VENILIA.IT, MARIA NIVEA ZAGARELLA, LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA N. 25 ::: MONTALE E L’IMMANE FARSA…

 

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Maria Nivea Zagarella (tratta da La Nuova Tribuna Letteraria n°125)

Montale e l’immane farsa umana

Eugenio Montale

L’immane farsa umana

 

Tra ironia ed amarezza le ultime raccolte poetiche del premio nobel 1975

 

Nel 1967 Giuseppe Saragat nominava senatore a vita Eugenio Montale (1896-1981) per avere il poeta illustrato la Patria con altissimi meriti in campo letterario e artistico. Meriti confermati dal Nobel (1975) e anche dalle ultime raccolte poetiche: Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977), Altri versi (1980), che consentono di focalizzare la crisi estrema della “civiltà occidentale” e la disperante ricerca di identità, scacco dopo scacco, dell’uomo di oggi. Nei versi montaliani degli anni Venti, Trenta, Cinquanta (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro) l’istituto della “poesia” quale residua cittadella umanistica di valori spirituali, culturali, formali, faceva blocco morale e resistenza contro il “male di vivere”, sia cosmico (la vita strozzata dispersa dal vento con la cenere degli astri) che storico, rappresentato quest’ultimo dal fascismo e nazismo, dalla II guerra mondiale e dalle nuove minacce della “guerra fredda” e atomica.

Anche la poesia-prosa dell’ultimo Montale, pur nella desublimazione programmatica (ma assai ambigua) del linguaggio poetico, lanciato sin da Satura (1971) in una mimesi furente del magma e del vuoto della società di massa, ribadisce, nella immobile disperazione dell’intellettuale, il valore dell’atto poetico come rifondazione, pur minima, dell’umano.

Oggi – annota il poeta – è morto solo/ chi pensa alle cicale. Se non se n’è avveduto/ il torto è suo.

Nelle tre sillogi degli anni Settanta la “parola poetica” attraversa parodica e greve la nuova palta (fango), la spazzatura metaforica e reale (isole e laghi/di vomiticcio e di materie plastiche), adagiandosi nel modulo diaristico, frammentario e frammentante, come lo stampo più atto a ricevere la materia odierna, dato che l’insignificanza e la vacuità esistenziali, nel delirio collettivo di massa, hanno raggiunto l’evanescente grado del dolce afflato del nulla; corrono insomma entro uno stillicidio impercettibile di morte.

Quanto al Diario e al Quaderno, lo stesso Montale parlava nel ’77 di “appunti” per poesie poi non scritte, “perché gli appunti bastavano” e “l’unità” era data dal loro assieme. Quale unità d’assieme, estensibile anche alla silloge Altri versi, ordinata da Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini? Gli ultimi temi montaliani seguono delle costanti: motivo cosmico e agnosticismo; presente degradato e scetticismo politico; vitalità naturale e animale; orizzonte intimo e domestico; memorie di parenti e di intellettuali amici; quotidianità circoscritta e incursioni sempre più fitte negli anni, tramite l’autocitazione e l’intertestualità, in tutta la vicenda umana e letteraria del poeta/Montale. Ironia, sarcasmo, disprezzo, nostalgia, delusione, pietà, fanno volta a volta da scala timbrica, e lessico e stilemi stridono, giocano, s’impennano, implodono: Il vertice lo zenit/ il summit/ il cacume/ o Numi/ chi mai li arresta/ E c’è chi si stupisce/ se qualcuno si butta dalla finestra. Altrove la possibilità o non di uscire dall’allestimento fallimentare del cabaret della vita, registi e vittime, uomini e Artefice, si configura come la domanda che dobbiamo porci/ uomini e porci, ovviamente con desideri opposti; in Morgana il prolungato sberleffo letterario scalpella invece, dissimulandolo, il monito morale: Hanno detto hanno scritto che ci mancò la fede./ Forse ne abbiamo avuto un surrogato./ La fede è un’altra. Così fu detto ma/ non è detto che il detto sia sicuro./ Forse sarebbe bastata quella della Catastrofe…

Il panorama sociale che emerge dalle tre raccolte è da choc, e se la gnome vede associati l’orrore al ridicolo, il sublime (?) all’immondo, la festa alla macelleria (uccidere con arte), le allegorie del tritacarne in atto, del frullino che nei crani non si sa se monta sozzura o zabaione, dell’olla podrida nauseabonda entro cui stanno gli acculturati i poeti i pazzi/ le macchine gli affari le opinioni, la metafora infine di noi “sedicenti vivi” quale nera colata indivisibile/ che potrebbe arrestarsi/ o far scolaticcio non si sa/ con vantaggio di chi, bene rendono la mistura di volgarità, stupidità, robotizzazione reificante, ferocia ideologica (questi sanguinosi giorni di carnevale), cultura kitsch e nientificazione esistenziale. Sullo sfondo della casualità del Tutto (È assodato che la parola uomo lassù [su Giove] desta ilarità…Il mondo può fare a meno di tutto, anche di sé) l’ingombrante “buio” gnoseologico sul senso e il fine del vivere (i Numi vecchi e nuovi non solo sono al buio di chi vive/ ma restano all’oscuro di se stessi) e la fragilità stessa del pianeta Terra, la cui crosta è più sottile di una buccia di mela e fessurata da pericolosissime faglie (…e noi poveri dementi parliamo di cumulo dei redditi, compromesso storico e altre indegne fanfaluche) rendono più tragica “l’immane farsa umana”, che giorno dopo giorno continua a snodare i suoi terribili e irrelati fotogrammi.

ll campionario satirico dell’ultimo Montale è assai circostanziato: dalla radio che, nel silenzio irreale di un quartierino milanese tra tocchi del mezzogiorno e trilli di telefono, borbotta i morti/routine sull’autostrada della Pasquetta, alla giacca bianca per festival estivi con espressionistico guardaroba aggiuntivo (da villeggianti) di pelli di capronismoking a tre pezzi, bionde parrucche d’asino di femmine pelate, al grande Oncologo innalzato al Parlamento tra notturni stappamenti di sciampagna, flash, risa, urli dei gratulanti. Evento quest’ultimo accostabile, nel codice rovesciato del grottesco politico-civile montaliano e fra le pieghe dei richiami intertestuali ai versi di Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero, ai tre seguenti testi: Nixon a Roma, con sfilata di invitati/Eccellenze, vivande varie, orchestra e nuovo (metaforico) “cuoco” garante del banchetto/Nuovo Corsoplanetario (alias nuove stragi/cotture); Ipotesi e Non partita di boxe o ramino, poesie nelle quali l’insanabile apparente conflitto tra le forze del Bene e del Male (Nella valle di Armageddon/ Iddio e il diavolo conversano/ pacificamente dei loro affari) si alterna alla più esplicita realtà storica dei due blocchi politico-militari allora ancora contrapposti (USA/URSS) attraverso il riferimento ai due Luciferi gemelli e agli eventuali postumi tirapiedi dei medesimi. Ulteriori tasselli della massificazione sono poi le mobili turbe (milanesi) delle transumanze domenicali/in galleria, sul Corso, sui marciapiedi già ingombri/dai tavolini dei bar,/onda lenta e sicura nella sua catastrofica insicurezza, e il formicolio sulla spiaggia in estate di gommoni e bagnanti, squallido cafarnao di corpi, gesti, barbe, non individui ma lemuri umani, tutti con croci e catene al collo, non per religioso fervore, ma per ossequio omologante a mode casual e euforia da vacanzieri. Un pot-pourri – come si vede – di alto e basso, vero e falso, valori e disvalori, assimilabile alla zuppa mediatica e immediatamente caduca dei troppi messaggi TV, a una politica nazionale allo sbando dentro una Italia/Sfascio tra zuffe di galli inferociti con relativi spennamenti e cinici maneggi di potere (Si può essere a destra/ o a sinistra/ o nel centro/ o in tutt’e tre, che non guasta), al saccheggio infine insozzante e vorace della Natura: un mare inquinato senza pace alcionica, rifiuti che formano ondulate collinette plastiche, l’imperativo spregiudicato della “produzione”, al punto che l’ultimo uomo scampato alle epidemiche scoperte scientifico-tecnologiche si ritroverà a passeggiare in un parco nazionale di prototipi animali e di molte mummie del fu uomo sapiente, faber, ludens o peggio. Altro che le assertive certezze dei tempi della scuola circa il reale/ e il razionale come le due facce/ della stessa medaglia! Risibili appaiono a Montale sia l’onnivora, acritica, fame di sapere (bramose fauci) delle generazioni attuali e future, saziata, tra congressi, incontri internazionali, profluvi di enciclopedie, storie letterarie, ridicole iconografie di scrittori massimi e minimi, da una industria culturale che sforna schidionate di volatili frolli, ma anche croste per disappetenti, sia l’intruppamento di una intellighenzia (uomini pneumatici) che si rivela o politicamente e economicamente compromessa col sistema (vedi Lettera a Malvolio, Asor, L’obbrobrio, Senza pericolo, Con quale voluttà…), o costituzionalmente “ciarlatanesca” (la logorrea schifa dei dialettici), dato che il bandolo della Verità rimane per tutti introvabile: teologi, filosofi, baccalaureati/baccalaureandi, critici, poeti/scribi, scienziati. La Vita – scrive Montale- di contro i molteplici sistemi normativo-ordinatori (idealismo, marxismo, storicismo, provvidenzialismo…) ignora/ l’insù e l’ingiù, il pieno e il vuoto, il prima e il dopo, allo stesso modo che la Storia, che non contiene -come si legge pure in Satura – nulla che in lei borbotti a lento fuoco. Anche il linguaggio manifesta la sua radicale insufficienza: dio dimidiato/ che non porta a salvezza, perché non sa/ nulla di noi e ovviamente/ nulla di sé. È pertanto assurdo parlare di mirabili sorti dell’umanità, quali li prospetta – nella poesia Storia di tutti i giorni – la fantomatica torta dell’aruspice di turno, che verrebbe facendosi tanto più saporosa quanto più stagiona: cent’anni più di dieci, mille anni più di cento/ ne accresceranno il sapore. Unica realtà invece sono per il poeta le briciole della torta [leggi “esistenza”], che vanno inesorabilmente via senza essere sostituite. Perciò ancora più assurdo si rivela il terminare la vita/ tra le stragi e l’orrore in nome di idoli vani (alias le  “ideologie” politiche dei sanguinosi anni Settanta), che fattisi carne e ossa tornano a nutrirsi di “noi”, loro cibo ordinario di epoca in epoca.

Altrettanto sconcertanti le nuove discriminazioni “religiose” affacciatesi a fine secolo dall’Oriente e stigmatizzate nei versi dall’uso irridente del linguaggio sacro: Forse divago dalla retta via/ Questa biforcazione tra Sunna e Scia/ non distrugge il mio sonno ma fa di me l’alunno/ È come fare entrare lo spago in una cruna/ d’ago. E la metafisica negativa e amara di Montale (Dopo i filosofi dell’omogeneo/vennero quelli dell’eterogeneo), filtrata da un saporoso e caustico linguaggio ludico (comprendere la vita/ lo potevano solo i pazzi/ ma a lampi e sprazzi), riavvolge il suo filo fra dubbio ateo e millenarismo tragico-ironico:…ora non c’è più spazio/ per la specola/ Solo qualche nubecola/ qua e là/ ma Dio ci guardi/ anche da questa. Dal “carnaio”, dal “termitaio”, dalla “caccia all’uomo” che è lo sport in cui tutti sono d’accordo, dall’accozzaglia/massa del nostro tempo, il poeta vecchio torna a distanziarsi orgoglioso – come sottolinea a più riprese – del suo “guscio”, della sua coerente “inappartenenza”, anche se criticata dai più, geloso della protezione dei suoi “Lari” sempre chiusi nella loro “dubbiosa identità”, garanzia per lui di libertà spirituale.

In Lettera a Malvolio, polemizzando con Pasolini che per Montale con troppa agilità rimescolava materialismo storico e pauperismo evangelico,/ pornografia e riscatto, nausea per l’odore di trifola e introiti in danaro, l’autore scrive: Lascia che la mia fuga immobile possa dire/ forza a qualcuno e a me stesso che la partita è aperta. Nel riconfermato distacco/distanza dalla “massa” al poeta non resta che ripiegare ora sul ricordo-dialogo con la moglie morta (Drusilla/Mosca) e i piccoli oggetti e episodi del loro menage familiare, con indugi dolenti sul mistero della Morte, tra il prolungarsi dell’affetto e il Nulla del dopo; ora evoca altre figure di morti (parenti, amici) e insiste sui ricordi d’infanzia e di adolescenza calamitato dal passato (la vecchia serva di casa barbuta e analfabeta, il figlio del fattore, il cagnetto Galiffa, i grami anni infantili e scolari della governante Gina, la zia povera di Pietrasanta, i due storpi di Corso Dogali, il canneto dei giochi di ragazzo, i colombacci uccisi dai cacciatori a ogni ottobre sulla punta del Mesco, la diligenza a cavalli che lo portava studente dai Barnabiti, le figure insulse del parente collezionista di piante grasse, dell’antenato patriota opportunista…) in un “chiaroscuro” di serenità precaria e inquietudine di fondo per il serpeggiare onnipresente del dolore e del senso della vanità e inautenticità dell’esistere. Più consolatori e affettuosi invece i rapporti minuti e quotidiani con Gina e con i piccioni e il merlo ospiti del suo davanzale, unica “famigliola” rimasta al poeta. Il merlo che si dondola felice sulla frasca illumina la valenza mitica che assumono altri animali in queste raccolte, vagheggiati tutti nella loro naturale selvatichezza e vitalità, e per il loro insopprimibile istinto di libertà: anatre selvatiche e aquilotti, il rondone liberato dal catrame e presto volato via, il gatto cacciato dal condominio perché graffiava la moquette, il vispo falchetto del lungolago, gli storni velocissimi e altissimi rispetto ai sub-erranti e vociferanti uomini/polli di batteria, animali analoghi in metafora di un’altra figura/emblema ricorrente, il “prete” in odore di eresia che scantona dal gregge. Al contrario, le immagini simboliche del “gregge”, del copione, dello spettacolo teatrale, del burattinaio che muove i fili misterioso e innominato, del paretaio/spolverina che ci avvolge invisibile e non rammendabile, della trappola, della rete a strascico e simili, rinviano al motivo, di ascendenza anche leopardiana, del nostro venire al mondo senza essere consultati, e marcano quanto di artificiale, precario, coartante, incomprensibile, incontrollabile, si stratifica nell’esistenza collettiva e di ciascuno: la storia – si legge in Postilla a una visita – è disumana anche se qualche sciocco cerca di darle un senso.

Tuttavia l’atteggiamento dell’uomo e dell’intellettuale Montale resta bivalente. Pur facendo spesso dell’ironia e dell’autoironia sul “poeta bardo” e la sua “penna di cigno” o “d’oca”, sulle pretenziosità poematiche di certi scribi, sugli strumenti della retorica (dei quali continua però a fare uso sottile e arguto), e sul “buio” delle parole, abbassate perciò di registro e nel ruolo, l’autore non sa rinunciare alla sua Musa spaventacchio e neanche ai suoi versi zoppicanti.

Mantiene aperta la comunicazione con i lettori, cerca il contatto/monito – come abbiamo visto – nella provocazione, nella parodia, e mentre irride, compiange: Stavolta – confessa in Dormiveglia – la pietà vince sul riso. Analogamente se il sentimento dello scacco universale e della perdita dell’identità gli suggerisce la metafora della pigna svuotata dei pinòli (l’uomo senza valori identitari) destinata a bruciare inutilmente nel forno, l’esistere solo per la morte e il mero precipitare verso di essa travolti nel magma odierno (Non più dunque un problema/quello di preferire/ma piuttosto/di essere preferiti./Ma neppure questione/perché non c’entra la volontà) gli fa avvertire nel “dovere di resistere” l’unico senso individuabile nel nonsenso assoluto. Nel testo breve In negativo, gettando uno sguardo al suo passato (avrò presto il mio benservito), cioè alla stagione che va dagli Ossi di seppia alla Bufera, afferma: Non c’è stato/assolutamente nulla dietro di noi,/e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla. “Amato disperatamente” perché – come ricorda in Fine di settembre – in quegli anni si aspettava, nonostante le violenze belliche e la ferocia delle dittature, colpi di scena/resurrezioni e miracoli a ogni giro di sole, miracoli veicolati, nell’attesa razionale e sentimentale, soprattutto dalle adorate larve del suo canzoniere d’amore, le diverse, e tuttavia simili, immagini di donne. “Figure umane, angeli salvifici” le chiama, “anche se provvisori”, che tornano ad assediarlo alle soglie della morte, fantasmi utopici di una tensione metafisica e religiosa purissima e insoddisfatta (Iride, Clizia), di una classicità umanizzante e perduta (Clizia), di una gioventù (Annetta la capinera) vitalisticamente protesa verso il sogno/trillo/faro intermittente, leopardianamente troncatasi “nel mezzo del mattino”, ma costantemente rimpianta: Una traccia invisibile non è per questo/ meno segnata? si legge in Per un fiore reciso e nelle sequenze finali di Annetta, sempre con riferimento alla Anna degli Uberti delle estati (1920/1923) a Monterosso, scrive: Oggi penso che tu sei stata…un’agnizione/ reale perché assurda. Lo stupore/ quando si incarna è lampo che ti abbaglia/ e si spenge. Il poeta vecchio fa dunque fatica a staccarsi dalla sua prima educazione intellettuale, dagli anni genovesi fino a quelli fiorentini (l’amicizia con Irma Brandeis/Clizia), e la rabbia/nausea per la precarietà e evanescenza del nostro tempo, lo risospinge verso “quel” passato, verso la nostalgia di frammenti di humanitas i quali hanno ancora una volta, sullo sfondo del mistero impenetrabile dell’Essere (Ai tuoi piedi), l’alone mitico del profetismo e dell’amore cristiani, contrapposti, sin da La primavera hitleriana (1938), a ogni cruenta barbarie e, fra le righe dei testi più recenti (Il Re pescatore, Dove comincia la carità, Per Finire), a ogni nuova impostura di falsi profeti e falsa carità o egoismo globalizzato. Oppure rimandano alla “misura” discreta della mestizia e gioia interiore dei classici, smarriti purtroppo dalla cultura contemporanea (La fama e il fisco). Nel ribollio bergsoniano di un Universo alla perenne “ricerca di se stesso” con noi a rimorchio, cascami che si buttano via/o cade ciascuno da sé, l’ultimo Montale dunque torna ad affidare, tramite l’abituale figura femminile, al “fiume” dell’esistere il bauletto mezzo scoperchiato dei suoi carmina (Alunna delle muse), riproponendo in extremis per sé e per tutti l’ammonimento a Malvolio della virtù della “decenza quotidiana”, rivisitata anche nella poesia Il cavallo (Tentai di essere/ un uomo e già era troppo…), una decenza infinitesima quale irrinunciabile antidoto etico a focomelie concettuali e maschere conformiste di comodo.

 

Maria Nivea Zagarella (tratta da La Nuova Tribuna Letteraria n°125)

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