Il Nobel per la Pace alla Colombia
roberto saviano
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Il premio Nobel per la Pace 2016 è andato all’uomo della riconciliazione tra Farc e governo, il presidente colombiano Juan Manuel Santos, 65 anni. «È un riconoscimento al suo impegno – è la motivazione – e un incoraggiamento a tutte le forze implicate perché vadano avanti». «Colombiani, questo premio è vostro – ha detto Santos – la pace è possibile malgrado la vittoria del “no” al referendum». Il leader delle Farc Timoleón Jiménez, ha twittato: «L’unico premio a cui aspiriamo è quello della pace con giustizia sociale». Felice Íngrid Betancourt, ex prigioniera dei guerriglieri: «Ma il premio andava dato anche alle Farc ». E l’ex presidente Uribe, leader della destra: «Cambiamo questi accordi dannosi».
La Colombia sta vivendo una fase nuova. Dopo essere stata negli anni Ottanta e Novanta il centro del narcotraffico mondiale, pompando denaro e coca tra Nord America ed Europa, continua a essere tra i primi produttori di coca, ma nella distribuzione ha perso il suo ruolo a vantaggio del Messico. Inoltre non vive più la ricca stagione del monopolio poiché oggi producono coca in quantità competitive anche Perù e Bolivia. Per la Colombia coltivazione di coca e produzione di cocaina sono state a lungo l’asse fondamentale su cui tutto, nel Paese, ruotava. La monocoltura della coca ha infettato qualsiasi ambito dell’economia e della politica. Ma le cose oggi sono cambiate.
Se la storia del narcotraffico colombiano la sintetizzassimo in una fiction saremmo partecipi del destino dei cartelli di Medellìn e di Cali e sapremmo esattamente cosa piega un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico. E non è la repressione armata, e non sono solo i processi nei tribunali, e non sono gli arresti e non è solo il contrasto culturale. Ma è tutto questo, unito al contrasto del segmento economico. I cartelli vanno in crisi e si disintegrano quando sono in crisi economica.
Il Nobel al Presidente colombiano Juan Manuel Santos segnala l’avvio di un percorso di fiducia verso una nuova pratica di pace. Verso un nuovo modo di intendere la storia e le cicatrici che ha lasciato, anche quelle che ancora non si sono rimarginate. Le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) gestivano un territorio più grande della Svizzera e sono la guerriglia, che si definisce comunista, più antica del mondo. Ma non era l’unica organizzazione di guerriglia in Colombia, segno evidente che il bottino da spartirsi era considerevole. C’erano anche le Auc (Autodifese Unite della Colombia), insieme di gruppi paramilitari che nel periodo in cui furono rette da Salvatore Mancuso ebbero rapporti strettissimi con la ’ndrangheta. Mancuso aveva il padre di origini italiane (era di Sapri) ma madre colombiana. Attualmente è in carcere e ha iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia.
Ma le Auc e le Farc dovevano spartirsi la Colombia con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), che insieme alle prime due faceva operazioni militari avendo come fine l’occupazione di territori, usando per finanziarsi lo strumento del sequestro di persona e, soprattutto, il narcotraffico.
Ed eccoci giunti al punto nodale: le Farc hanno sempre gestito il traffico di coca in tutta la sua filiera, ma l’immagine che di loro nel mondo è a lungo passata, era quella delle guerriglia comunista. Guerriglia comunista pura, l’ultima grande guerriglia comunista, marxista, di matrice guevariana. La veste ideologica – quella stessa che è stata di Sendero Luminoso in Perù – ha generato un incredibile consenso, facendo passare la narco- guerriglia, per guerriglia socialista che aveva come fine una rivoluzione in Colombia: niente di più falso. Quello che le Farc facevano era difendere il loro territorio, gestire una sorta di Stato clandestino autonomo con le sue regole e le sue tasse.
È stato sfruttando povertà, contraddizioni ed equivoci che le Farc sono riuscite a costruire questa sorta di progetto politico che per me ha sempre avuto il sapore dell’impostura.
La bravura di Santos – e da qui la decisione di assegnare a lui il Premo Nobel per la Pace – è stata quella di aver percepito le difficoltà crescenti che stava affrontando la guerriglia in Colombia. E non è stata la repressione o la distruzione dei campi di coca, non sono state le conseguenze del Plan Colombia, iniziativa diplomatica e militare tra amministrazione colombiana e Usa a indebolire il narcotraffico. Tutto questo ha piuttosto avuto un effetto indesiderato e non calcolato: il potenziamento del segmento militare dei gruppi di insorti. Cioè se da un lato il Plan Colombia si poneva come obiettivo quello di rendere più difficile la coltivazione della coca e la presenza di laboratori di cocaina, dell’altro ha sostanzialmente aumentato la militarizzazione dei cartelli.
Santos capisce questo: con la fine del Cartello di Medellìn e la morte di Pablo Escobar (1993) e con la fine del Cartello di Cali (fine anni Novanta), la guerriglia è in difficoltà perché in difficoltà era il settore più redditizio: il narcotraffico. La parcellizzazione, la struttura pulviscolare che i cartelli avevano assunto aveva rafforzato il Messico spostando lì l’asse del narcotraffico mondiale. In questo nuovo scenario per reggere la concorrenza le Farc si sono trovate costrette ad abbassare il prezzo della coca, per rendere la propria merce concorrenziale: ma non sono riuscite più a reggersi come Stato autonomo, parallelo e clandestino. Il pericolo maggiore per le Farc dunque non è stata la repressione, ma la crisi economica generata dal loro principale indotto: il narcotraffico. E Santos su questo ha lavorato. Le Farc avevano una priorità: cercare nuove forme di guadagno e sottrarre campi di coca ai gruppi concorrenti. Santos ha deciso che era arrivato il momento di mettere da parte le ferite del conflitto e iniziare il dialogo.
Ma il 2 ottobre il popolo colombiano ha risposto “no”. È stato “no”, per una manciata di voti, alla negoziazione iniziata la scorsa estate a Cuba alla presenza del presidente cubano Raúl Castro e del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon.
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