INTERVISTA A LISA NOJA (MILANO, 1974— CANDIDATA ALLA CAMERA PER IL PD) DI BRUNELLA GIOVARA PER REP. 1° MARZO 2018 ::: ” MI CANDIDO PERCHE’ VOGLIO CHE ALTRE PICCOLE LISA ABBIANO LE STESSE OPPORTUNITA’ CHE HO AVUTO IO “

 

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LISA NOJA

 

 

Intervista

Lisa Noja

“Non mi candido per fare la quota disabili ma per i diritti di tutti”
BRUNELLA GIOVARA,
MILANO

 

Certe volte si parte in salita, poi ci si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode, si va a fare il master in California, si entra in uno studio legale importante (Pedersoli e Associati) eccetera, e magari ci si trasferisce a Roma in Parlamento. Lisa Noja, 44 anni, avvocato specializzato in Diritto della concorrenza. Candidata del Pd alla Camera nel collegio plurinominale Lombardia 1, e nel collegio Abbiategrasso Legnano.

Avvocato, perché si candida.

«Perché voglio che altre piccole Lisa abbiano le stesse opportunità che ho avuto io. Sono disabile, in carrozzina fin da piccolissima, a causa di una malattia genetica congenita. Eppure non mi sento nella categoria disabili. Cioè, non mi sento una bandierina della disabilità. Piuttosto, mi sento nella categoria delle persone che possono usare la loro esperienza per provare a cambiare le prospettive di chi è più giovane».

Perché?

«Molti pensano che quando si è disabili fin da piccoli, alla fine ci si abitua. Invece hai le spalle piccole e devi affrontare prove molto faticose. I ragazzini e le ragazzine disabili hanno un fardello più pesante. Con loro hai il dovere di costruire un progetto di vita, pensando che hanno un potenziale che devono tirare fuori».

Così è successo a lei.

«Sì, ma quando volevo iscrivermi alla Statale non ho potuto farlo perché allora era inaccessibile, così sono andata in Cattolica. Ora le cose sono cambiate, molto è stato fatto, a Milano soprattutto. E anche prima che il sindaco Sala mi affidasse la delega alle Politiche per l’accessibilità della città. Ma questa è prima di tutto una lotta per i diritti civili. Quando il Paese progredisce in assoluto, progredisce anche sui diritti civili. E io dico: se non puoi neanche entrare in un luogo, è difficile che tu possa esercitare i tuoi diritti».

Lei è vissuta in California per il master, cosa ha capito là?

«Che gli americani quando si mettono in testa una cosa la fanno e basta. La California poi è stata un’apripista sui diritti civili, basta pensare alla battaglia di Harvey Milk. E la prima legge sull’accessibilità l’hanno fatta lì, trent’anni fa. Qui c’è ancora molto da fare».

È questa è la nuova frontiera dei diritti?

«Un po’ sì. Ma secondo me i tempi sono maturi, la vittoria sulle unioni civili è arrivata quando tutti lo hanno sentito come un proprio problema, anche se eterosessuali. Vorrei che lo stesso meccanismo scattasse per quanto riguarda il diritto all’accessibilità.

Se non posso entrare in un cinema, il problema è di tutti, non solo mio».

Cosa la fa arrabbiare?

«La frase che mi fa andare fuori di testa è questa: noi italiani abbiamo le braccia, ti portiamo su noi! Succede quando c’è una scala insormontabile, ad esempio. Ma io voglio poter entrare in un luogo senza essere trasportata come un pacco, e in maniera dignitosa.

Perciò spero che questa diventi una battaglia collettiva».

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