SANDOR KOPACSI, OPERAIO A BUDAPEST, PARTIGIANO CONTRO I NAZISTI, POI QUESTORE RUOLO NEL QUALE CERCA DI ” GOVERNARE ” LA RIVOLTA DEL 1956 FINENDO PER METTERSI DALLA PARTE DEGLI INSORTI, SCELTA CHE PAGHERA’ CON IL CARCERE—IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO — RECENSIONE DI MASSIMO CONGIU PER IL MANIFESTO DELL’ OTTO DICEMBRE 2016

 

settembre 2016, pp. 432
ISBN: 9788866327691
Traduzione: Angela Trezza
Area geografica: Letteratura ungherese
Collana: Dal Mondo

€ 18,00

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE E/O, POSSIAMO LEGGERE IL PRIMO CAPITOLO ::::

Il generale “La Memoria”

Era la primavera del 1975. I giornali di Budapest pubblicavano i dispacci dell’agenzia Tass in cui i sovietici chiedevano l’apertura immediata di una conferenza internazionale a Helsinki. Le grandi potenze si sarebbero dunque riunite. Nei loro discorsi tutti i dirigenti dei paesi occidentali ponevano l’accento sui diritti dell’uomo, la libera circolazione delle idee e delle persone. Mia moglie posò il giornale sulle ginocchia. «Dovresti forse ricominciare» disse. «Ricominciare che cosa?». Ero immerso nei miei ricordi. Non era facile liberarmene. Mi perseguitavano giorno e notte. «Dovresti forse andare a trovare qualcuno d’influente per sollecitare la tua domanda di cancellazione. Potrebbe essere il momento…». Anni prima, ero stato condannato all’ergastolo come uno dei capi militari dell’insurrezione di Budapest. In seguito a un’amnistia generale qualche anno dopo uscii di prigione. Ma per motivi oscuri non avevo più riacquistato i diritti civili. Sulla mia fedina penale rimaneva segnato condannato all’ergastolo. Con una fedina così in un paese come il nostro è inutile andare alla ricerca di un impiego che corrisponda alla propria qualifica. Si corre il rischio di farsi sbattere fuori, accompagnati da due poliziotti. Situazione spiacevole per un ex questore. Originariamente ero tornitore (come mio padre e mio nonno). Quando uscii di prigione, i miei amici di gioventù si  erano dati da fare per piazzarmi in una modesta azienda alla periferia della capitale. Ottenni il permesso dalle autorità. Queste chiusero anche un occhio quando, per terminare gli studi iniziati prima della detenzione, presentai la tesi alla facoltà di Legge. Conseguii la laurea con il massimo dei voti mediante dei corsi supplementari e ottenni la qualifica di legale di azienda. Ma il diritto di esercitare la professione non si tradusse mai in realtà. Il tempo trascorreva inesorabile. Da giovane colonnello di trent’anni arrestato un bel dì da Ivan Aleksandrovicˇ Serov (presidente del KGB e capo di tutti i gulag sovietici), mi ero trasformato in un proletario ex ergastolano che si avviava alla cinquantina. Se volevo ancora esercitare i miei talenti di giurista, non c’era più tempo da perdere. Ma regolarmente le mie richieste tornavano indietro, segnate in rosso, con la nota: RESPINTA. Nel mio sgomento, consultai il rettore della mia facoltà. «Che ne pensa del mio caso?». «Che lei ha perfettamente il diritto di esercitare la sua professione. La cancellazione della sua condanna doveva avvenire poco dopo la promulgazione dell’amnistia. Quali sono i motivi del rifiuto?». «Non ce ne sono». «Ma come, è impossibile! Qualsiasi rifiuto deve essere motivato». Il rettore non aveva mai visto un caso simile. Scosse pensosamente la testa. «Al posto suo mi darei da fare per appurare cosa c’è sotto tutto questo». Un giorno, prima di andare al lavoro, mia moglie mi spinse verso il telefono. «Adesso, chiedi un appuntamento a Mihály». Mihály era il ministro della Giustizia, un vecchio compagno. Non lo vedevo da quindici anni.  «Figurati se mi riceve. Non ha niente a che fare con un ex galeotto». «Provaci. Staremo a vedere». Mi sbagliavo, era mia moglie che aveva ragione. L’udienza mi fu accordata rapidamente. Era una splendida mattinata quando mi recai al ministero, un grande edificio barocco, sormontato dalla statua della giustizia. Il segretario mi accolse nel corridoio. «Sándor Kopácsi? Venga per favore. Il compagno ministro l’aspetta». Nel suo grande ufficio assolato, il ministro mi accolse in piedi, sorridendo. «Sándor! Sono contento di rivederti. Come va la famiglia?». «Grazie, tutti bene». Chiese al segretario di portarci il caffè. Non eravamo dei veri amici d’infanzia. Di origine operaia come me, era di Budapest, mentre io venivo dal nord. Gli studi ci avevano uniti. Per cinque anni frequentammo gli stessi corsi di diritto, io come questore della capitale, lui come responsabile delle forze armate presso il Comitato centrale del partito. Dopo le lezioni, o dopo gli esami, ci trovavamo a casa mia per cenare in compagnia di mia moglie, ottima cuoca. «Che fa Ibolya?». «Ha un impiego…». «E tua figlia? Avevate una figlia, vero?». «Sì, è diventata grande, si è appena sposata. Vive con il marito in Canada». Seguì un breve silenzio. Ne approfittai per esporgli i motivi della mia visita. Subito il viso del ministro assunse un’espressione grave. «Ti parlerò con franchezza, Sándor. Ho appoggiato caldamente la tua prima domanda di cancellazione. Con mio grande stupore, il Consiglio del Presidium l’ha respinta. È la prima volta che il mio parere non viene ascoltato. Puoi ben capire che ho rinunciato». «Ma insomma, non mi può essere rifiutato il diritto di vivere come tutti gli altri! Sono stato amnistiato». «Lo so…». «Fammi sapere almeno i motivi del rifiuto. Insomma le “motivazioni”, per parlare nel gergo del nostro mestiere». Mi guardò. Prese una matita, un taccuino, e scrisse alcune parole. «Va a questo indirizzo. Mi dispiace sinceramente Sándor, è tutto quello che posso fare per te. Il tuo caso è al di sopra della mia competenza». L’indirizzo era quello del Palazzo di Giustizia. L’ufficio indicato si trovava al secondo piano, porta 51. Una giovane impiegata mi stava aspettando. «Sándor Kopácsi? Sono stata avvisata della sua visita. Mi vuole seguire?». Aprì una porta con una chiave scelta in un mazzo. Attraversammo una sala vuota. Prese una seconda chiave e aprì un’altra porta. Ci trovammo in una piccola stanza senza finestre. L’impiegata accese la luce. In mezzo alla stanza c’erano un tavolo e una sedia. Con un colpo d’occhio circolare constatai che i muri e la porta erano blindati. «Si accomodi, potrà leggere il testo che la riguarda». Dal cassetto del tavolo estrasse una sottile cartella, l’aprì, e me la mise davanti. Vi trovai un foglio scritto a matita, una specie di brutta copia, piena di cancellature e di aggiunte. La maggior parte del manoscritto era dedicata alle varie precisazioni: numeri di riferimento, date, numeri di registrazione. In mezzo al foglio, finalmente qualche riga di spiegazione. «La sentenza pronunciata essendo di “detenzione a vita”, l’interessato non può beneficiare dell’annullamento della condanna». Mi sembrava di sognare.  «Signorina». «Sì». «Quello che ho letto non ha senso». «Come?». «La mia condanna è stata commutata in quindici anni di detenzione. La condanna è di quindici anni. Attualmente entra in vigore la prescrizione». Mi aveva ascoltato impassibile. «Sono solo l’impiegata incaricata delle registrazioni». «Mi autorizza a portare via il documento?». «Impossibile». «Almeno una fotocopia». «Non siamo attrezzati». «Posso prendere degli appunti?». «È vietato». Guardò l’orologio. Il tempo a disposizione era scaduto. Rimise il foglio nella cartella, e la cartella nel cassetto. Richiuse dietro di noi con tripla mandata la porta blindata. Vagai, completamente sperduto, nella città. Le autorità respingevano le mie richieste. Nascondevano il motivo del rifiuto. Mi impedivano di mettere le mani su una qualunque prova dei loro atti illegali. Eppure, già da un pezzo, il governo ungherese non perseguitava più chi aveva partecipato alla Rivolta, erano tempi di riconciliazione, gli altri due superstiti del grande processo esercitavano tranquillamente la loro professione. Improvvisamente capii. Le stesse autorità erano incastrate! Per tenermi indefinitamente in una situazione precaria, un potere superiore le obbligava a commettere una serie di atti illegali, cosa che il governo, in generale, era restio a fare. In fabbrica, presi otto giorni di congedo per malattia. Con mia moglie non riuscivamo più a darci pace. Era chiaro, non potevano essere che i servizi di sicurezza. Già in prigione, a più riprese, avevano attentato alla mia vita. Questa organizzazione non si era mai rassegnata all’idea di vedermi ancora in vita. Dopo aver chiesto per me la pena di morte al tribunale, quella gente era sicura che non sarei scampato al patibolo. Senza l’intervento personale di Kádár (attuale capo di stato ungherese) presso Chrusˇcˇëv, sarei stato impiccato insieme al primo ministro Nagy, al ministro della Difesa Maléter. (Mi domando ancora oggi con angoscia se la terza vittima, Gimes, quel grande giornalista del partito, dal talento così brillante, non sia stato spinto… al posto mio sul patibolo, per «completare il numero richiesto».)
I servizi segreti… I servizi di sicurezza…
Che fare? Come sbarazzarmi di quelle carogne, di quei piranha del Danubio? Disperato, decisi di rivolgermi a un amico d’infanzia di mio padre, una personalità di rango elevato nel paese, ma dietro le quinte del potere. L’uomo non era invecchiato. Era rimasto tale e quale lo avevo visto l’ultima volta, durante le esequie di Stato di mio padre: si era messo dall’altra parte del catafalco, accanto ad alcune personalità sovietiche in borghese, venute a rendere l’ultimo omaggio al partigiano che era stato Kopácsi senior. Era il giorno dopo la mia uscita di prigione. L’amico aveva le lacrime agli occhi. (Per mio padre? per me? forse per tutti e due.) «Ebbene Sándor, ho saputo che vorresti riacquistare il diritto di voto». Gli dissi che si trattava di una questione più grave: i servizi di sicurezza non mi volevano mollare. «Facciamo due passi». Con la mano mi indicò la porta che dava sul giardino. Persino questo personaggio al di sopra di ogni sospetto, come si suol dire, preferiva parlare lontano dai muri che potevano avere orecchie. «Sándor, i nostri servizi segreti non hanno niente a che fare con il tuo problema. Mi sono informato. Le tue pratiche sono scomparse. Non ci sono più tracce del tuo caso negli archivi». Questa sì che era una sorpresa. L’amico mi indicò di continuare, con passo regolare, la passeggiata. «Hai mai sentito parlare di “La Memoria”? È probabile che sia lui ad avere le tue pratiche». Conoscevo il personaggio. Nei circoli del ministero degli Interni, avevamo affibbiato questo soprannome a un ufficiale di alto rango dei servizi segreti sovietici, il generale Isˇcˇenko. Già ai tempi in cui ero questore, questo militare teneva sotto controllo tutti i dirigenti ungheresi. Se era lui ad avere la mia pratica, voleva dire che i russi non mi avevano perdonato. Sarei finito davanti al plotone o in un gulag. Glielo dissi. L’amico mi lanciò uno sguardo impaziente. «Povero Sándor. Non hai certo ereditato il realismo di tuo padre. I tempi sono cambiati. “La Memoria” non si occupa più di bazzecole. È diventato un personaggio influente. Se s’interessa al tuo caso vuol dire che i russi ti tengono di riserva». Il ruolo che avevo avuto durante l’insurrezione poteva essere interpretato in vari modi. Ex membro della più alta istanza del partito, compagno di martirio del primo ministro, in un momento di crisi Mosca poteva aver bisogno dei miei servizi. Le vie della diplomazia sono impenetrabili. In caso di necessità un uomo come me potrebbe essere catapultato in uno dei posti chiave del nostro paese. Mi vedeva rabbuiato. Mi chiese il motivo. «Sa, non le ho mai detto… Mio padre è morto la sera prima della mia scarcerazione. Dopo otto anni, non ce l’ha fatta a rivedermi. Si rimproverava di essere stato la causa della mia tragedia. Perché era lui che mi aveva fatto entrare nel movimento operaio. Eppure, per me, era rimasto l’essere più caro di questo mondo. Se le sue supposizioni sono esatte non c’è da perder tempo. Ritornare al potere? No grazie. Appena uscito di qui, non mi resta che spararmi». Avanzò di qualche passo, senza guardarmi. «E io, parlo forse di spararmi?» mormorò con voce appena percettibile. Verso la fine dell’incontro, mi espose le sue impressioni di un recente viaggio a Mosca. Si animò nell’evocazione di un Brezˇnev sempre più impaziente di vedere riuscito il suo gioco d’azzardo di Helsinki. Si voltò verso di me. «Ecco, lì forse ci sarebbe uno spiraglio, benché minimo, per fuggire!». Mi parlò degli scrittori e degli altri dissidenti civili che Mosca costringeva a espatriare verso l’Occidente, sulla scia del caso Solzˇenicyn. Naturalmente tra questi non c’era mai stato nessun militare. Preferivano, per esempio, tenere in un ospedale psichiatrico un generale Grigorenko, ancora molto attivo e molto fastidioso. Ma forse, progettando accuratamente le cose… «Saresti pronto a correre un grosso rischio per emigrare?». Ero disposto a tutto. Mia figlia ci aspettava in Canada. Non volevo più rimanere in balia di un potere che mi manipolava. Mi posò le mani sulle spalle. «Ti avvertirò. Intanto, non una parola con nessuno». Qualche giorno dopo, in piena notte, suonò il telefono. Staccai il ricevitore, mezzo addormentato. Sentii: «Un abbraccio alla nipotina di Józsi da parte mia». E clic, riattaccarono. Józsi – diminutivo di József – era il nome di mio padre. La «nipotina» è la mia Judit, sposata in Canada. Svegliai mia moglie. «Ibolya, ci sono novità. Potremo forse rivedere nostra figlia». Come previsto, subito dopo aver presentato la richiesta di immigrazione, persi l’impiego. Cercarono di far sottoscrivere al vecchio legale della ditta una dichiarazione in cui risultava che avevo infranto le regole della legislazione sul lavoro, e dovevo essere licenziato senza indennizzi. L’uomo rifiutò; ebbe una crisi cardiaca che lo lasciò menomato. L’altra prova ci aspettava al consolato canadese. Il console non era affatto sicuro che il suo paese potesse accordare il diritto d’asilo a un personaggio come me, così gravemente compromesso nella politica. «Non le prometto niente… M’informerò… Dovrà ritornare». Bastò questa prima visita al consolato canadese per scatenare un putiferio nei servizi di sicurezza ungheresi. Fecero sgombrare un intero piano del palazzo situato di fronte al nostro (arrestando delle puttane di lusso che già da parecchi mesi avevano instaurato un traffico di valuta con i loro clienti stranieri). L’indomani, la casa era di nuovo abitata. I nuovi occupanti vivevano con le tende abbassate. Quando uscivamo, due uomini o una coppia ci seguivano. Cosa volevano scoprire? Mia moglie e io passeggiavamo semplicemente, anche per evitare di dettare le nostre conversazioni direttamente nelle microspie (alla questura le chiamavamo «cimici»). Quando la passeggiata era troppo lunga, i pedinatori si alternavano. Poveri «Kuk» – era il nome che gli davamo – facevano proprio male il loro dovere: se all’epoca in cui ero questore avessi avuto un personale così poco qualificato, sarei stato presto sostituito (cosa che, tra l’altro, mi avrebbe evitato parecchi guai). Cinque o sei giorni dopo, stavo per essere investito da un camion di traslochi, che, rompendo la catena di protezione del marciapiede, mi sfiorò la spalla (senza il pronto intervento di Ibolya, che mi tirò indietro, ci sarei rimasto). «Ehi! Assassino!». Come se il camion non fosse guidato da nessuno, senza che una testa apparisse allo sportello, fece rapidamente marcia indietro e ripartì a tutta velocità. L’indomani l’incidente si ripeté, questa volta appena usciti di casa. Stavo attento e mi bastò un salto per mettermi al riparo; dopo aver rovesciato i bidoni della spazzatura allineati davanti al palazzo, la macchina scomparve. Rientrammo precipitosamente, chiudemmo le tende. I due incidenti erano stati casuali o si trattava di un tentato omicidio? Decidemmo che non sarei più uscito. Telefonammo ai nostri amici e dichiarammo che incominciavamo uno sciopero della fame che sarebbe durato finché non ci fosse stata data una risposta favorevole alla nostra richiesta di espatrio. Due giorni dopo, una scampanellata annunciò una visita. Un emissario del ministero degli Interni si presentò a mia moglie. Il direttore dell’ufficio passaporti mi voleva vedere urgentemente. «Quale garanzia mi date che non tratterrete mio marito?».
«Ma signora, “trattenere” all’epoca in cui viviamo, come può immaginare una cosa simile?». «Ad ogni modo siete avvisati: se mio marito non sarà di ritorno entro le prossime due ore, ci saranno telefonate dal Canada, i giornali occidentali saranno informati di tutto, e domani lei e il suo capo non saprete più dove nascondervi». «Ma signora!…». «Basta così, trasmetta quello che le ho detto al ministro, nel suo interesse!». Nell’ufficio passaporti, fui accolto da un giovanotto gentilissimo, dalla carnagione scura, che disse di essere il segretario del ministro. «Compagno Kopácsi» nessuno mi aveva più chiamato così dal mio arresto, «ho due notizie da trasmetterle, una  buona e una cattiva. Ecco quella cattiva: la sua domanda di espatrio non è stata accolta. Non ha più motivo di essere. La seconda notizia, quella buona, le spiegherà il perché. Compagno Kopácsi, è vero, l’abbiamo lesa nei suoi diritti. Riconosciamo il nostro errore. Da domani lei avrà l’impiego che corrisponde alla sua qualifica». «Questo significa che dalla sua cartella uscirà la mia fedina penale pulita e che lei me la consegnerà?». Il giovanotto tossicchiò. «Senta: no, non subito…». «Ah!». «Ma vede, prendo nota: sto segnando su questo foglio la sua domanda: “Fedina pulita” non è vero? Riferirò al ministro. In attesa, le chiederei di parlare alla signora… alla compagna… sua moglie». «Parlare?». «Nel senso, naturalmente, di essere più comprensiva, più paziente. Che abbandoni quest’idea di emigrazione, che si accontenti delle condizioni di vita più che decorose che vi offriamo… che avrete al più presto». A casa, passammo al setaccio quello che avevo appena sentito. Un’offerta di lavoro dal ministero degli Interni. Era chiaro, si trattava di una copertura per i servizi di sicurezza. Toh! E se all’ultimo minuto il ministro ci avesse fatto un brutto scherzo? Telefonammo al Consolato canadese. «Ci sono novità per i nostri visti?». «Ma come, avevate cambiato parere!». «Cambiato parere? Non abbiamo cambiato parere!». Il console cadeva dalle nuvole. «C’è un enorme pasticcio. La rappresentanza diplomatica ungherese di Ottawa ha appena informato ufficialmente il governo canadese che la coppia Kopácsi rinunciava alla sua richiesta di immigrazione». «Non è affatto vero!».
Il nostro governo ci prendeva proprio per imbecilli. Ma giocavano con il fuoco. Ero certo che “La Memoria” non era stato informato delle manovre intraprese. Nell’attuale contesto internazionale, rischiavano un ammonimento senza precedenti. Alle dieci di sera, mia figlia chiamò dal Canada. La conversazione fu interrotta due volte. Prima che la linea fosse definitivamente tagliata riuscimmo a capire che i nostri amici d’oltreoceano erano decisi ad agire. In Canada, vi è una grossa immigrazione ungherese e questo già da un secolo. Tra di loro avevo vecchi amici, sia dell’epoca in cui ero partigiano che di quando ero questore. Si sarebbe parlato del mio caso in televisione. Mia figlia, diventata un vero organo di propaganda, aveva ricevuto la visita dei giornalisti. Teneva i contatti con gli scrittori celebri del nuovo mondo e con Otto d’Asburgo, personaggio influente nel continente americano, con artisti di sinistra e persino con il Dalai-Lama. Insomma, centinaia di personaggi illustri erano pronti a firmare petizioni. Le emittenti di Europa Libera e La Voce dell’America avevano in programma una serie di trasmissioni intitolate “In favore di Kopácsi”. Passarono alcuni giorni prima che le autorità ungheresi reagissero. Intanto, in Occidente, televisione, giornali, trasmissioni di Europa Libera trattavano ampiamente il nostro caso sotto il titolo “Cattivo presagio per la conferenza di Helsinki”. La reazione fu brusca. Suonarono alla porta. Un agente dei servizi di sicurezza si presentò come emissario personale del ministro degli Interni. «Il compagno ministro la prega di volersi recare nel suo ufficio». Questa volta non prendemmo precauzioni. Capimmo che la partita era vinta. Alle nove del mattino successivo fummo ricevuti, non dal ministro ma dal suo segretario. Senza fornirci spiegazioni, ci tese un foglio protocollo e una ricevuta da firmare. Il foglio protocollo era il nostro «passaporto di emigrazione» (nel nostro paese questo documento non è altro che una specie di visto di espulsione redatto su un unico foglio per tutta la famiglia). Non ci furono parole come «compagno», né strette di mano, né «buona fortuna». Stavamo uscendo quando ci trovammo faccia a faccia con il ministro, accompagnato da due generali sovietici in divisa. Pur conoscendoci molto bene ci ignorò facendo finta di essere molto assorto nella conversazione. Appena usciti, mia moglie mi pizzicò il braccio. «Hai riconosciuto quello a destra, il più anziano dei due?». Si riferiva ai due generali sovietici. «Sai, non ho fatto molta attenzione». «Era lui». «Lui, chi?». Guardandosi intorno mi sussurrò all’orecchio. «Il generale Isˇcˇenko. “La Memoria”. Lo riconoscerei fra mille persone, dal suo sguardo». “La Memoria” era venuto personalmente a controllare se l’ordine del Cremlino era stato eseguito, se cioè lo Stato ungherese si era veramente sbarazzato dell’ingombrante coppia Kopácsi.

link delle edizioni e/o — dove si trova il capitolo:::

https://www.edizionieo.it/download.php?id=VTJGc2RHVmtYMTloN0J3SzArRkFRWkJqdCtlaTB6NDl5aERDNFIzMWhqND0=

 

 

 

IL MANIFESTO DELL’ 08 DICEMBRE 2016

https://ilmanifesto.it/kopacsi-il-racconto-della-sollevazione-popolare-a-budapest/

 

 

CULTURA

Kopácsi, il racconto della sollevazione popolare a Budapest

SCAFFALE. «Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello», di Sándor Kopácsi per e/o. La storia di un paese in fiamme tra fatti privati e politici

Nella foto Gèza Rohrig, tratto dal film “Il figlio di Saul” di Làszlo Nemes (2015)

 

Nel 1944 Sándor Kopácsi è un giovane operaio. Viene dal nord dell’Ungheria e si unisce alla Resistenza contro i tedeschi. Saluta con entusiasmo l’arrivo delle truppe sovietiche e, quindi, la liberazione, in seguito alla quale entra nel partito e conosce una rapida carriera che lo porterà a diventare questore di Budapest a soli trent’anni. Come tale, andrà incontro a quel fatale autunno del 1956 che Kopácsi racconta in Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (edizioni e/o, pp. 419, euro 18, traduzione di Angela Trezza, postfazione di Aldo Natoli), il romanzo della sollevazione popolare ungherese in cui la vicenda personale del narratore si intreccia sempre più strettamente con quelle di una Budapest e di un intero paese in fiamme.
Kopácsi crede nel socialismo, nella sua capacità di ricostruire materialmente e moralmente la sua Ungheria uscita pesantemente sconfitta dalla Seconda guerra mondiale dopo essersi messa dalla parte della Germania di Hitler.

CREDE NEL PARTITO e nella sua capacità di agire per il bene del paese anche quando, alla fine degli anni ’40, hanno luogo processi montati ed esecuzioni nei confronti di dirigenti del partito accusati di deviazionismo titoista. La prima vittima è László Rajk, che viene accusato di aver ordito un complotto con la Jugoslavia di Tito e con gli imperialisti contro il governo del suo paese.
Una volta diffusasi l’accusa negli ambienti militari e della sicurezza, József Szilágyi, superiore diretto di Kopácsi, dice a quest’ultimo che non c’è niente di vero. «Il compagno László Rajk non è colpevole – gli confida -. È una storia montata dai servizi di sicurezza sovietici e dai loro colleghi ungheresi». L’autore e protagonista del racconto è incredulo e colto da stupore. Gli ci vorrà del tempo per rendersi pienamente conto di quanto accaduto in quella particolare fase della storia ungherese e per ripensare alla vicenda di Rajk, giustiziato nel 1949.
Sono gli anni di Mátyás Rákosi, all’epoca segretario generale del partito. Uomo dal potere pressoché illimitato, con un passato significativo: il battaglione ungherese delle Brigate Internazionali che avevano preso parte alla guerra di Spagna portava il suo nome. Kopácsi è emozionato la prima volta che si presenta al suo cospetto, e nota che quell’uomo è informato di tutto e indovina tutto. Diventerà suo addetto prima di essere nominato questore.

GLI AVVENIMENTI si snodano davanti agli occhi di un Kopácsi che identifica i suoi obiettivi con quelli del partito, la sua fiducia in esso è incrollabile anche nel periodo delle persecuzioni volute da Rákosi ai danni dei presunti nemici del sistema. Non ha la capacità critica di esaminare accuratamente i fatti e mostra una certa ingenuità nella fede che coltiva verso la massima istituzione dell’Ungheria di allora. Conosce bene il mondo operaio e ha modo, in diverse occasioni, di mostrare la sua umanità anche da questore di Budapest, una carica importante nella quale continuerà a sentirsi al servizio del popolo e che non concepirà mai in modo prevalentemente burocratico.

NEL MARZO DEL 1953 piange per la morte di Stalin, ma dopo lo choc della denuncia dello stalinismo e dei suoi crimini da parte di Nikita Chrušcëv, a margine del XX congresso del Pcus, nel febbraio del 1956, smette di avere fiducia in Rákosi, definito «il miglior allievo di Stalin». Non si rende, però, realmente conto di quanto accade in Polonia e a Budapest nel prosieguo di quello stesso anno. Non sa dare ancora l’esatto valore ai funerali e alla riabilitazione di Rajk ed è sorpreso dalla manifestazione del 23 ottobre che condurrà all’insurrezione. Nel corso dei disordini e dei combattimenti farà del suo meglio per svolgere le mansioni a lui affidate in quanto questore. Cercherà sempre di fare scelte dettate dal senso dell’equilibrio pur sentendosi spaesato a causa del rapido – e per lui ancora incomprensibile – svolgersi degli eventi dai quali verrà trascinato come in un vortice, e saranno gli intenti del governo guidato da Imre Nagy a farlo passare dalla parte degli insorti che finisce per considerare la vera anima del movimento operaio al quale resta fedele. Di questa scelta dovrà rispondere dopo la repressione della rivolta, quando dovrà sottoporsi alla giustizia dei vincitori.

SÁNDOR KOPÁCSI racconta questa storia in prima persona descrivendo un’Ungheria che passa dai fermenti postbellici a quelli della sollevazione popolare. Su questo sfondo ha luogo la storia d’amore con la moglie Ibolya, bella partigiana dalla quale ha una figlia, Judit, che nei giorni trascorsi da rifugiata all’ambasciata jugoslava di Budapest con alcuni membri del governo insorto, si affeziona alla figura bonaria del primo ministro che chiama «zio Imre». In lei Sándor vede sua madre che da piccola, nel cortile della casa operaia in cui abitava, sparava contro gli aerei dell’esercito bianco. Ma questo succedeva nel 1919.

 

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