettere (queste ultime pubblicate, solo in parte, nel 1979; le recensiremo separatamente). L’autobiografia esce per la prima volta nel 1946 negli Stati Uniti, ed è in inglese. L’editore Dial Press la pubblica con il titolo sibillino A little yes and a big no. The autobiography of George Grosz (Un piccolo sì ed un grande no. L’autobiografia di George Grosz). Si tratta di un testo concepito per un pubblico americano (Grosz vive dal 1932 negli Stati Uniti, e ha acquisito la cittadinanza dal 1938), anche se scritto in tedesco e tradotto in inglese da Lola Sachs Dorin. Sappiamo che Grosz aveva firmato il contratto con l’editore già nel 1941 [1]; aveva l’incarico di scrivere le sue memorie anche per spiegare al lettore americano, il cui paese stava per entrare in guerra, cosa fosse successo in Germania nei decenni precedenti e avesse spinto l’artista all’esilio volontario negli Stati Uniti.
Fig. 2) La prima edizione dell’autobiografia di George Grosz, pubblicata dalla casa editrice Dial Press nel 1946 |
L’autobiografia di Grosz va dalla giovinezza alla fine della seconda guerra mondiale. Alcune sezioni del libro riprendono i Ricordi (Lebenserinnerungen) che Grosz ha già pubblicato nel 1931, in tre puntate [2], su Kunst und Künstler, rivista berlinese dell’editore Bruno Cassirer. Quei Ricordi sono tutti dedicati al periodo degli studi a Dresda e al trasferimento a Berlino, tra 1908 e 1912. Forse l’artista ha già l’intenzione di scrivere un’autobiografia in Germania all’inizio degli anni Trenta, anche per l’interessamento di Cassirer. Se così è, la presa del potere da parte di Hitler nel 1933 rende questo disegno del tutto impossibile: l’arte di Grosz è inserita dal regime nazista in quella considerata ‘degenerata’ e la casa editrice di Cassirer viene chiusa in seguito alle leggi razziali.
Fig. 3) La prima parte dei Ricordi (Lebenserinnerungen) di Grosz, pubblicata su Arte ed Artisti nel 1931 |
La prima versione in tedesco dell’autobiografia compare solo nel 1955 con il titolo Ein kleines Ja und ein großes Nein: Sein Leben von ihm selbst erzählt ( Un piccolo sì ed un grosso no: la sua vita raccontata da sé), per i tipi dell’editoreRowohlt di Amburgo. In contemporanea, sempre nel 1955, ampie sezioni del testo sono pubblicate sul prestigioso settimanale Die Zeit [3].
Fig. 4) La prima edizione tedesca, pubblicata da Rowohlt nel 1955 |
Rispetto al testo inglese del 1946, la versione tedesca del 1955 è arricchita da un nuovo capitolo sul viaggio compiuto da Grosz nel 1922 in Unione Sovietica, insieme allo scrittore danese Martin Andersen-Nexo. I due erano stati invitati dal regime comunista in quanto intellettuali ‘amici’, per scrivere in Occidente un testo celebrativo della nuova Russia sovietica durante l’esperimento della Nuova Politica Economica (nel corso del viaggio furono persino presentati a Lenin). L’obiettivo principale dell’inserimento del capitolo sulla Russia nell’Autobiografia, tuttavia, è proprio quello di chiarire la sostanziale estraneità del pittore rispetto al mondo comunista. Non a caso, il capitolo era già stato pubblicato, singolarmente preso, nel 1953 (sempre in tedesco, con il titolo “Russlandsreise 1922” ovvero Viaggio in Russia nel 1922) nella rivista di cultura Der Monat – Eine Internationale Zeitschrift für Politik und geistiges Leben (Il mese – rivista internazionale di politica e vita culturale [4] – un mensile pubblicato a Berlino Occidentale e finanziato in chiave chiaramente anti-sovietica dal governo degli Stati Uniti, in piena guerra fredda).
Fig. 5) Il numero 56 della rivista Der Monat – Eine Internationale Zeitschrift für Politik und geistiges Leben, con l’articolo “Russlandreise 1922” di George Grosz |
Trasferitosi di nuovo in Germania nel 1959, Grosz prende contatto con il mondo editoriale tedesco per sondare l’interesse in merito a un secondo volume di memorie, per il quale aveva già raccolto i materiali. Non se ne farà nulla: il pittore muore d’infarto solamente tre mesi dopo il rientro nella patria d’origine.
La fortuna del testo
Basta verificare quante siano state le ristampe tedesche e le traduzioni in lingua per rendersi conto che quella di Grosz è uno dei testi più fortunati tra quelli di artisti tedeschi del XX secolo. Dopo l’edizione tedesca del 1955, le ristampe in Germania sono del 1974, 1986, 1995 presso Rowohlt e del 2009 con la casa editrice Schöffling.
Fig. 6) La più recente versione tedesca, pubblicata dalla casa editrice Schöffling nel 2009 |
Fuori dalla Germania compare una versione olandese nel 1978 (Een klein ja, een groot nee: herinneringen). Nel 1982 esce una nuova edizione tascabile in lingua inglese, questa volta per i tipi dell’editore Allison and Babsy, tradotta da Arnold Pomerans. È davvero singolare che, quasi contemporaneamente (1983), esca una nuova edizione americana per i tipi di Macmillan (con testo inglese di Nora Hodges); questa volta il titolo cambia e diventa il più prosaico An Autobiography. Si tratta di una versione rilegata e arricchita da centinaia di disegni e illustrazioni dell’artista; a sua volta sarà ristampata nel 1997 da University of California Press, con una nuova prefazione di Barbara McCloskey, la maggiore studiosa americana di Grosz [5].
Fig. 7) La versione americana pubblicata da Mac Millan nel 1983 |
La versione italiana Un’autobiografia del 1984 (tradotta in modo davvero eccellente in italiano dallo scrittore milanese Giovanni Nebuloni) è talmente ispirata, in termini editoriali, a quella americana dell’anno precedente da avere lo stesso titolo semplificato, la stessa copertina e la medesima impaginatura. Il titolo completo e originale dell’autobiografia ricompare, invece, nella sua forma estesa nella versione francese (Un petit oui et un grand non. Sa vie racontée par lui-même) e ceca del 1999 (Malé Ano a velké́ Ne: vlastní životopis) e in quella spagnola del 2011 (Un sí menor y un no mayor. Memorias de George Grosz).
Fig. 8) La versione francese pubblicata dall’editore Jacqueline Chambon nel 1999
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L’immagine dell’artista
Perché il titolo originario dell’autobiografia è ‘Un piccolo sì e un grande no’? Nel volume il pittore si presenta al pubblico americano come artista slegato da ogni convenzione, individualista, anticonformista, e dunque più propenso a negarsi che ad accettare compromessi, più ad opporsi a ogni tendenza prevalente che a partecipare a movimenti generalizzati, più ad andare controcorrente che a seguire le mode.
L’immagine che Grosz ci offre di sé è quella di un uomo che disprezza profondamente le masse: nell’ambito dell’autobiografia utilizza più volte il termine ‘masse’ in senso spregiativo, per esprimere il disgusto nei confronti dei soldati che accettano, e anzi sostengono il militarismo degli ufficiali, dei cittadini tedeschi che non riescono a far uso della libertà data loro dalla Repubblica di Weimar ed abbracciano entusiasti il nazismo, ma anche degli americani schiavi del consumo di massa e dell’industria dello spettacolo. Grosz non esita a descriversi come un cinico, un misantropo, un disilluso. E, comunque, è sempre pronto a contestare e a vivere in solitudine (il grande no) pur di non accodarsi e aderire a sentimenti collettivi (il piccolo sì).
Fig. 10) George Grosz, Fantasmi, 1934 |
Un’autobiografia di chiaro stampo letterario
Motivo importante della fortuna dell’autobiografia di George Grosz è la sua leggibilità: le 336 pagine dell’edizione italiana si divorano tutte d’un fiato. Prevale senza dubbio la dimensione del racconto. Se si vuole scoprire un’immagine affascinante, veloce e variopinta della Germania degli anni 1910-1920 e degli Stati Uniti degli anni 1930-1940, questo è un testo da leggere. In molte sezioni, il libro somiglia più a un romanzo che al diario meditato di un pittore che riflette sulla sua vita d’artista (non abbiamo forse detto lo stesso anche per le memorie di Paul Klee?).
Fig. 11) Richard Müller, L’agonia, 1913 |
La prefazione dell’autobiografia spiega che molti avvenimenti sono stati intenzionalmente omessi (il pittore introduce l’immagine di una ‘nebbia’ che li ha avvolti, parlando di ‘dimenticanza’; sappiamo però che aveva conservato un archivio accurato di tutte le sue cose) [6].
Fig. 12) Otto Dix, Metropolis, 1927-1928 |
Alcune omissioni colpiscono davvero. In primo luogo è evidente la reticenza dell’artista nei confronti di Richard Müller, suo insegnante all’Accademia di Belle Arti di Dresda, sotto il quale studiò nel 1910. Sappiamo (le lettere di Otto Dix in merito ne sono conferma) che, con l’arrivo al potere di Hitler nel 1933, Müller si trasformò in censore implacabile, espellendo dall’Accademia di Dresda figure come lo stesso Dix stesso e molti altri insegnanti di indirizzo espressionista. Ebbene, Grosz descrive certamente Müller [7] come uomo insopportabile, autoritario e intollerante nei confronti di ogni avanguardia (durante una lezione Müller dichiara letteralmente che Nolde “si ficca le dita nel culo e imbratta la carta” [8]), ma non dice che (sia pur decenni dopo il loro incontro) sarebbe stato uno dei maggiori protagonisti dell’epurazione nazista. Un’epurazione che, in termini artistici, – lo si ricordi – riguardò anche lui. Tuttavia Grosz ricorda Müller come un insegnante che non è noioso, e apprezza le sue qualità come pittore. Questi giudizi positivi possono essere comprensibili nei Ricordi pubblicati da Grosz su Kunst und Künstler nel 1931 (in quella data Müller non si era ancora rivelato appieno un attivista politico spregiudicato a servizio del regime), ma sorprende che nella versione del 1946 non sia stato modificato nulla. Certo, sarebbe stato facile per Grosz aggiungere anche un breve accenno al passato nazista di Müller: se non lo fece, credo che vi dovessero essere dei motivi: forse aveva un debito di riconoscenza nei confronti di Müller per avergli insegnato a disegnare in maniera molta precisa – una delle cose che considerava più importanti.
Fig. 13) Max Beckmann, La notte, 1918-1919 |
Non è certo cosa da poco (almeno per il nostro immaginario artistico, che oggi, sostanzialmente, li accomuna quali severissimi censori della società tedesca all’epoca della Repubblica di Weimar) che Grosz non parli mai di Otto Dix (d’altra parte dalle lettere di Dix sappiamo che l’antipatia era reciproca). Uscendo dal caso specifico di un’antipatia personale, va peraltro segnalato che l’autobiografia non contiene riferimenti alla corrente artistica della “Nuova Oggettività” (sono invece molto dettagliate le notizie rispetto alla partecipazione al mondo Dada). Oggi la maggior parte delle esposizioni su Grosz lo vedono come capofila proprio della “Nuova Oggettività”, negli anni più creativi della Repubblica di Weimar. Invece, il termine Neue Sachlichkeit (lanciato nel 1925 da Gustav Friedrich Hartlaub con una famosa mostra a Mannheim) compare una sola volta, a proposito di Bertold Brecht e non identifica un movimento pittorico, ma un modo di pensare ‘oggettivo’, attento alla scienza e alla statistica. Mancano anche riferimenti ai maggiori pittori di quella corrente (oltre che a Dix, non si legge nulla, ad esempio, su Max Beckmann). Se dovessimo impostare una mostra dedicata a Grosz sulla base dell’autobiografia, molti degli accostamenti che oggi vengono proposti al pubblico si rivelerebbero per quello che sono: ricostruzioni artificiali operate nel dopoguerra.
Desideri irrealizzati e realtà nascoste
Insomma, l’autobiografia propone l’immagine, certamente interessante, di Grosz come uomo e intellettuale, fa luce sulle sue amicizie e sui suoi affetti, ma non restituisce un’immagine del pittore in linea con quella che è oggi l’interpretazione prevalente della sua arte. Da qui l’importanza di tornare a leggerla, ponendoci almeno una serie di interrogativi. Che cosa ci ha voluto dire Grosz sulla sua arte, che forse non abbiamo ascoltato? Che cosa sappiamo, invece, su di lui e sulla sua creazione artistica che si è volontariamente dimenticato di scrivere?
Fig. 14) George Grosz, Paesaggio a Cape Cod, 1936 |
Uno dei messaggi dell’autobiografia oggi più ignorati è che Grosz ripudia, dopo il trasferimento negli Stati Uniti, gran parte della propria produzione precedente, che considera semplicemente caricaturale, e non arte nel senso puro del termine. Il passaggio dallo stile dissacrante dell’epoca di Weimar ai paesaggi e ai nudi degli anni americani è spesso interpretato come una ‘regressione’, dovuta all’impossibilità di praticare un’arte politicamente aggressiva in un mondo dominato dal sistema di mercato capitalista e dai gusti consumistici. Grosz, invece, ne dà una lettura assolutamente diversa: considera quel passaggio come la conseguenza di una maturazione artistica, ma anche come il ritorno alla propria vena originale, andata persa per colpa della guerra. Il fatto che la prima mostra sull’arte ‘americana’ di Grosz si sia tenuta alla David Nolan Gallery di New York solamente nel 2009 [9] spiega bene quanto la ricezione del suo messaggio sia stata di fatto inesistente.
Fig. 15) George Grosz, Donna nuda tra le dune di Cape Cod, 1938 |
Ne consegue che Grosz si trova, per uno strano gioco del destino, in una situazione molto simile a quella di Dix, che nelle sue lettere rivendica l’autenticità della sua arte degli anni ‘30 e ‘40, che abbandona i temi politici e sociali dell’arte di Weimar ed è invece dominata da paesaggi e temi religiosi, e cerca invano di proporla al pubblico tedesco come la sua creazione più autentica (sia nella Germania Federale sia in quella Democratica). Entrambi non riusciranno nella promozione del loro nuovo linguaggio pittorico: il loro (enorme) successo in Germania e nel mondo, dal dopoguerra fino a oggi, rimarrà esclusivamente legato alla produzione nel periodo di Weimar, e a una creazione artistica di chiara impronta politica. Come spiegare tutto ciò? Nel dopoguerra, sia negli Stati Uniti sia in Germania, la pittura figurativa entra in crisi (è associata sia all’arte nazista sia a quella comunista) e viene rapidamente sostituita dall’arte astratta. Non a caso, Karl Hofer e Max Pechstein sono protagonisti negli anni ‘50 di una fallita crociata contro l’arte astratta; chi rimane ancorato al figurativo è sospettato di antimodernismo o (al peggio) di adesione a visioni totalitarie del mondo. L’adesione di Grosz e Dix a un’arte classicista e figurativa non convince.
Fig. 16) George Grosz, Germania: un racconto d’inverno, 1918 |
Nell’ambito dei temi che Grosz cerca di sminuire nel suo libro, rientra senza dubbio la militanza in gruppi di artisti favorevoli alla rivoluzione sovietica, immediatamente dopo la prima guerra mondiale. Nell’autobiografia l’artista presenta questa fase con i toni dell’ironia e addirittura del ridicolo: “Mai mi diedi anima e corpo alla politica. Tenevo discorsi non perché ne fossi convinto veramente, ma piuttosto perché ero continuamente attorniato da persone che discutevano e le mie esperienze trascorse non mi avevano insegnato nulla di meglio. I miei discorsi erano sciocche ripetizioni di banalità liberali, ma, mentre le mie parole scorrevano dolci e soavi come miele, finivo per credere io stesso a quelle sciocchezze, intossicato dal suono della mia stessa voce. Una volta venni issato sulle spalle d’un uomo, fra le grida di: «Lunga vita al proletariato!». Come al solito, ero stato propugnatore d’una tesi della quale non sapevo nulla: la libertà accademica. Dipinsi un quadro spaventosamente bello di come da quel momento in poi, grazie alla conquista del potere da parte del proletariato, ogni spazzino, ogni operaio si sarebbe potuto iscrivere alle accademie e alle università. Un privilegio, dissi con sarcasmo tagliente, prima d’allora esclusivo dei figli della classe abbiente. «Lunga vita al proletariato!»” [10].
Fig. 17) George Grosz, Luce ed aria al proletariato – la vacanza del lavoratore, (dalla serie Gott mit uns, 1919, pubblicata nel 1920) |
Negli anni seguenti (e in maniera più evidente dopo il viaggio in Russia nel 1922) Grosz si allontanò dalle posizioni filo-sovietiche, ma le sue immagini degli anni venti continuano ad essere universalmente interpretate negli anni trenta (sia dai suoi estimatori sia dai suoi oppositori) come espressione di una critica durissima nei confronti della Repubblica di Weimar, condotta da posizioni di sinistra radicale. Non ci si può insomma sorprendere se, sfogliando i cataloghi dedicati alla produzione di quegli anni, Grosz viene considerato, dagli ambienti nazionalisti prima (e dai nazionalsocialisti poi), come il maggior esponente di un preteso ‘culturbolscevismo’ pittorico. Ebbene (lo sottolinea Barbara McCloskey nella sua introduzione alla versione americana del 1997), l’intera autobiografia dell’artista sembra invece essere stata scritta da Grosz per smentire quell’immagine.
Fig. 18) George Grosz, Il sangue è la salsa migliore – i comunisti cadono e le riserve monetarie crescono (dalla serie Gott mit uns, 1919, pubblicata nel 1920) |
Dalla giovinezza alla Grande Guerra: realismo, caricatura, illustrazione
Cerchiamo ora di cogliere nell’autobiografa alcuni spunti che offrano elementi d’interpretazione per comprendere l’opera di Grosz. Fin dalle prime pagine, egli scrive di sempre aver concepito l’arte come rappresentazione della natura e si descrive, quindi, come un realista nato: “M’attirava l’intento di evocare ciò che era la natura. Questo piacere della franchezza, dell’onesta imitazione, non m’avrebbe più lasciato” [11]. “Disegnai e ricopiai ogni sorta di cosa” [12]. Ancora bambino, nella provincia tedesca più remota, in Pomerania (oggi Polonia), prende corsi di disegno da decoratori e disegnatori che s’ispirano all’arte secessionista viennese di Koloman Moser (1868-1918). Il suo, sin dal principio, è “uno stile lineare” [13].
Fig. 19) Koloman Moser, Francobollo per i sessant’anni del regno di Francesco Giuseppe, 1908 |
Il gusto dell’osservazione del mondo reale e il ruolo fondamentale della linea – due dei tre elementi propri della creazione artistica di Grosz nel corso della sua vita – sono insomma presenti sin dagli anni della primissima giovinezza. Il terzo, invece (ovvero la forte vena satirica) si manifesterà col tempo: “La mia propensione verso l’ironia, per non dire la satira, non aveva fatto ancora la sua comparsa, sebbene vi fossero indicazioni accidentali del dono futuro” [14].
Fig. 20) I disegni presentati da George Grosz per l’ammissione all’Accademia di Dresda, 1908 e 1909. Fonte: Kunst und Künstler, 1931, Numero 1, pagina 17. |
All’Accademia di Dresda – in cui entra nel 1908, a soli quindici anni – Grosz riceve un’educazione tradizionale (“un residuo della vecchia tradizione accademica di Winckelmann e Cornelius” [15]), basata sulla copia di modelli greci antichi (“Poiché non facevamo altro che ricopiare i noiosi busti di gesso, il lavoro diventava monotono. Ci sembrava che i nostri sforzi non avessero utilità alcuna. Nessuno si peritava d’esporci la bellezza classica delle proporzioni negli originali, così non la potevamo comprendere. Inoltre, vivevamo in tempi che glorificavano la bruttezza e rigettavano la proporzione classica. Copiare questi esempi della grande arte greca non era altro che una stupida occupazione” [16]).
Fig. 21) Paul Klee, Alba, 1907 |
E qui va ricordato che, sin dal 1905, a Dresda era attivo il primo gruppo espressionista tedesco, il Ponte (Die Brücke). I giovani dell’Accademia – scrive Grosz – ne sono entusiasti e sono affascinati in particolar modo da Nolde; lo considerano una specie di pazzo creativo, che dipinge abbandonando i pennelli e usando stracci per posare il colore sulla tela al di fuori di ogni regola. Grosz è all’Accademia negli anni in cui a Dresda arriva l’eco di Klee e Kandinskij, dei cubisti, dei futuristi, di Delaunay, Chagall ed Ensor [17].
Fig. 22) Emil Nolde, Fiori blu, 1908 @Nolde Stiftung Seebüll |
Alla fine degli studi a Dresda, Grosz, in procinto di trasferirsi a Berlino (siamo nel 1912), confessa – pur essendo un buon disegnatore – di non aver ancora imparato il mestiere di pittore (“Ripensando agli anni vissuti a Dresda, senza rancori posso affermare che in realtà non appresi molto” [18]) e non si considera ancora un artista che opera “nell’ordinato schema della vecchia tradizione” [19]. Ritiene che la sua sia ancora una semplice vocazione per l’illustrazione (molto ispirata dalla sua personale predilezione per il disegno giapponese), che diviene sempre più di stampo caricaturale (grazie all’amore per Daumier e Toulouse-Lautrec [20]). L’artista è fortemente influenzato dai disegnatori della rivista satirica Simplicissimus [21], ma anche da quelli che disegnano pubblicità commerciale per le grandi catene dei supermercati.
Fig. 23) George Grosz, riproduzione in bianco e nero di un disegno a colori eseguito per un’illustrazione negli anni di Dresda, 1911. Fonte: Kunst und Künstler, 1931, Numero 1, pagina 21. |
Certo, il pittore scrive che, in termini di progresso nell’arte, “quelli furono tempi interessanti (…), c’era entusiasmo per le idee innovatrici, e noi alle prime armi eravamo vivamente interessati ai pittori contemporanei che lavoravano a Parigi” [22]. Ma Grosz non si ritiene – in quegli anni almeno – un pittore d’avanguardia e, anzi, non esita a esprimere (implicitamente) qualche sostegno alle tesi della “Protesta degli artisti tedeschi” contro l’arte moderna francese, il manifesto scritto da Carl Vinnen nel 1911 contro gli acquisti di opere francesi da parte dei musei tedeschi: “In quei giorni, con gli stranieri, Berlino era molto accogliente. L’arte francese veniva importata a prezzi elevati; critici molto noti (e i cui nomi sono stati da lungo tempo dimenticati) cantavano la lode d’ogni cosa che usciva da Rue de la Boëtie [nota di redazione: sede della famosissima galleria di Paul Rosenberg (1881-1959)] in libri, rivisti, giornali. I più influenti, quelli che controllavano il mercato e stabilivano i prezzi, disprezzavano l’arte tedesca, da loro ritenuta barbara e retrograda” [23]. Ciò nonostante, Grosz aggiunge che anche alcuni artisti tedeschi riuscivano a raggiungere fama e agiatezza.
Fig. 24) Theodor Kittelsen, Nøkken, lo spirito dell’acqua, 1904 |
Berlino – caratterizzata in quegli anni dallo scontro tra l’estetica tradizionalista dell’imperatore e del suo circolo e la volontà innovatrice delle diverse anime della Secessione – è uno dei centri di sviluppo del gusto in Germania. “I capofila della pittura tedesca moderna che vi vivevano erano Max Liebermann, Lovis Corinth, Max Slevogt, il triumvirato dell’impressionismo tedesco” [24]. Ma i punti di riferimento del nuovo arrivato Grosz sono i pittori Erwin Liebe (1844-?) e Theodor Kittelsen (1857-1914), tutto sommato molto marginali nella scena della capitale tedesca. Al simbolista Liebe l’autobiografia dedica un numero di pagine del tutto sproporzionato rispetto al ricordo che è oggi rimasto di lui: si tratta di un pittore dilettante innamorato del romanziere d’avventura Karl May, del filosofo Friedrich Nietzsche e del musicista Richard Wagner. Il cinquantenne Theodor Kittelsen, pittore norvegese di grande cultura (uno dei tanti scandinavi presenti a Berlino in quegli anni e legati al mondo della fiaba nordica), è “un sognatore incline all’assurdo” [25] che lo introduce alla cultura del decadentismo e a quello del mondo mefistofelico, oltre a essere instancabile compagno di bevute. Ben presto, però, arriva l’esigenza di allontanarsi da questo mondo un po’ allucinato: “Io, invece, nonostante la mia propensione alla satira grottesca e alla fantasiosità, avevo un forte senso della realtà. (…) Anche quando ero attratto dall’irreale, il mio innato scetticismo mi faceva tornare indietro all’apparentemente sicura banalità quotidiana; avevo un desiderio disinteressato, quasi sportivo, che mi faceva ricercare il «vero», gli accadimenti reali, che velocemente m’avrebbero ricondotto sul solido terreno della «ragione»” [26]. Un giorno, al culmine di una lite, Grosz rovescia un’insalata sulla testa di Kittelsen [27]. Ciò non toglie che l’artista gli riconosca un debito nell’evolvere del suo stile: “Probabilmente influenzato da Kittelsen, ampliai il mio stile monocromatico e cominciai a dipingere zone in colori uniformi e ricercati” [28].
Fig. 25) George Grosz, Disegno per un’illustrazione del 1912 ispirato allo “stile lineare”. Fonte: Kunst und Künstler, 1931, Numero 2, pagina 59. |
A Berlino Grosz compie i passaggi necessari per apprendere il mestiere. “Cominciavo a dipingere ad olio. Non avevo maestri, ma compravo dei libri ed imparavo come potevo. Dipingevo, a memoria, composizioni che avevano lo stile dei miei disegni, delineate con inchiostro d’India sulle tele, e quindi ripassate ad olio. Questi quadri assomigliavano a disegni colorati, perché era la linea a predominare” [29]. Poi, seguendo altri pittori berlinesi, decide di andare a Parigi all’Accademie Colarossi. Il resoconto è – tutto sommato – molto asciutto: “Il mio amico Fiedler [Nota del traduttore: Herbert Fiedler (1891-1962)] era andato a Parigi nel 1912 e mi aveva scritto lettere entusiastiche. Nella primavera del 1913 avevo risparmiato un po’ di denaro, così decisi di recarmici pure io. (…) Stetti a Parigi circa otto mesi. Lavorai molto poco, e disegnai soprattutto modelli al Croquis Colarossi. Esclusi pochi amici, non frequentavo nessuno. Avrei dovuto stare più a lungo per sentire il polso del posto, ma non ero uno di quei tedeschi i quali vengono a Parigi per dieci giorni e dieci anni più tardi sono ancora lì” [30].
Dalla Prima guerra mondiale al 1932
Allo scoppio della guerra, Grosz si arruola volontario come soldato semplice; nell’autobiografia non parla della circostanza. Dalle sue pagine traspare invece il rapido emergere del senso di orrore per il conflitto. Un altro elemento che nel diario è taciuto è che, durante gli anni di guerra, l’artista cambia il suo nome, anglicizzandolo (da Georg a George) in spregio alla Germania. È evidente che un trauma così violento non può che avere un impatto profondissimo, innanzi tutto sui soggetti delle sue opere; quasi tutti i suoi disegni sono ormai dedicati ai disastri della guerra: “Per me, l’arte fu una sorta di valvola di sicurezza, che lasciava fuoriuscire l’accumulo di vapore surriscaldato. Ogni volta che lo potevo fare, placavo la mia rabbia, disegnando” [31]. Ed è proprio nei mesi di un primo congedo a Berlino, a partire dal 1915 (stranamente l’autobiografia parla erroneamente di 1916), che il pittore esce dalla sua marginalità nel mondo dell’arte berlinese.
Fig. 26) La collezione di scritti di Theodor Däubler “In lotta per l’arte moderna” del 1919 |
Lo scopritore di Grosz è uno dei maggiori intellettuali pacifisti tedeschi di quegli anni, Theodor Däubler (1876-1934), poeta e letterato, ma anche critico d’arte, residente a Berlino, ma esponente del mondo asburgico di un’Europa centrale che si sente ancora espressione di tante culture fra loro integrate. Däubler scrive su Grosz nella rivista letteraria intellettualmente più aperta dell’epoca (Die Weißen Blätter – Le pagine bianche, dove viene pubblicata fra l’altro per la prima volta La Metamorfosi di Kafka, nel 1915) e lo introduce nella società che conta. Fra gli altri, conosce l’industriale Henry Falk e il conte Harry Kessler, che diventeranno suoi mecenati. A tutti loro Grosz dedica pagine piene di gratitudine, riconoscendo che deve loro molta della sua fortuna. Sono anche mesi di maturazione da un punto di vista iconografico: nelle sue tele ad olio Grosz non abbandona mai la linea, ma mette nuova enfasi sul colore: “Quel periodo della durata d’un respiro, il 1916-1917, fu un periodo fertile della mia vita, contemporaneamente realistico e romantico. I miei colori favoriti erano un rosso cupo e un blu nerastro. Sentivo sotto di me la terra ondeggiare, e ciò è evidente nei miei quadri e nei miei acquerelli” [32].
Fig. 27) George Grosz, La città, 1917 |
Fig. 28) George Grosz, Dedicato a Oscar Panizza (Il funerale), 1917-1918 |
Prima della Grande guerra Grosz non si considera parte di un’avanguardia artistica; il conflitto cambia però tutto e lo fa aderire al movimento dadaista, fondato al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 1916 e subito arrivato a Berlino. “Se ciò esprimeva qualcosa, era la nostra eccitata irrequietezza, il nostro scontento, il nostro sarcasmo. Ogni sconfitta nazionale, ogni cambiamento verso una nuova èra [sic], partorisce simili movimenti. In altri tempi, avremmo potuto essere flagellanti” [33]. Al Dada è dedicato un intero capitolo, con ricordi di tante azioni bizzarre compiute assieme agli scrittori Richard Huelsenbeck (1892-1974) e Franz Jung (1888-1963) e ad artisti come Kurt Schwitters (1887-1948), Johannes Baader (1875–1955) e Rudolf Schlichter (1890-1955). Più che come movimento estetico, Grosz pensa al Dada come a un atteggiamento dissacrante collettivo. “Noi dadaisti tenevamo «meetings» (usavamo il termine inglese) durante i quali, alla gente che aveva pagato un piccolo biglietto d’ingresso, non si diceva altro che la verità, cioè la si insultava. Ci esprimevamo senza inibizioni, ad esempio dicevamo: «Sei un vecchio sacco di merda; sì, dico a te, quel tale lì, dico che sei un asino scemo»; oppure: «Non ridere, cretino!». Se qualcuno avesse ribattuto, come d’altronde succedeva, sbraitavamo come sotto le armi: «Chiudi il becco o ti spacco il culo!». E via di questo passo” [34].
Fig. 29) George Grosz, I comici automi repubblicani, 1920 |
Il racconto di Grosz è disincantato, anche su artisti che pur si sono affermati, come Kurt Schwitters; nelle sue parole si coglie come, in fondo, ritenga impossibile ogni forma di arte astratta: “Sino ad allora non c’era stata un’arte Dada visiva, cioè un’espressione artistica e/o una filosofia del cestino per i rifiuti. Il leader di questa scuola fu un certo Schwitters, di Hannover, il quale raccoglieva qualsiasi cosa che trovava nelle discariche dei rifiuti, nei bidoni della spazzatura, o chissà dove: chiodi arrugginiti, raggi di bicicletta, spazzolini da denti senza più setole, mozziconi di sigaro, stracci vecchi e ombrelli ch’erano colabrodi; raccoglieva ogni cosa, e cercava di riordinarla sulle vecchie tavole o tele, in piccoli ammassi piatti che attaccava con nastri e bindelle. Li esponeva con il nome di «Arte del rifiuto», e vendeva anche qualcosa. Parecchi critici che volevano apparire moderni e informati prendevano questa roba sul serio e scrivevano buone recensioni. Solo le persone comuni, che nulla sapevano dell’arte, reagivano normalmente e chiamavano l’arte Dada scarti e spazzatura, e in effetti di questo era fatta” [35]. Il pittore ricorda anche l’ostilità degli artisti contemporanei “perché nulla veniva rispettato o preso sul serio” [36]. Del resto egli ammette: “Ci facevamo beffe persino delle avanguardie” [37].
Fig. 30) Kurt Schwitters, La non-immagine (Das Undbild), 1919 |
Le pagine autobiografiche dedicate alla Repubblica di Weimar ci offrono un affresco straordinariamente vivace degli avvenimenti e dell’atmosfera di uno spazio di libertà di cui, collettivamente, i tedeschi non riescono a fare buon uso (bellissime le considerazioni sulla Germania nelle passeggiate con l’amico Bertold Brecht [38]). Poco si legge, però, sull’evoluzione del suo stile nei dieci anni che separano l’inizio del periodo Dada dal trasferimento dell’artista negli Stati Uniti. L’autobiografia ci dice di più su come la sua arte stia stata recepita dal pubblico e soprattutto sui rapporti tra Grosz e molti esponenti della cultura. Pare evidente, in particolare, come (anche in virtù del suo individualismo) ciò che conti, per l’artista, siano i rapporti con i singoli.
Fig. 31) George Grosz, Dalla raccolta Ecce Homo (1922-1923) |
Fig. 32) George Grosz, Dalla raccolta Ecce Homo (1922-1923) |
Vale la pena ricordare comunque il breve riferimento che si coglie al processo che deve subire nel 1923 per l’Ecce Homo, raccolta di sedici acquarelli del 1922-1923 che viene accusata di oscenità: il pittore ne parla dicendo che il controverso giornalista Maximilian Harden (1861–1927) ha testimoniato a suo favore (Grosz lo incontra per caso a un ricevimento all’ambasciata sovietica di Berlino, ancora convalescente dai postumi di un attentato subito da esponenti di corpi paramilitari contrari alla Repubblica di Weimar). “Ora mi sembrava amareggiato. Il suo sguardo vagava sulle persone come se stesse cercando qualcuno che non trovava e, se l’avesse trovato, non avrebbe potuto sopportarlo. Aveva coraggiosamente brandito la sua penna contro la camarilla e la politica del Kaiser Guglielmo II, ma non gradiva neppure la nuova Repubblica tedesca. Con un gesto stanco della mano, disse della nuova Russia: «Tutto sbagliato, tutto sbagliato…». Fu questa l’ultima volta che lo vidi” [39]. Grosz non dice che, nonostante la difesa di Harden e le memorie difensive di Max Liebermann, perde la causa e viene condannato a pagare una multa. Appare evidente che siamo in un momento storico in cui si tenta di portare a processo tutti gli artisti che si dice attentino alla moralità. Nel 1923, sempre a Berlino, Otto Dix fu processato con analoghe motivazioni per “Ragazza allo specchio” (ma, in questo caso, vinse la causa).
Fig. 33) George Grosz, I pilastri della società, 1924 |
Tra le amicizie degli anni di Weimar spicca il pittore Jules Pascin (1885-1930), uno degli animatori della cosiddetta Scuola di Parigi (ispirata all’idea del ritorno all’ordine) e della vita artistica attorno al Café du Dôme a Montparnasse. Insieme a Grosz, Pascin è uno degli anelli di congiunzione tra arte francese e tedesca nel riavvicinamento fra i due paesi dopo il Trattato di Locarno del 1925. Nei confronti del classicismo della Scuola di Parigi, Grosz ha, in realtà, grandi riserve (le esprime ad esempio nell’Almanacco dell’Europa di Carl Einstein e Paul Westheim del 1925). Nell’autobiografia la critica anticlassicista è invece molto velata. Rivolgendosi retoricamente all’amico, lo rimprovera con tono gentile: “Venivi improvvisamente preso da un’incontrollabile smania, si diceva tu fossi andato in Italia per riscoprire Raffaello” [40].
Fig. 34) Jules Pascin, Due modelle nello studio, 1924 |
Grosz scrive comunque alcune pagine piene di nostalgia per l’amico (Pascin si toglie la vita nel 1930, dopo essersi trasferito negli Stati Uniti): “L’ultima volta che ti vidi, fu durante una di quelle serate in cui ci si trascinava da un locale notturno all’altro tirando l’alba, raccogliendo via via amici e conoscenti occasionali. Tu eri quello che pagava per tutti. Gettavi via i soldi come fossero stracci sporchi, ma per qualche motivo il denaro ti veniva dietro e ne avevi sempre in tasca. Non riuscivi a liberartene. Io sedevo accanto a te; i pensieri seguivano le onde della musica e dell’alcool. Ti confidavi con me a bassa voce; rivelavi ciò che c’era in te. E poco dopo t’incidesti i polsi, come se stessi semplicemente tagliando le estremità sporche dei polsini della camicia…” [41]
Fig. 35) Nils von Dardel, Ritratto di Alfred Flechtheim, 1913 |
Fig. 36) Jules Pascin, Alfred Flechtheim vestito da torero, 1927 |
Fig. 37) Otto Dix, Ritratto di Alfred Flechtheim, 1926 |
Fig. 38) Karl Hofer, Ritratto di Alfred Flechtheim, 1926 |
Altra figura di riferimento è quella di Alfred Flechtheim (1878–1937), uno dei maggiori operatori del mercato dell’arte in quei decenni. “Alfred Flechtheim era mio agente e anche mio amico, relazione del tutto atipica. Ma come può capitare che un cane e un gatto vadano d’accordo, la natura anche nel nostro caso aveva fatto un’eccezione e, tutto sommato, ci piacevamo. Flechtheim in realtà era un fossile. Cioè uno degli ultimi sopravvissuti d’una generazione di mercanti d’arte che concepivano l’arte non solo come mercanzia; essi agivano più da mecenati che da mercanti. C’erano tipi simili in Europa quando i nobili finirono di comprare arte contemporanea e cominciarono a prendere il loro posto i ricchi borghesi, ivi inclusi i mercanti. (…) Nel 1905, durante la sua luna di miele a Parigi, spese l’intera dote della moglie per acquistare quadri francesi moderni. Tornò a casa senza un soldo, tra lo sbigottimento dei suoceri. Ciò che aveva acquistato era un mucchio d’incomprensibili quadri cubisti, che Alfred sosteneva essere belli e di notevole valore. Il suo fiuto, grande come lo era il suo naso, non l’aveva ingannato. Nel giro di pochi anni, i quadri valevano due o tre volte la dote ch’era stata investita” [42].
Complessivamente, comunque, dieci anni di vita sono raccolti in pochissime pagine. L’autobiografia evita, di fatto, di raccontare le vicende di Grosz in uno dei periodi più affascinanti dell’arte tedesca. Va comunque ricordato che nel 1931 Grosz pubblica i suoi Ricordi sulla rivista Kunst und Künstler, segno che il pittore è affermato e, anzi, occupa una delle posizioni centrali del mondo dell’arte tedesco. Nulla di tutto ciò compare nel diario del 1946. Gli anni tedeschi si concludono con due capitoli che hanno valore paradigmatico: una favola [43] su un uomo buono travolto dagli avvenimenti per colpa di una società impazzita (fino al suicidio) e il resoconto dettagliato del sogno premonitore [44] che spinge il pittore ad accettare, nel 1932, l’offerta dell’Unione degli Studenti d’Arte di New York, una scuola d’arte indipendente, per tenere corsi d’arte nella metropoli americana. Tutto sommato, un racconto “tutto rose e fiori” degli anni che portano alla presa del potere dei nazisti.
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NOTE
[1] McCloskey, Barbara – Introduzione all’edizione dell’autobiografia di George Grosz del 1997, pubblicata dall’University of California Press, pagina viii.
[2] I Ricordi (Lebenserinnerungen) sono pubblicati in Kunst und Künstler nei primi tre numeri del 1931 (e sono disponibili su internet agli indirizzi
http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1931/0045?sid=4dce2e7a3cdc3e390d29af56eaba71bf,
http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1931/0085?sid=4dce2e7a3cdc3e390d29af56eaba71bf e
http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1931/0135?sid=4dce2e7a3cdc3e390d29af56eaba71bf.
[3] Si veda: http://www.zeit.de/1955/04/ein-kleines-ja-und-ein-grosses-nein.
[4] Grosz, George – Rußlandreise 1922, in “Der Monat”, anno quinto, numero 56, pagine 116-223, 1953.
[5] Sono suoi i due studi “George Grosz and the Communist Party: Art and Radicalism in Crisis, 1918-1936” del 1997 e “The Exile of George Grosz: Modernism, America, and the One World Order” del 2015.
[6] Grosz George – Una autobiografia, Milano, SugarCo Edizioni, 1984, 336 pagine. Citazione a pagina 7.
[7] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 58-59; 69-73.
[8] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[9] George Grosz: The years in America 1933 – 1958, a cura di Ralph Jentsch, Hatje Cantz, 2009, 280 pagine.
[10] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 127.
[11] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 11.
[12] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[13] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 18.
[14] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[15] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 61.
[16] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 62.
[17] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 73-75.
[18] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[19] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[20] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[21] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[22] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[23] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[24] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 100.
[25] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[26] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[27] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 91.
[28] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 93.
[29] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 107.
[30] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 109.
[31] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 125.
[32] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 113.
[33] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 147.
[34] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 149.
[35] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 149-151.
[36] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[37] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[38] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 207.
[39] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 171.
[40] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[41] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[42] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 213-214.
[43] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 220-239.
[44] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 240-245.
Postato 5th February da Giovanni Mazzaferro