LORENZO GIARELLI, IL FATTO DEL 04-06-2018 ::: CLANDESTINI DA ESPATRIARE::: LAVORANO NEI NOSTRI CAMPI

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 04-06-2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/clandestini-da-rimpatriare-lavorano-nei-nostri-campi/

 

 

NOTA::

— LA FILT CGIL è l’organizazzione sindacale cgil dei trasporti

—LA FLAI CGIL organizza i lavoratori agricoli e quelli industriali dell’industria agroalimentare

 

Clandestini da rimpatriare: lavorano nei nostri campi

La paga è più o meno la stessa in tutta Italia: dai 3 ai 5 euro l’ora, con turni infernali che possono arrivare anche a dodici ore al giorno. Ma il dramma non riguarda solo l’agricoltura, perché sono ormai diversi i mestieri stagionali in cui buona parte della forza lavoro è costituita da migranti, spesso irregolari – quelli che, stando al contratto di governo appena siglato tra Lega e M5s, l’Italia cercherà di rimpatriare più di quanto non abbia fatto prima – o comunque in situazioni di forte disagio sociale e economico. Si va dalle consegne a domicilio alla ristorazione, passando per le attività di magazzino e di pulizia, un universo di sfruttamento che spesso sfugge a regole e censimenti.

 

Schiacciati dai colossi della logistica

Nella logistica il boom di consegne, grazie al commercio online, va da fine ottobre a Natale. Quasi tutte le grandi aziende che inviano i propri prodotti a domicilio non hanno addetti assunti con il contratto nazionale del settore, ma esternalizzano il servizio appaltandolo a società specializzate. Amazon, per esempio, smista i prodotti dai suoi magazzini attraverso Poste italiane, Bartolini, Sda e altre grandi aziende, che però non consegnano all’utente finale, ma portano le merci in altri depositi sparsi per l’Italia. A quel punto, per Amazon come per quasi tutti i player del settore, sono le aziende in subappalto a gestire la consegna al cliente. I problemi nascono proprio in questa fase, perché l’ultimo anello della catena è il più debole e spesso il servizio è svolto da cooperative improvvisate ed è gestito tramite caporalato, sfruttando personale straniero. “È un problema diffuso soprattutto dalla Toscana in su, con picchi in Veneto, Emilia e Lombardia”, spiega Giulia Guidi, segretario nazionale della Filt Cgil. L’ultima denuncia arriva da Belfiore (Verona), dove pochi giorni fa Manish, un ragazzo indiano, si è rivolto a Adl Cobas per raccontare la sua storia: lui, assieme ad un’altra ottantina di ragazzi indiani dello stesso magazzino, ha dovuto pagare 5mila euro a un uomo conosciuto come Taru, in grado di far firmare loro un contratto a tempo determinato come facchini e di procurare un alloggio comune. Il meccanismo si è rotto, racconta Adl Cobas, quando Manish si è rifiutato di firmare una delega in bianco a Taru per l’assemblea dei soci della cooperativa, ritrovandosi di lì a poco senza più lavoro. Il reclutamento si basa spesso su una logica di etnia: “Un caporale mantiene meglio il controllo sui lavoratori se sono suoi connazionali”, conferma Guidi.

Sedici ore di fila nella ristorazione

Con l’arrivo dell’estate si intensifica poi anche il comparto dei servizi di ristorazione e accoglienza. Un paio d’anni fa la Guardia di finanza di Foggia ha sgominato un’organizzazione che reclutava migranti per farli lavorare sia nei campi coltivati che come camerieri o lavapiatti nelle attività della zona. Si scoprì che nei periodi più intensi, come la notte di Capodanno, chi era impiegato nella ristorazione aveva lavorato anche per sedici ore di fila per tre euro l’ora, da cui detrarre le spese per un alloggio fatiscente procurato dal caporale.

Schiene spezzate nelle raccolte

L’agricoltura resta comunque il settore in cui é più diffuso lo sfruttamento stagionale dei migranti. Nel luglio 2015 fece scalpore la storia di Abdullah Mohammed, bracciante di origini sudanesi morto mentre raccoglieva pomodori vicino a Nardò (Lecce). Altro snodo fondamentale della raccolta, soprattutto di arance, è Rosarno (Reggio Calabria), dove ormai otto anni fa i migranti misero a ferro e fuoco il paese per protestare contro il loro sfruttamento nei campi. “Nel caporalato dell’agricoltura non sono coinvolti soltanto clandestini – precisa Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil – perché ad accettare simili condizioni sono anche immigrati con regolare permesso di soggiorno o cittadini europei”. È il caso, per esempio, di molti bulgari e romeni, ingolositi da uno stipendio che, pur misero, permette loro di spedire nel Paese d’origine una buona somma di denaro. Il frutto del lavoro nei campi arriva ogni anno nelle nostre tavole e non si tratta soltanto dei pomodori del Sud Italia. Si pensi che in Chianti, dove si produce il pregiato vino toscano, gran parte della forza lavoro è costituita proprio da migranti dell’Est Europa. D’altra parte anche nell’agricoltura il fenomeno del caporalato funziona per blocchi di etnie che si spostano continuamente da un posto all’altro: “Adesso molti lavoratori dell’Est Europa si stanno insediando nel Pontino laziale – continua Mininni – prendendo il posto di una comunità indiana proveniente dalla regione del Punjab, a sua volta ben radicata negli allevamenti lombardi”.

Business da 15 miliardi che fa gola alle mafie

A dare i tempi ci pensa la natura, alternando la raccolta a seconda delle stagioni. A Latina ci si specializza in ortaggi, a Mantova in meloni, in Umbria c’è il tabacco, in Puglia pomodori e angurie, in Calabria le arance e i mandarini, in Sicilia le olive, ma la geografia del caporalato non può che essere parziale. Il business, secondo le stime dell’ultimo rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto, si aggira intorno ai 15 miliardi di euro l’anno: una cifra che fa gola anche alla criminalità organizzata, tanto che quasi la metà dei beni sequestrati o confiscati alle mafie – stando allo stesso report – sono proprio terreni agricoli.

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