PRAGA 1968— WLODEK GOLDKORN, REP. 4-01-2018, pp. 18-19 ::: ALEXANDER DUBCEK E LA PRIMAVERA DI PRAGA

 

 

REPUBBLICA, GIOVEDI’ 4 GENNAIO 2018, pp. 18-19

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Alcuni studenti al festival della gioventù di Sofia con i manifesti di Svoboda e Dubcek …

 

L’anniversario

Praga 1968

Dubcek e il sogno della Primavera mai sbocciata

WLODEK GOLDKORN ( notizie in fondo )

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Alexander Dubcek (1921-1992) è nominato segretario del Partito cecoslovacco  il 5 gennaio 1968 con l’iniziale appoggio di Mosca

 

Eterogenesi dei fini. Ironia e capriccio della Storia.

Chiamiamolo come vogliamo, ma quando il 5 gennaio di cinquant’anni fa Alexander Dubcek venne eletto capo del Partito comunista cecoslovacco, a Mosca il suo omologo, anzi il padrone Leonid Breznev tirò un sospiro di sollievo. Dubcek era slovacco, ma parlava il russo meglio della sua lingua natia perché era cresciuto in Urss, bravo scolaro, ottimo pioniere. Era un perfetto uomo sovietico insomma, il personaggio che avrebbe finito per portare al fallimento l’ultimo e generoso tentativo di costruire “il socialismo dal volto umano”, vittima dello stesso Breznev. Suo padre, emigrato dalla poverissima Slovacchia a Chicago, a metà anni Venti scelse come patria d’elezione il Paese di Lenin e Stalin. Portò con sé la moglie e il bambino Alexander che tutti chiamavano con il nome russo Sasha. Sasha in Slovacchia approdò solo 17enne nel 1938, ma in Russia ci tornò ancora: nel 1955 per studiare Scienze politiche.

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Antonìn Novotny’

Negli anni Sessanta la Cecoslovacchia era governata da un ex prigioniero di Mauthausen, Antonín Novotný, salito al potere quando Stalin era vivo e vegeto.

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Rudolf Slansky al processo di Praga del 1952—Slánský nel ’44 da Mosca ritornò entro i confini dell’ex Cecoslovacchia e fu tra gli animatori della fallita insurrezione nazionale slovacca contro gli occupanti tedeschi ed il governo collaborazionista di monsignor Tiso. Divenuto segretario generale coll’ottavo congresso del PCC nel marzo 1946, dopo il colpo di Stato dei comunisti nel 1948 divenne il secondo uomo più potente del paese dopo Gottwald ed in quanto tale organizzò le campagne di collettivizzazione forzata delle campagne.Nel gennaio 1949 fu il capo della delegazione cecoslovacca alla riunione fondativa del Comecon a Mosca. Dopo la rottura con Josip Broz Tito, presidente della Jugoslavia, Stalin temeva il ripetersi di altre insorgenze nazionaliste nei Paesi europei appena conquistati e individuò negli ebrei il potenziale nucleo di un’opposizione organizzata al regime. Sin dal 1950 Slánský, di origine ebraica, venne indebolito tramite la rimozione e la messa sotto accusa di due dirigenti a lui vicini. Nel novembre dell’anno seguente Slánský fu arrestato senza preavviso. Esattamente un anno più tardi fu uno dei 14 dirigenti (11 dei quali di origine ebraica) che figurarono al processo pubblico di Praga, con l’accusa di alto tradimento. (wiki, sotto il nome)

 

Aleggiava ancora nell’aria lo spettro del processo Slánský, una vicenda traumatica che vide nel 1952 condannati a morte dirigenti del Partito, accusati di tradimento e “cospirazione sionista”. Furono riabilitati soltanto nel 1963, ma senza che lo stalinismo fosse messo seriamente in questione.

Nel contempo, sempre nel 1963, durante le celebrazioni del centenario di Matica Slovenskà (matrice slovacca), un’istituzione nata per promuovere la cultura e la lingua slovacche, appunto, si erano sentite voci che chiedevano parità di diritti delle due nazioni della Cecoslovacchia. Una rivendicazione, cui i comunisti locali non erano estranei.

Ma sono prima di tutto gli scrittori, i teatranti, i registi del cinema, gli intellettuali a chiedere che l’aria nel Paese cambi. Integrati nel circuito della cultura occidentale, vogliono vivere e lavorare, come appunto si fa in Occidente. Così il teorico della letteratura Eduard Goldstücker organizza convegni sul praghese (mal visto dalle autorità perché critico della burocrazia) Franz Kafka. Autori come Bohumil Hrabal, Milan Kundera, Pavel Kohout, Ludvìk Vaculìk, o il giovane Václav Havel, scrivono libri e mettono in scena commedie che poco hanno a che fare con l’ideale estetico del socialismo reale. Il cinema vive la stagione di una “nouvelle vague”.

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Vaclav Havel abbraccia Alexander Dubcek, leader della «primavera di Praga» del 1968

 

Certo, c’è Milos Forman. Ma la metafora dello stato d’animo del Paese che si avvia verso la sua “Primavera” è interpretata da un capolavoro dimenticato di Vera Chytilová, Le margheritine. La pellicola, comica, narra di due “cattive ragazze”, Maria I e Maria II. Le due trasgrediscono ogni precetto di buona condotta e di morale borghese e nel loro viaggio iniziatico e avventuroso (e anche femminista), finiscono per demolire la sala, con tavoli sontuosamente apparecchiati, dove dovrebbero banchettare i capi del partito. Il film dai medesimi capi del partito fu giudicato “decadente”.

Aggiungiamo gli studenti che nel 1967 scendono in piazza a Praga, e così arriviamo alla fatidica riunione nel dicembre 1967, a cui Novotný invita Breznev, sperando nel suo aiuto. Invano, perché l’uomo venuto da Mosca dice ai vassalli di Praga “ eto vashe delo”; sono affari vostri. Il 5 gennaio 1968 Dubcek è al potere, con soddisfazione del Cremlino.

Quel che segue è la solita dinamica delle rivoluzioni. La Storia infatti raramente procede per tappe e in genere difficilmente corrisponde alle intenzioni dei suoi artefici. Il potere cerca di imporre dei limiti, ma la libertà concessa non basta più. Così Dubcek, uomo timido che prediligeva le mediazioni, per non allarmare Mosca parlava del “socialismo dal volto umano”.

Nessuna fuoriuscita dal Patto di Varsavia, nessun discorso sull’introduzione del capitalismo.

Certo, si discuteva delle riforme economiche, ma sempre nel quadro delle istituzioni socialiste.

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21 agosto 1968::: le truppe sovietiche e quelle del patto di Varsavia entrano in Cecoslovacchia per fermare ” la Primavera di Praga ”

 

La radicalità riguardava piuttosto la semantica del potere. Ecco, quel che risultava insopportabile ai vicini, soprattutto ai polacchi e ai tedeschi dell’Est (in Polonia gli studenti scandivano: «Aspettiamo il nostro Dubcek») era l’aria di libertà; i giornali senza censura; l’abbraccio del popolo ai capi. Con il senno di oggi è davvero difficile capire fino in fondo perché Breznev si sentì tanto deluso dal ragazzo Sasha, che comunque credeva nell’ideale socialista e fino all’ultimo drammatico incontro con il capo del Pcus, ad agosto, ribadiva di voler restare fedele al Patto di Varsavia. Finì comunque con l’invasione del Paese da parte delle truppe sovietiche e dei suoi alleati.

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Praga durante l’invasione del 1968

In realtà, però la storia non terminò così. I leader della Primavera cecoslovacca vennero arrestati, portati a Mosca e costretti a firmare un’umiliante dichiarazione di resa. Accettarono tutti, a eccezione di uno e vale la pena di ricordarlo, se non altro per salvare (per quanto si possa farlo) il buon nome del comunismo. Si chiamava Frantisek Kriegel, era ceco per libera scelta, visto che era nato a Stanislawòw, come ebreo austroungarico e a casa parlava polacco, yiddish e tedesco. A Praga andò per studiare medicina, preferì la capitale cecoslovacca all’allora polacca e vicina Leopoli (oggi in Ucraina). Da medico combatté in Spagna contro i fascisti; poi in Estremo Oriente contro i giapponesi alleati di Hitler. Tornato a Praga, nel 1960 fu spedito a Cuba per aiutare Fidel Castro e Che Guevara a costruire il sistema sanitario, accessibile a tutti. Nel 1968, a Mosca disse: «Potete fucilarmi, o spedirmi in Siberia, ma non firmerò». Non lo fucilarono, lo riportarono a Praga.

Morì, a fine anni Settanta, strettamente sorvegliato dalla polizia, attivista accanto a Havel dell’opposizione democratica.

Dubcek invece, gestì la normalizzazione (per salvare il salvabile), fino a quando nell’aprile 1969 alla carica del segretario del Partito gli subentrò Gustáv Husák; il pretesto fu l’inerzia della polizia dopo le manifestazioni di giubilo per la vittoria della squadra di hockey cecoslovacca contro l’Urss. Tornò in campo nel 1988. Da presidente della Camera tentò di fermare la secessione tra i cechi e gli slovacchi.

Non gli diedero retta.

 

 

 

NOTA DEL BLOG SULL’AUTORE DELL’ARTICOLO:

Wlodek Goldkorn è stato per molti anni il responsabile culturale de «L’Espresso». Ha lasciato la Polonia, sua terra nativa, nel 1968. Vive a Firenze. Ha scritto numerosi saggi sull’ebraismo e sull’Europa centro-orientale. È co-autore con Rudi Assuntino di Il Guardiano. Marek Edelman racconta (Sellerio, 1998) e con Massimo Livi Bacci e Mauro Martini di Civiltà dell’Europa Orientale e del Mediterraneo(Longo Angelo, 2001) e autore di La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità (Bollati Boringhieri, 2006). Per Feltrinelli ha pubblicato Il bambino nella neve (2016).

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