ANDREA DE GEORGIO, LIMESONLINE, n. 11- 2017–IN NIGER L’UE SI TRAVESTE DA BENEFATTRICE PER NON FARE IL LAVORO SPORCO–al fondo, foto della capitale del Niger, Niamey

 

NOTA DEL BLOG::: IL SAHEL:::  Pechristener Sahel Map

 

Il Sahel (dall’arabo Sahil, “bordo del deserto”) è una fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che si estende tra il deserto del Sahara a nord e la savana del Sudan a sud, e tra l’oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est.  E’ un’area di passaggio climatico dall’area arida (steppica) del Sahara a quella fertile della savana arborata sudanese (asse nord-sud).

Il Sahel copre i seguenti stati (da ovest a est): GambiaSenegal, la parte sud della Mauritania, il centro del MaliBurkina Faso, la parte sud dell’Algeria e del Niger, la parte nord della Nigeria e del Camerun, la parte centrale del Ciad, il sud del Sudan, il nord del Sud Sudan e l’Eritrea.

 

 

LIMESONLINE–IN AFRICA, n. 11 2017

http://www.limesonline.com/cartaceo/in-niger-lue-si-traveste-da-benefattrice-per-non-fare-il-lavoro-sporco

 

IN NIGER L’UE SI TRAVESTE DA BENEFATTRICE PER NON FARE IL LAVORO SPORCO

Pubblicato in: AFRICA ITALIANA – n°11 – 2017

Carta di Laura Canali.

Carta di Laura Canali

La pletora di aiuti ‘allo sviluppo’ erogati al paese saheliano, snodo strategico dei traffici trans-sahariani, ha come vero obiettivo bloccare i migranti e accaparrarsi le risorse. Il gioco di Niamey. Il ruolo dell’Italia. Sul terrorismo si rischia l’effetto boomerang.

di Andrea de Georgio

1. Nel processo di ridefinizione dei pesi strategici che caratterizza la contemporaneità,zone e paesi finora marginali nello scacchiere geopolitico stanno velocemente assumendo un’importanza imprescindibile. Un caso su tutti è quello del Niger. Tale Stato dell’Africa occidentale, in passato confuso con la vicina (e ben diversa) Nigeria, è diventato il centro della fascia sahelo-sahariana e ultimamente riempie l’attualità dei media italiani e non.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Se il binomio minaccia terroristica globale-gestione dei flussi migratori funge da pretesto per la crescente militarizzazione del Niger, gli interessi nascosti di alcune potenze mondiali qui impegnate sembrano invece rappresentare mire di natura neocoloniale. Sfruttamento delle risorse locali e creazione di basi militari per il controllo di vasti territori strategici sono i veri pilastri della «corsa al Niger», una partita diventata negli ultimi mesi decisiva nella ridefinizione delle sfere d’influenza nel Sahel e, più in generale, nell’intera Africa occidentale.

La pressione della Cina e di altri nuovi attori regionali, quali Sudafrica e India, sta spingendo le potenze occidentali a un rinnovato impegno militare e diplomatico in Niger, i cui governanti sono diventati ospiti immancabili di conferenze e summit globali sulla sicurezza e sulla gestione delle frontiere. Francia, Stati Uniti e Germania sono i principali attori impegnati nella militarizzazione del Niger, in nome della «solidarietà internazionale» nella lotta al terrorismo e ai flussi migratori verso l’Europa. L’Italia non vuole rimanere indietro e si sta prodigando.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


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Niamey Nyala

Nelle vie centrali di Niamey, polverosa capitale nigerina, agenzie delle Nazioni Unite e Ong internazionali hanno aperto o rinnovato le proprie sedi, mentre sempre più macchine con targhe diplomatico-umanitarie ingorgano il traffico cittadino nelle ore di punta. Cantieri, gru e camion stracarichi riempiono di cemento ampi spazi urbani rimasti vuoti negli ultimi decenni. Una pressione demografica esponenziale (in Niger la fecondità media sfiora i sette figli per donna, record mondiale) e un altissimo tasso di urbanizzazione pongono il fragile governo del Niger di fronte a sfide cruciali. Girando per il centro di Niamey si ha la sensazione di trovarsi in un nuovo ombelico del mondo.

Nel 2017, per la prima volta dopo diversi anni, il Niger ha abbandonato l’ultimo posto nell’indice di sviluppo umano (

a scapito della Repubblica Centroafricana Risultati immagini per repubblica centrafricana cartina, minata da un conflitto armato sempre più destabilizzante). Tuttavia, corruzione diffusa e accentramento della ricchezza stanno ampliando la forbice socioeconomica fra le élite al potere e i comuni cittadini.

Le condizioni di vita della popolazione nigerina peggiorano di anno in anno. A Niamey aumentano a vista d’occhio senzatetto ed emarginati, costretti a vivere degli scarti raccolti nelle strabordanti discariche a cielo aperto. E mentre la popolazione vive cicliche e crescenti crisi alimentari, dovute anche agli effetti dei cambiamenti climatici che qui incidono più che altrove, nei palazzi del potere si firmano accordi milionari con vecchi e nuovi alleati strategici interessati soprattutto a bloccare i flussi migratori verso l’Europa.

Ma la facciata nasconde appetiti ancora meno nobili. Uranio, petrolio, gas naturale, oro e diamanti di cui il sottosuolo nigerino è ricco fanno gola a società occidentali oggi più che mai preoccupate dell’ascesa della Cina nel mercato africano delle risorse. Anche se le pesanti oscillazioni del prezzo mondiale dell’uranio seguite al disastro di Fukushima hanno causato la chiusura di alcune storiche miniere della regione di Arlit (e il conseguente licenziamento di molti lavoratori nigerini), il colosso francese Areva continua a estrarre qui il minerale che contribuisce per il 30% al fabbisogno energetico transalpino, mentre nella stessa zona la Cina ha recentemente ottenuto la sua prima concessione per lo sfruttamento della miniera d’uranio di Azelik.

La recente costruzione di una raffineria statale a Zinder, realizzata nell’Ovest del paese da una società cinese attraverso un prestito ancora in parte non rimborsato dal governo nigerino (fortemente indebitato con banche cinesi nel tentativo di rilanciare la stagnante economia nazionale attraverso la costruzione di infrastrutture), è la prova concreta dell’espansionistica politica commerciale di Pechino in Niger. Un partenariato economico che spaventa l’Occidente, tradizionalmente legato a dinamiche di cooperazione più vecchie e asimmetriche verso cui alcuni Stati africani manifestano un crescente malcontento.


2. La doppia pressione terroristica esercitata sul Nord-Ovest nigerino da al-Qā‘ida nel Maghreb islamico (Aqim, che insieme ai numerosi gruppi vassalli mantiene la base operativa nel Centro-Nord del Mali, ma sconfina sempre più in Niger, Burkina Faso e Costa D’Avorio) e sul Sud da Boko Haram (diventato nel 2015 Stato Islamico in Africa occidentale in forza dell’espansione al di là del Nord della Nigeria e delle mire sulla regione limitrofa del Lago Ciad), hanno trasformato il Niger nel perno dell’instabilità regionale.

La cosiddetta Force G5 Sahel, unità speciale antiterrorismo composta dall’élite militare di Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad, invocata dalle maggiori potenze secondo il principio di «soluzioni africane a problemi africani», resta lungi dall’essere operativa per via di una cronica mancanza di fondi. Istituita nel febbraio 2014, secondo alcuni analisti per diventare un’effettiva armata di 10 mila uomini richiederebbe circa 450 milioni di euro, di cui solo un’esigua parte (110 milioni) è stata finora promessa da Francia, Germania, Unione Europea, Unione Africana e G5 Sahel.

Ritardi e disfunzioni giustificano il rafforzamento dei dispositivi militari stranieri sul suolo nigerino. Se gli Stati saheliani non riescono a risolvere i propri conflitti interni, a farlo non possono che essere le potenze occidentali, minacciate dall’espansionismo neojihadista su scala mondiale. Punto debole di tale ragionamento è il rischio concreto che il moltiplicarsi delle missioni straniere finisca per destabilizzare ancor più economie e società di paesi già fragili, come il Niger, ingrossando così le file del jihād.

Alla Francia, ex madrepatria preoccupata di perdere il dominio sulle ex colonie africane in favore di nuovi concorrenti, appartiene il più ampio dispositivo militare attualmente dispiegato nel Sahel. Lascito dell’intervento armato in Mali del gennaio 2013 contro gruppi neojihadisti legati ad Aqim che ha rilanciato l’interventismo francese in Africa, l’Operazione Serval – originariamente limitata al territorio maliano – nel 2014 è stata regionalizzata con la missione Barkhane. Oggi il dispiegamento francese conta 4 mila soldati e decine di basi sparse dalla Mauritania al Ciad, passando per Mali, Burkina Faso e Niger. Qui Parigi gestisce basi a Niamey, Diffa, Aguelal (regione di Arlit) e un avamposto strategico nei pressi del confine con la Libia a Madama (già roccaforte delle truppe mehariste in epoca coloniale), per un totale di mille soldati. L’annuncio fatto a settembre da Parigi di voler armare i droni di sorveglianza di stanza in Niger conferma l’approccio offensivo di Barkhane.

Il rinnovato attivismo militare francese è fortemente criticato dalla società civile e da alcuni intellettuali dell’Africa occidentale, come

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Gilles Olakounlé Yabi.

Questo influente ex giornalista e direttore regionale di International Crisis Group diventato economista, analista politico e direttore del Laboratorio d’idee cittadine dell’Africa occidentale (Wathi), ha recentemente scritto che «le modalità della guerra al terrorismo condotta dall’esterno si stanno rivelando più pericolose per le prospettive di pace e sicurezza in Africa occidentale del male terrorista che dovrebbero curare. I cittadini della regione, preoccupati per l’evoluzione securitaria e per il contesto nel quale vivranno i loro figli, dovrebbero interrogarsi maggiormente sulle implicazioni dell’uso sempre più visibile dei mezzi militari da parte delle potenze mondiali, che raramente ha portato a una fine duratura dei conflitti».

Anche Africom, missione statunitense in Africa, mostra i muscoli in Niger. Armati i droni franco-americani (MQ-9 Reaper con raggio d’azione di circa 1.500 chilometri) che le due potenze condividono nel campo militare di Niamey, qualche mese fa gli Stati Uniti hanno stanziato circa 100 milioni di dollari per la costruzione di una nuova base aerea ad Agadez, diventata suo malgrado uno snodo del Sahel. Attivamente impegnati nella formazione delle forze di sicurezza nigerine, come già successo (con risultati discutibili) in Mali con i tuareg, i marines hanno punti d’appoggio anche a Dirkou e Zinder. Il dispiegamento americano in Niger (800 soldati circa) è stato fortemente criticato dall’opinione pubblica statunitense a seguito dell’imboscata che il 4 ottobre 2017 è costata la vita a quattro soldati delle forze speciali (e a quattro nigerini) nella regione nord-occidentale di Tillabéri, poco lontano dal confine con il Mali.


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Anche i tedeschi, restii dal 1945 a un impegno militare fuori dai loro confini, si sono ultimamente decisi a schierare in Africa occidentale una forza offensiva di tutto rispetto. Angela Merkel, più volte recatasi in visita ufficiale nella regione, nel gennaio 2017 ha fatto votare dal Bundestag l’invio di ulteriori 350 soldati in Mali, portando a mille il numero degli effettivi dispiegati nel Sahel, diventato per la Germania il teatro straniero più importante del secondo dopoguerra. Una parte considerevole dell’armata regionale tedesca è dispiegata proprio in Niger, dove Berlino mantiene una base nella capitale (situata vicino a quella franco-americana) e ha in progetto la costruzione di un avamposto nei pressi della frontiera con il Mali, con l’invio di altri 850 soldati.

Nella lista dei paesi che mantengono una cooperazione militare con il Niger figurano poi Algeria e Canada. Quest’ultima ha promesso di donare 1,2 milioni di proiettili per fucili Ak-47 alle truppe nigerine dispiegate nella regione di Diffa, al confine con la Nigeria, dove imperversa Boko Haram.


3. L’Italia mantiene un profilo più discreto. In epoca di austerità e tagli alle missioni diplomatiche, un Consiglio dei ministri dell’ottobre 2016 decise a sorpresa l’istituzione di due nuove ambasciate in Africa occidentale: a Niamey e in Guinea Conakry (oltre alla riapertura della rappresentanza a Santo Domingo, chiusa due anni prima). «Nello specifico», si legge in una nota del ministero degli Esteri, «l’apertura di un’ambasciata in Niger assicura all’Italia un rilevante vantaggio operativo, alla luce delle dinamiche che interessano il Sahel, con ripercussioni sotto il profilo della sicurezza in Italia e in Europa».

Dopo la creazione della rappresentanza diplomatica italiana a Niamey (febbraio 2017), il ministro Alfano ha dichiarato: «L’Italia è impegnata attivamente a sostenere i paesi dell’Africa subsahariana nei loro sforzi volti a limitare e gestire i flussi migratori irregolari, per evitare tragedie umane, per contribuire all’allentamento della pressione migratoria verso l’Europa e per sostenere l’impegno nella lotta al terrorismo e al contrasto ai traffici illeciti, a cominciare da quello di esseri umani».

Il primo ambasciatore italiano nominato in Niger è Marco Prencipe, diplomatico cinquantenne con lunga esperienza africana: dopo due anni di missioni in Zambia e Ghana come consulente per progetti di sviluppo rurale della Banca mondiale, il suo primo incarico alla Farnesina (nel 2000) è stato presso la Direzione generale per i paesi dell’Africa subsahariana, dove si è occupato in particolare di Africa occidentale.

L’apertura della nuova ambasciata a Niamey ha permesso anche, lo scorso 2 giugno, di celebrare la prima festa della Repubblica per gli italiani residenti a Niamey, finora sotto la gestione «in trasferta» della lontana ambasciata ivoriana. Un’occasione per l’ambasciatore Prencipe di rimarcare la «sincera amicizia» e lo spirito collaborativo fra Italia e Niger, paese in cui l’Agenzia italiana di cooperazione allo sviluppo è presente con progetti incentrati su sicurezza alimentare, sanità pubblica e sostegno alla piccola imprenditoria, soprattutto giovanile e femminile.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Negli ultimi mesi, inoltre, una missione militare dell’Italia in Niger è stata più volte prospettata da alcuni media nazionali e ciclicamente smentita dal governo. La cosiddetta Operazione deserto rosso per il contrasto al terrorismo e all’esodo di cittadini subsahariani verso l’Europa, che per essere operativa necessiterebbe secondo gli esperti di almeno 500 soldati italiani, pare ancora lontana, soprattutto a causa di un’opinione pubblica reticente. Nell’ottobre scorso, però, sulla scorta di un accordo di cooperazione militare Italia-Niger firmato a Roma il 26 settembre e i cui dettagli non sono stati divulgati, fonti militari hanno annunciato l’invio di una decina di addestratori e di alcuni soldati, che saranno presto impiegati nella capitale Niamey. Un primo passo verso un più ampio dispiegamento dell’Italia in Niger e nell’intero Sahel?

Come confermato dal recente ampliamento degli obiettivi di Eucap-Sahel (la missione regionale europea di cooperazione delle forze di polizia), al centro dell’agenda politica italiana e comunitaria resta la questione migratoria. Per portare avanti il progetto di esternalizzazione delle frontiere d’Europa, la diplomazia dell’Unione si muove sui binari paralleli del multi-e del bilateralismo, confermando una formale condivisione d’intenti che, in politica estera come in altri ambiti, nasconde perduranti nazionalismi e spirito concorrenziale fra gli Stati membri.


4. Plasmato su un’idea lanciata dal governo Renzi durante il primo forum di La Valletta del novembre 2014, il Fondo fiduciario per lo sviluppo dell’Africa (Eutf, che oggi può contare su circa 2,8 miliardi di euro) è stato stanziato con particolare attenzione ad alcuni Stati «prioritari», la maggior parte dei quali si trova in Africa occidentale. Il Niger figura fra i beneficiari con circa 190 milioni di euro in aiuti allo sviluppo, condizionati alla collaborazione di Niamey sul rimpatrio e il reinserimento dei migranti subsahariani. Finora il governo nigerino ha collaborato di buon grado, finendo per rappresentare l’archetipo del bon élève il cui esempio, secondo i funzionari europei, dovrebbe essere seguito dai paesi africani più riottosi a firmare accordi (come il Mali).

La ragione di tale attitudine conciliatoria è esposta 

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da Mohamed Bazoum, ministro dell’Interno, della Sicurezza pubblica, del Decentramento e degli Affari tradizionali e religiosi con delega alle questioni migratorie del Niger: «Il nostro non è un paese d’origine, bensì di transito dei migranti. Ciò facilita il compito alle autorità nigerine, visto che se i nostri cittadini volessero partire verso l’Europa e noi glielo impedissimo rischieremmo problemi interni. Ma per nostra fortuna non è così».

Intervistato nel marzo scorso dal team di giornalisti ed esperti di Diverted Aid, progetto d’inchiesta finanziato dallo European Journalism Center, questo ex professore di filosofia diventato l’uomo più potente della politica nigerina dopo il presidente

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Mahamadou Issoufou (al secondo mandato) a telecamere spente diventa ancor più diretto: «Se l’Europa vuole che facciamo il lavoro sporco coi migranti, deve mettere mano al portafoglio. Facciamo fatica perfino a pagare i salari dei funzionari pubblici, perciò l’aiuto dell’Ue è più che benvenuto». Posizione ribadita da Bazoum nei due incontri della «cabina di regia» tenuti a maggio e agosto a Roma fra il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti e i suoi omologhi di Niger, Libia, Ciad e Mali.

La criminalizzazione di passeurs e migranti in atto ad Agadez sta però avendo impatti socioeconomici nefasti sulla regione, oltre che sui migranti stessi, costretti a viaggi più lunghi, pericolosi e costosi. Una ridefinizione forzata di rotte e modalità di migrazione che starebbe spingendo sempre più persone nelle reti di spietati narcotrafficanti legati ai gruppi jihadisti. Uno scenario già visto in Turchia, Libia, Egitto e Marocco.


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Sotto il cappello dell’Eutf, in Niger l’Ue ha messo in campo diversi progetti incentrati sulla sicurezza: il Support for justice and security in Niger to fight organised crime, smuggling and human trafficking (Ajusen), il cui stanziamento di 80 milioni di euro nel 2017 è stato coperto per oltre il 60% dal governo italiano in aiuti diretti al bilancio nigerino; il Setting up a joint investigation team to combat irregular immigration, human trafficking and people smuggling, del valore di 6 milioni di euro, coadiuvato da forze di polizia francesi e spagnole; Groups d’action rapide – Surveillance et intervention au Sahel (Gar-Si Sahel), che prevede la creazione di unità d’intervento rapido nei cinque paesi saheliani; il Support to the G5 countries regional cooperation and to the Sahelian security college, a sostegno del G5 Sahel; il West Africa police information system (Wapis), per il rafforzamento dei sistemi d’informazione delle polizie dell’Africa occidentale.

Come si legge in un recente rapporto pubblicato da Concord-Italia, la piattaforma nazionale italiana delle organizzazioni non governative facenti parte della Confederazione delle Ong europee, «una parte dei finanziamenti (del progetto Ajusen, il più ampio finora previsto, n.d.r.) dipenderà da una serie di condizioni, tra cui: la stesura di una strategia nazionale contro la migrazione irregolare e di una strategia di sicurezza nazionale; l’acquisto di attrezzature di sicurezza per migliorare il controllo delle frontiere; la riabilitazione o la costruzione di posti di frontiera in aree strategiche; la creazione di speciali unità di polizia di confine e la costruzione di centri di accoglienza per i migranti. Se alcuni di questi obiettivi non venissero raggiunti, il governo nigerino dovrà affrontare penalità finanziarie».

Le conclusioni cui giungono Diverted Aid e Concord sono le stesse: il grosso dei finanziamenti Eutf finora allocato in Niger è stato attinto dalle casse del Fondo europeo di sviluppo (Fed) ed è indirizzato in maniera poco trasparente a progetti di cooperazione militare e controllo delle frontiere, perché gestito direttamente dalla Commissione europea nel quadro dell’«emergenza migranti». Una preoccupazione espressa anche da diverse Ong che hanno deciso di rifiutare tali fondi, nonché da alcuni parlamentari europei, fra cui l’italiana Elly Schlein.

All’apparenza i paesi occidentali sembrano uniti nella lotta al terrorismo e (fatta eccezione per gli Stati Uniti) alle migrazioni irregolari verso l’Unione Europea, ma il loro rinnovato interventismo in Niger sembra rispondere piuttosto a logiche economico-strategiche di concorrenza e controllo del territorio. Anche in Niger, come sempre e ovunque, le potenze militari agiscono per se stesse e le conseguenze nefaste che si cominciano a osservare nel Sahel potrebbero produrre risultati opposti rispetto agli obiettivi sbandierati. L’attuale convergenza di interessi stranieri in Niger, infatti, risponde a logiche securitarie che non tengono in sufficiente conto le realtà locali. Il rischio è quello di creare o accentuare fratture socioeconomiche e conflitti interni di cui si giova il terrorismo neojihadista in Africa occidentale.

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Niamey

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centro della citta’ di Niamey

 

NEI LABIRINTI DEL SAHEL

Per capire il sisma geopolitico nordafricano occorre indagarne i nessi con la fascia saheliana, percorsa da conflitti endemici, spesso di segno tribale. La penetrazione islamista e l’Aqmi. Il caso dei Boko Haram. La guerra libica vista da Ciad e Niger.

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