DANIELE SANTORO, LIMES DEL 22-01-’18 :::L’OFFENSIVA SU AFRIN CONFERMA LA SCELTA EURASIATICA DI ERDOGAN—CARTE GEOPOLITICHE DI LAURA CANALI

 

LIMESONLINE, 22 GENNAIO 2018

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GLI ULIVI DI AFRIN…non fanno bella vita…

 

 

L’offensiva su Afrin conferma la scelta eurasiatica di Erdoğan

Carta di Laura Canali - 2017

[Carta di Laura Canali – luglio 2017]

Con l’operazione anti-Pkk in Siria, il presidente della Turchia si è preso Atatürk, la nazione e la bandiera. Il legame con la Russia e l’Iran è la risposta all’ostilità degli Stati Uniti.

di Daniele Santoro

Abbiamo aspettato, abbiamo aspettato e poi di notte, all’improvviso, abbiamo colpito”.


Recep Tayyip Erdoğan celebra così l’inizio della operazione “Ramo d’ulivo (Zeytin Dalı), avviata il 20 gennaio dalle Forze armate turche ad Afrin.


Il nome dell’operazione evidenzia un importante slittamento rispetto alla precedente, “Scudo dell’Eufrate“, che serviva a ostacolare l’espansione verso occidente del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). “Ramo d’ulivo” ha evidentemente un connotato pacifista. Mira a liberare la popolazione araba e turcomanna di Afrin dal pugno di ferro del Pkk. Ma nella botanica c’è anche della geopolitica. L’ulivo è la coltura tipica di Afrin; l’operazione potrebbe dunque non essere estesa a Manbij, come hanno minacciato quasi tutti i vertici della Turchia.


La continuità con Scudo dell’Eufrate è invece espressa dal numero di aerei da guerra che hanno preso parte alla prima offensiva contro il Pkk: 72, come i martiri dell’operazione terminata a marzo dello scorso anno. I jet turchi, fra l’altro, hanno fatto un discreto lavoro: 108 obiettivi colpiti su 113, percentuale di precisione superiore al 95%. Gli analisti turchi se lo vendono come un record mondiale. Forse non è vero, ma rivela come la nazione in armi sia in festa.


Carta di Laura Canali - ottobre 2017

Carta di Laura Canali – ottobre 2017


Appare ora in tutta la sua nitidezza il rapporto che lega i turchi alla guerra. I cronisti delle maggiori emittenti intervistano a “bordocampo” i carristi; “come stanno i nostri? Come procedono le operazioni?”. Risposta classica a qualsiasi domanda: “non riusciranno a spaccare la nostra patria”.


“Ramo d’ulivo” è gravida di conseguenze interne, forse persino più profonde di quelle geopolitiche. Erdoğan è infatti tornato a unire la nazione dopo averla spaccata con il referendumsul presidenzialismo. In Turchia batte “un unico cuore”, come ha titolato Hürriyet il 21 gennaio. La nazione è stretta intorno alle Forze armate e al suo comandante in capo.


Ha dovuto appoggiare l’operazione anche il capo del principale partito d’opposizione – ribattezzato da Erdoğan “principale partito del tradimento”, in un gioco di parole fondato sull’assonanza tra muhalefet, opposizione, e ihanet, tradimento – Kemal Kılıçdaroğlu. Che qualche giorno fa ha fatto eleggere a capo della sezione del partito di İstanbul (la più importante del paese) Canan Kaftancıoğlu, che considera “sbagliato perché militarista” lo slogan “siamo i soldati di Mustafa Kemal” e non ha problemi a pronunciare – parliamo di un esponente del partito fondato da Atatürk stesso – la parola “genocidio” in riferimento al massacro degli armeni.


Erdoğan si è preso Atatürk, la nazione e la bandiera. Questo vale molto più di Afrin. Anche perché l’operazione militare ha cementato l’asse tra Akp (il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdoğan) e Mhp (Partito del movimento nazionalista). Il segretario del Mhp Devlet Bahçeli sta giocando un ruolo fondamentale. È dopo l’incontro tra quest’ultimo e il primo ministro Binali Yıldırım che l’operazione è iniziata. Bahçeli, che ha annunciato di recente il proprio sostegno al Reis alle prossime elezioni presidenziali, se la sta intestando tanto quanto Erdoğan. E quando il capo dei Lupi Grigi afferma che “non stiamo scherzando” andrebbe preso sul serio.


Ostile all’operazione, invece, il “partito buono” di Meral Akşener. Ostilità comprensibile, considerando che la “lupa” (Asena) sta giocando una partita delicatissima, la cui posta in gioco è negoziare con Erdoğan da una posizione di forza dopo le prossime elezioni. Ostile ovviamente anche il partito del Pkk, l’Hdp: l’operazione è anche contro di loro. Ramo d’ulivo vendica Kobani. Poco più di tre anni fa, nell’ottobre 2014, l’allora co-segretario dell’Hdp Selahattin Demirtaşordinò un’insurrezione armata all’interno della Turchia che causò 50 morti nei successivi scontri tra manifestanti e polizia. In quei giorni, gli Stati Uniti si alleavano con il Pkk. Da allora è cambiato tutto. Demirtaş e la sua collega Figen Yüksekdağ sono in galera. Ed è proprio quest’ultima che i nazionalisti hanno scelto per sfogare tre anni di frustrazioni. Popolarissimo sui social è il video in cui Yüksekdağ afferma che “appoggiamo la nostra schiena (nel senso di traiamo forza da, nda) sulle Ypg e le Ypj”. Poi parte un minuto di razzi turchi su Afrin; “e adesso dove ti appoggi?”.


Carta di Laura Canali - settembre 2016

Carta di Laura Canali – settembre 2016


Quella di Afrin era una questione tra Russia e Turchia. Gli statunitensi, come nell’agosto 2016, andavano solo messi di fronte al fatto compiuto. Erdoğan ha posto Afrin al vertice dell’agenda dell’incontro fra Turchia, Russia e Iran di Soči dello scorso novembre. Dopodiché, ha tirato il freno a mano a Idlib, allestendo solo tre dei quindici punti di controllo previsti dall’accordo di Astana. Prima di andare oltre, voleva il via libera da Mosca per colpire Afrin.


Vladimir Putin, dal canto suo, pretendeva garanzie specifiche su Idlib. L’accordo è stato verosimilmente raggiunto il 19 gennaio, quando la Russia ha ordinato l’evacuazione delle proprie truppe di stanza a sud del cantone di Afrin: era il segnale che Erdoğan attendeva. Ora il Reis dovrà mantenere i patti a Idlib, il che avrà delle evidenti e fondamentali conseguenze sul processo di semplificazione del caos siriano. L’offensiva turca ad Afrin è dunque la conferma che i rapporti tra Ankara e Mosca sono solidi. Molto solidi. I vertici della Russia stanno difendendo la Turchia contro gli Stati Uniti; il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che “le attività unilaterali degli Stati Uniti hanno fatto infuriare la Turchia”. Ed è interessante che il Pkk non se la stia prendendo tanto con i turchi quanto con i “traditori” russi.


Le operazioni condotte dagli aerei da guerra turchi nello spazio aereo siriano confermanoinoltre che le relazioni tra Ankara e Damasco sono di fatto ristabilite. A fine dicembre, da Tunisi, Erdoğan aveva dato al presidente siriano Bashar al-Asad del “terrorista”. Doğu Perinçek – ideologo eurasiatico che negli scorsi anni ha tenuto in piedi i rapporti con il regime siriano e che vanta rapporti di amicizia personale con Asad – aveva immediatamente lamentato che gli sarebbe toccato ricominciare a tessere la tela da capo. Il 19 gennaio, alla vigilia dell’inizio dell’operazione, Perinçek (debole nelle urne ma potentissimo nello Stato) ha addirittura chiesto a Erdoğan di concordare l’offensiva con Asad o dimettersi. Effettivamente, il presidente siriano minacciava di abbattere gli aerei da guerra turchi. Questi ultimi hanno invece “invaso” lo spazio aereo siriano e sono tornati sani e salvi in patria.


Inevitabile che anche l’Iran sostenga l’operazione. Teheran ha infatti iniziato a considerare il Pkk siriano una minaccia assoluta alla propria sicurezza, in quanto cliente degli Usa ai suoi confini. La neonata “armata del terrore” – trentamila militanti del Pkk addestrati dagli Stati Uniti nel Nord della Siria – appollaiata come un avvoltoio al confine turco-siriano non lascia indifferenti neanche i persiani.


Carta di Laura Canali - luglio 2017

Carta di Laura Canali – luglio 2017


Erdoğan consolida anche i rapporti con Baghdad a spese dei curdi dei Barzani, mentre scaccia il Pkk da Afrin. Il presidente turco ha mandato a dire ai suoi ex alleati che se vogliono rimettere in carreggiata le relazioni con Ankara devono prima cedere alle richieste del governo centrale iracheno, cui Erdoğan li vorrebbe allineati. Domenica, il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu si è recato nella capitale irachena senza passare per Arbil, come era d’uso fino a qualche mese fa. Pare che il primo ministro del Krg Nerchivan Barzani stia chiedendo con insistenza di essere ricevuto ad Ankara, ma Erdoğan non vuole saperne. Non sembra neanche preoccupato del commercio di petrolio avviato da Iraq e Iran dopo la riconquista araba di Kirkuk a ottobre. Perché il pentagono eurasiatico Russia-Turchia-Iran-Iraq-Siria sta prendendo forma rapidamente.


Non si tratta di una scelta di campo, ma di allargare la rosa delle opzioni. In tal senso Çavuşoğlu ha chiarito che non esiste un asse tra Turchia, Iran e Qatar. Perché, per dirla con il decaduto Ahmet Davutoğlu, “l’asse è Ankara”; per usare un altro concetto nodale nella visione geopolitica dello stratega turco, la Turchia è il “paese centrale”.


Gli analisti più pacati del fronte governativo sottolineano come la strategia di Ankara poggi su tale centralità. E ricordano che non è la Turchia a essere ostile agli Usa, ma il contrario. Sono gli Stati Uniti che vogliono creare una “forza di confine” a diecimila chilometri dai loro confini.


Dietro la scelta eurasiatica di Erdoğan non c’è (ancora) una prevalente motivazione ideologica. Il presidente turco guarda a Mosca e non a Washington, Berlino o Parigi perché solo al Cremlino trova qualcuno disposto a prendere seriamente in considerazione gli interessi della sua nazione.

 

 

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