LIMES, FEDERICO PETRONI ::: TRA ERDOGAN E PUTIN NON SARA’ ALLEANZA (NEL LINK, ALTRI ARTICOLI CHE MAGARI…)

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La rassegna geopolitica quotidiana.

COME POTETE IMMAGINARE, GLI ARTICOLI SI APRONO: L’AGENDA ECONOMICA DI TRUMP SEMBRA ISPIRATA A REAGAN (IMPRESSIONE DI CH. PERCIO’ TUTTO DA VEDERE!)

Tra Erdoğan e Putin non sarà alleanza

 

La rassegna geopolitica quotidiana.

a cura di Federico Petroni Erdoğan-Putin: il ritorno

L’incontro a San Pietroburgo fra i presidenti di Turchia e Russia sancisce la distensione tra le due sponde del Mar Nero dopo la crisi innescata il 24 novembre scorso dall’abbattimento di un jet russoda parte dell’Aeronautica turca.

La crisi aveva profondamente colpito l’economia di Ankara, che si era vista cancellare l’iniziativa del gasdotto Turkish Stream (ora in via di riesumazione), sanzionare l’export e le aziende operanti in Russia, ridurre il flusso di turisti russi e aumentare gli ostacoli all’ottenimento del visto per i propri cittadini. Ora i due paesi promettono di cooperare nella Difesa e creare un fondo d’investimento comune.

Nonostante il riavvicinamento – iniziato, è bene ricordarlo, per iniziativa di Erdoğan – fosse partito prima del fallito golpe del 15 luglio, l’attenzione mediatica di cui da allora gode la Turchia conduce all’errore di ricondurre ogni manovra del “sultano” alle conseguenze del mancato colpo di Stato. In quest’ottica, un galvanizzato Erdoğan si starebbe allontanando da Stati Uniti e Ue, da cui si sentetradito (nel caso dei primi) e abbandonato (nel caso della seconda), per rivolgersi ai loro avversari, russi in primis.

Una tale ricostruzione pecca però di occidentalismo. Benché il fallito golpe stia dotando il leader turco del capitale politico necessario a plasmare a sua immagine e somiglianza il paese, la mossa “russa” di Erdoğan ha radici temporali e geopolitiche più profonde.

In questi mesi, la geopolitica turca ruota come un satellite attorno a un solo astro: impedire ai curdi di creare un proprio “stan” nel Nord della Siria. Di qualunque nazionalità essi siano, dal momento che Ankara percepisce le Ypg siriane come un’estensione del Pkk turco.

Riconciliandosi con la Russia, la Turchia spera di convincerla a non usufruire più dei servigi delle milizie curde come surrogato della fanteria di terra. Rispondono sempre a questo obiettivo anche leaperture sul futuro del dittatore di Damasco, Bashar al-Asad, sebbene Erdoğan faccia sapere di non cedere su una permanenza ad libitum. Tant’è vero che i due presidenti hanno preferito rimandare le discussioni sulla Siria a un altro vertice.

Quella che offre Putin è dunque una sponda, non un’alleanza. Non basta un’esigenza tattica a fare un’intesa strategica. Troppi restano i dossier su cui Russia e Turchia – pur non scontrandosi – restano in competizione. Dalla costruzione di sfere d’influenza nei Balcani al Mar Nero sempre più militarizzato. Fino a tutti i ventri molli dell’ex impero russo, rosario di conflitti in cui Ankara e Mosca occupano quasi sempre versanti opposti: Caucaso, Crimea, persino la minuscola Gagauzia moldava.

Benché traballanti (vedi il sostegno di Washington al nemico giurato di Erdoğan, Gülen), Ankara non può tagliare i ponti con gli Stati Uniti. Per una media potenza ancora in cerca di se stessa (e di una strategia), non sarebbe saggio rompere con un attore – per quanto inaffidabile possa essere – intenzionato a estricarsi dal Medio Oriente e a incoraggiare le iniziative autonome delle potenze locali.

Senza dimenticare che la Turchia beneficia largamente dell’appartenenza alla Nato, ombrello di sicurezza indispensabile per un paese dalle Forze armate da decenni non testate in battaglia e in fase di ristrutturazione dopo il golpe naufragato. Soprattutto, in una fase di aperto confronto tra Russia e Alleanza atlantica, Ankara può sia rivendicare la propria centralità in un contenimento marittimo sia offrirsi a Mosca quale mediatrice. Un classico e proverbiale piede in due staffe.

Per approfondire: Il colosso del Bosforo ha i piedi d’argilla


Tra Londra e Pechino non mettere il nucleare

La Cina, per bocca del suo ambasciatore nel Regno Unito, ha messo in guardia il governo britannico a proposito del rinvio dell’approvazione finale sul gigantesco progetto nucleare di Henkley Point.

Fiore all’occhiello del corteggiamento a Pechino di David Cameron, l’impianto di Henkley Point, che dovrebbe essere costruito anche grazie ai capitali cinesi e potrebbe fornire il 7% del fabbisogno energetico del paese, ha subito uno stop a fine luglio per mano di Theresa May, già critica nei confronti delle aperture del precedente esecutivo all’Impero del Centro.

Liu Xiaoming, rappresentante diplomatico della Repubblica popolare a Londra, ha parlato di “relazioni a un bivio storico” e di “speranza che il Regno Unito tenga la porta aperta alla Cina”.

Per quanto solo tangenzialmente legata al Brexit – in virtù delle dimissioni post-referendum di Cameron che hanno portato al 10 di Downing Street un’inquilina più scettica della Cina – questa diatriba mostra come le relazioni tra Londra e Pechino, in seguito all’esito del voto del 23 giugno, siano in caduta libera.

Con un Regno Unito fuori dall’Ue, l’Impero del Centro perderebbe il suo attracco finanziarionell’Europa unita. Ora, teme di vedersi sfuggire anche il resto dei suoi progetti britannici.

Per approfondire: La Cina ha tutto da perdere dal Brexit


L’agenda economica di Trump

In difficoltà in tutti sondaggi – sempre dietro Hillary Clinton a livello nazionale – e attaccato da varie parti – dai senatori che non lo sostengono all’élite repubblicana sicura che una sua elezione ridurrà la sicurezza nazionale, fino alle antipatie dei mormoni che potrebbero rimettere in gioco lo Utah – Donald Trump tenta il rilancio.

Lo fa spostando il dibattito sulla sua agenda economica, presentata a Detroit con un discorso in cui The Donald ha dato un colpo al cerchio, promettendo sgravi fiscali in linea con il mainstreamrepubblicano (di cui peraltro beneficiano maggiormente i più abbienti), e uno alla botte, non rinunciando a cavalli di battaglia come l’opposizione ad accordi commerciali come il Nafta, il Tpp o quello bilaterale con la Corea del Sud.

Il magnate newyorkese sta cercando di procedere su uno stretto crinale. Deve cercare di non spaventare un elettorato centrista che non perde la sua importanza anche in un’epoca di estremizzazione della politica a stelle e strisce. Ma al contempo non deve “tradire” l’enorme massa di persone comunemente non interessate al voto, ma attratte dalla sua retorica antiestablishment e antiglobalizzazione.

Per approfondire: Tutti gli articoli su Donald Trump


Il fronte della Libia (dallo Strillone di Beirut)

A Sirte, l’avanzata delle forze fedeli al governo guidato dal premier Fayez al-Sarraj è sostenuta da una settimana dai raid statunitensi e, secondo fonti interne al ministero degli Esteri libico, sono in corso dei colloqui per convincere il Pentagono ad ampliare il suo coinvolgimento in Libia.
Ciò significherebbe però andarsi a scontrare, in modo più o meno diretto con le forze del generale Khalifa Haftar, fedeli al parlamento di Tobruk (l’altro governo de facto nell’est del paese), le quali non riconoscono il governo di Tripoli e hanno liquidato i raid come un’operazione di propaganda elettorale americana, accusando inoltre Sarraj di ricorrere a Washington per rafforzare la propria legittimità in patria.
Le forze fedeli a Tobruk, intanto, combattono nell’Est del paese contro una nutrita galassia di movimenti jihadisti: a Bengasi proseguono gli scontri con il Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi (la cui fazione principale è quella di Ansar al-Sharia), mentre ancora più a est, nel Wadi Shawa’ir situato a sud della cittadina costiera di Derna, i bombardamenti aerei dell’esercito di Haftar colpiscono le postazioni del Consiglio della shura dei mujahidin di Derna, altro gruppo jihadista salafita locale che ha cacciato l’Is a giugno del 2015.
A tutto questo si aggiungono attriti interni all’area controllata dal Governo di accordo nazionale: sabato una milizia locale tripolina che controlla l’edificio del ministero della Sanità si è scontrata nella capitale con un’altra formazione paramilitare di Misurata, la città occidentale da cui provengono buona parte dei combattenti fedeli a Tripoli nella battaglia di Sirte. Appare pertanto evidente che l’eventuale presa di Sirte è lungi dal risolvere le divisioni tra i vari attori libici.

Per approfondire: Miti e realtà della Libia ‘porta d’Europa’


Intanto, nel mondo…

• L’Onu chiede ai belligeranti ad Aleppo un cessate-il-fuoco di almeno due giorni per ripristinare il minimo di aiuti e servizi necessari a evitare una catastrofe umanitaria. Alla richiesta si accodano gli Usa per fare pressione sulla Russia.

• Emergono nuove foto satellitari dal Mar Cinese Meridionale che ritraggono i progressi della militarizzazione da parte cinese delle isolette contese.

• Germania e Paesi Bassi conducono test congiunti delle proprie difese antiaeree e antimissile in vista di possibili missioni in Europa orientale, soprattutto nel Baltico.


Anniversari geopolitici del 9 agosto

376 – I romani vengono sconfitti nella battaglia di Adrianopoli

1936 – Jesse Owens vince il suo quarto oro ai Giochi di Berlino

1945 – Lanciata la bomba atomica su Nagasaki

1985 – Arthur Walker condannato per fornito segreti all’Unione Sovietica


Carta di Laura Canali animata da Marco Terzoni.

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2 risposte a LIMES, FEDERICO PETRONI ::: TRA ERDOGAN E PUTIN NON SARA’ ALLEANZA (NEL LINK, ALTRI ARTICOLI CHE MAGARI…)

  1. Donatella scrive:

    Una canzone del dopoguerra che cantava mia mamma diceva: ” Ci incontreremo a Napoli, quando il mondo pace avrà…”. Dispiace vedere gente che non si potrà mai incontrare.

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