PICCIOLI SPRAZZI SUL GRANDE ARTISTA VINCENZO CONSOLO … + DOPO LA META’, UNA SUA CONFERENZA ALL’UNIVERSITA’ DI PADOVA CON UNA LEZIONE AMMIREVOLE SU VERGA ED ALTRI…FINO A SE STESSO.

 

Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?

 

« Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca. »
(Le pietre di Pantalica, 1988)

 

 

Risultati immagini per VINCENZO CONSOLO IMMAGINE?

Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello,  1933 – Milano,  2012) è stato uno scrittoregiornalista e saggista italiano.

 

 

Risultati immagini per sant'agata di militello provincia

SANT’AGATA DI MILLITELLO, IN PROVINCIA DI MESSINA DA CUI DISTA 100 KM, E 130 DA PALERMO.

 

Risultati immagini per sant'agata di militello provincia

Sant’Agata di Millitello

 

Risultati immagini per sant'agata di militello provincia

Risultati immagini per sant'agata di militello provincia

Fiera storica

 

Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?

Foto d’epoca: da sn Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino

 

I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini

I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
C. Freire, Calascibetta (foto in mostra a Parigi)
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
I luoghi di Consolo raccontati dalle immagini
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?
Vincenzo Consolo con la moglie nella loro casa di Sant’Agata di Militello
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?
I Meridiani di Mondadori
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?
Immagine correlata
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?   Immagine correlata
Immagine correlata
Immagine correlata
Risultati immagini per sant'agata di militello casa di vincenzo consolo?
DA QUESTO LINK, IL TESTO CHE SEGUE:

Incontri : Scrittori d’oggi e tradizione classica

 

VINCENZO CONSOLO

PADOVA,  01/06/1995

Ringrazio i due presentatori, il professor Mariani e il professor Pianezzola. Sono onorato di essere qui a Padova, di essere in questa gloriosa università. Ricordavo al professor Pianezzola che sono già stato qui venti anni fa, nel ‘76, invitato nella sua aula dal prof. Folena, quando era uscito il mio romanzo, che si intitolava  Il sorriso di un ignoto marinaio. C’era stato un linguista che aveva messo in versi la mia prosa, rivelando in qualche modo quella che è la mia sperimentazione linguistica e la mia concezione dello scrivere quelli che si chiamano romanzi; ma su questo poi spero di avere occasione di soffermarmi.

Io non ho pratica universitaria; ci sono molti miei colleghi scrittori che sono anche universitari; io li invidio perché, avendo pratica didattica, sono abituati alle aule universitarie. Quindi mi scuso, metto le mani avanti per le mie esitazioni, per le mie inceppature e tutto quanto non rende fluido il linguaggio. Ecco, io non parto, dovendo affrontare questo tema, il tema del ritorno, del nÒstoj, non parto dall’archetipo, da Omero, dall’Odissea, ma voglio partire proprio dalla mia terra, dal primo degli scrittori siciliani che sono emigrati, che sono andati fuori dall’isola e che poi sono tornati: voglio partire da Verga.

La mia terra, l’isola, la Sicilia, è una terra estrema, che ha sempre, da una parte, persone non felici socialmente, che, spinte dalla necessità, sono state portate ad emigrare; ma questo non solo dalla Sicilia, ma da tutto il meridione, come voi sapete, e anche da zone depresse di questo Veneto. Però da parte degli intellettuali, degli scrittori c’è sempre stata, se non la necessità, il desiderio di arrivare al centro, di lasciare questa periferia incerta, cercando un centro che in volta in volta si identificava in Roma, in Firenze, ma soprattutto in Milano.

Verga, per non andare molto lontano, è stato il primo di questi emigranti, il primo di questi scrittori che ha lasciato l’isola per arrivare a Firenze, che era allora capitale d’Italia, e quindi a Milano.

Quando giunse a Milano, un giorno di novembre del 1872, immaginava di trovare una città immobile come era Firenze, capitale allora d’Italia, come dicevo, ma anche capitale della cultura, capitale della lingua; aveva già una carriera ben disegnata di scrittore: fino a quel momento aveva scritto, da giovane,  I carbonari della montagnaAmore e Patria,  Sulle lagune .

 

 

Ma a Firenze aveva lasciato questi temi di tipo storico-patriottico, e aveva intrapreso un altro filone, che poi è stato definito “mondano”: romanzi d’amore e passione, che si chiamano  La peccatrice, Eva, Tigre reale, Eros, ecc.

E dunque giunge a Milano nel 1872, con un biglietto di presentazione molto ambizioso e molto gratificante per quell’epoca: era l’autore della  Storia di una capinera; era il tema, allora molto di moda, di derivazione diderotiana, manzoniana della malmonacata. E quindi si presentava nei salotti milanesi, nei salotti delle varie contesse, della contessa Maffei, Castiglione o altre contesse, con questo affascinante biglietto da visita. Ma si presentava soprattutto col suo fascino di meridionale, di uomo taciturno e misterioso. Affascinava soprattutto le signore, in questi salotti, al punto da suscitare la gelosia e l’ira di Carducci  perché sembra che abbia, in qualche modo, corteggiato l’amante di Carducci, Lidia, e Carducci manda un biglietto iratissimo a questa sua amante, dicendo che questo parvenu si presenta con un falso titolo, come cavaliere; per di più, è uno che ha scritto un romanzo epistolare, che era appunto la Storia di una capinera, e, ancora peggio, è un siciliano e quindi un uomo volgare. Il vate era pieno di furori, come voi sapete.

Quindi Verga immagina la società di Milano come una società assolutamente immobile. Ma Milano, nel ‘72, immobile non era: era in preda alla prima rivoluzione industriale; era una città in grande movimento: si aprivano le fabbriche, si apriva la Pirelli & Co. per la lavorazione della gomma e poi, naturalmente, anche opifici; il conte Melzi d’Eril aveva regalato al Comune delle sue proprietà, dove erano sorti nuovi quartieri; erano sorte nuove stazioni ferroviarie; c’era un grande movimento commerciale. Naturalmente, con questa nuova rivoluzione industriale incominciavano le prime conquiste sociali: nel ‘72 si apriva a Milano la prima sezione dell’Internazionale socialista, a Lodi si stampava un giornale che si chiamava […]; Garibaldi sciveva al direttore di questo giornale, a Bignami, dicendo del grande impegno che aveva questo giornale nei confronti della classe lavoratrice.

Verga, di fronte a questo mondo che non conosceva, che non capiva, si trovò immediatamente spiazzato e cadde in crisi, come spesso capita alla letteratura nei confronti della storia, della storia nel momento in cui si svolge. Questa rivoluzione industriale culmina nel 1881 con l’Esposizione universale di Milano. In questa esposizione Arrigo Boito tiene un discorso in uno dei padiglioni, un discorso tutto inneggiante al progresso, alla nuova era che avanzava; alla Scala si rappresenta il Ballo Excelsior con i versi di Marenco, dove si inneggia appunto alle nuove scoperte, all’elettricità; è una sorta di balletto a ritmo di polka, dove si parla appunto del traforo del Sempione, della scoperta dell’elettricità; insomma, si apriva tutto un mondo di grandi promesse. Verga rimane assolutamente dubbioso di tutto questo e la sua crisi  culmina con l’81, l’anno della pubblicazione dei Malavoglia; ma questa svolta stilistica di Verga incomincia già negli anni precedenti. I primi segni si avvertono in un racconto, un racconto singolare che lui poi ha ripudiato, anzi scrive al suo traduttore francese, al […], che è assolutamente un racconto brutto, che non vuole che si traduca in francese. Però è un racconto singolare, perché è una svolta di epifania di quella che poi sarà la sua confessione stilistica, il suo ritorno in Sicilia. Questo racconto si chiama La storia del castello di Trezza. E’ un racconto di tipo gotico, dove c’è una cornice di tipo medievale e poi, dentro questa cornice, una storia contemporanea, dove c’è una contessa, la contessa Violante, che guarda dall’alto di questa torre le casipole e i fariglioni, che sono gli elementi che compariranno poi nei Malavoglia; li guarda dall’alto e prova compassione verso questa povera gente che abita in questa spiaggia, che è la spiaggia di Aci Trezza. Poi, quello che sarà il manifesto della sua svolta stilistica sarà un racconto che si chiama Fantasticheria. Natalino Sapegno dice che Verga, con  questa sua crisi, ritorna con la memoria alla terra delle madri, ritorna alla sua Sicilia, al mondo intatto della sua infanzia.

Ecco, lui si portava dentro questo mondo e c’è voluto il contatto, l’impatto con Milano per poter scoprire dentro di sè questa sua memoria. Ma soprattutto scopre una lingua che sino ad allora non aveva praticato, che era un lingua diversa da quella con la quale aveva scritto fino ad allora i cosiddetti romanzi mondani. Era questa antilingua, questa lingua di opposizione al codice linguistico toscano, che non era assolutamente siciliano perché se, in un primo momento, nei racconti della Vita dei campi e poi Novelle rusticane ci sone delle esitazioni, ci sono ancora dei vocaboli siciliani scritti in corsivo, che sono come dei buchi dentro la pagina, a poco a poco questo liguaggio si amalgama; questa lingua non è più dialettale, è una lingua che è irradiata di dialettalità, non arriva mai al dialetto. Anzi Verga, quando prese coscienza di quello che stava facendo, di quello che aveva fatto, prende le distanze dal dialetto perché capisce che la sua operazione era un’operazione assolutamente linguistica, non era un’operazione di tipo dialettale; anzi, aveva avuto un diverbio, una polemica con Capuana, col suo confrère, appunto sull’uso del dialetto. Ecco, lui capiva che aveva inventato un linguaggio che era il linguaggio dei personaggi che lui trattava; era la storia che narrava (proprio per la sua concezione dell’impersonalità), era la storia che si parlava da sè. Si parlava da sè attraverso questa lingua, che è fatta come i versetti di un libro sacro, della Bibbia o del Corano: sono i proverbi tramandati dalla sapienza dei vecchi, dalla sapienza degli antichi, sono questi proverbi che si ripetono e naturalmente sono accettati passivamente da parte dei personaggi dei romanzi e dei racconti che lui va scrivendo. Comunque delinea, proprio nella concezione che Verga aveva di fronte a questa concezione progressiva, di tipo leibniziano o mamiano, quello sul quale avevano appuntato i loro strali ironici da una parte Leopardi e dall’altra Voltaire; Voltaire nei confronti di Leibniz, con il suo romanzo Candide, mentre Leopardi nei confronti di Terenzio Mariani ne La ginestra. Lui si era ripiegato in sé stesso, si era ripiegato nella stagione dell’infanzia, in una terra immobile che era la terra dell’immobilità più […] della  Sicilia e che aveva trasferito in una dimensione esistenziale, in una dimensione quasi metafisica. Era la concezione del fato, della assoluta ininfluenza della storia nei confronti dei destini umani. Fato viene da “parlare”, forfaris e, quindi, quello che è detto è detto una volta per tutte, una volta per sempre. C’è, nella cultura arabo-musulmana, una frase del Corano, che dice “men tub” [?]; c’è anche questa matrice araba, non solo greca, nella concezione nella concezione verghiana del fato. “Men tub” significa “Ciò che è scritto è scritto”, e quindi c’è questo mondo circolare di Verga. Ora, io credo che nessuno come Verga poteva avere un concezione, in Sicilia, propria di un uomo che era nato sulle pendici di una terribilità naturale come l’Etna. L’Etna è quel vulcano che continuamente minaccia, che continuamente distrugge. Le popolazioni che sono vissute sulle falde di questo vulcano hanno sempre avuto questa concezione fatalistica della vita; quindi Verga interpreta perfettamente quella che è la concezione di questa popolazione, di questi esseri che vivono proprio sotto le minacce di una natura terribile e distruttiva come può essere quella di un vulcano. Un vulcano che poi non è altro che il simbolo, la pietrificazione di un altro elemento infido, un elemento minaccioso di cui non bisogna fidarsi, che è il mare. Lui pone la prima azione del suo romanzo, de I Malavoglia, al limite di questi due mondi, di questo mare pietrificato che è la lava, la sciara, e di quel mare tempestoso dove i Malavoglia incontreranno la loro sciagura, dove perderanno tutte le loro speranze, dove affogherà,  dove si naufragherà la barca che si chiama Provvidenza.  Dunque, questo mondo immobile, che è un incrocio fra Leopardi e il mondo tragico di Sofocle o di Euripide o di Eschilo. Naturalmente c’è una assoluta sfiducia nei confronti di una società organizzata, nei confronti della storia. Verga ritorna con la memoria in Sicilia, ma ritorna poi anche fisicamente, biograficamente nella sua Catania. In questa Catania, si chiude nella sua casa di Sant’Anna, pensa di scrivere quello che è il terzo episodio del Ciclo dei Vinti. Ma dissipa il suo tempo, ritorna come in questo alvo materno in cui rimane imprigionato. C’è una sorta di regressione, che già aveva espresso in modo poetico nelle sue opere, ma è anche una regressione di ordine biografico di Verga stesso. Ecco, dice: tutti sanno che sta scrivendo il terzo libro che è La duchessa di Leyra, e invece lo scrive [?]. Quando poi morirà, nel 1922, ecco si scopre che del terzo libro, del terzo episodio, de La duchessadi Leyra aveva tracciato soltanto il primo capitolo. E’ l’assoluta sfiducia che ha Verga nei confronti di un libro che avrebbe dovuto uscire fuori da quella che è la rigidità del poema narrativo rappresentato da I Malavoglia e, in qualche modo, anche dal Mastro don Gesualdo. Uscire fuori è scrivere il terzo romanzo, che avrebbe dovuto avere l’articolazione del romanzo ottocentesco, che avrebbe presupposto una fiducia in una società alla quale rivolgersi. Ma Verga non aveva fiducia più in questa società perché la sua riduzione stilistica, la sua rivoluzione linguistica, la scoperta di questo mondo dei vinti, aveva trovato una assoluta sordità nel mondo che lo circondava.

 

 

PER CHI VUOLE, CONTINUA QUI: PARLA DI PIRANDELLO, DI VITTORINI, DI BRANCATI,  E POI…ALLA FINE DI SE STESSO CHE DOVREBBE ESSERE LA PARTE ANCHE PIU’ INTERESSANTE…SE NON FOSSE CHE E’ TROPPO LUNGO, VA LETTO A TAPPE…

http://vincenzoconsolo.it/?paged=6&cat=4

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *