Scatenare guerre civili con terroristi freelance l’ultima strategia dell’Is per sembrare più forte
JASON BURKE
LA CATTURA di Mosul da parte dell’Is poco più di due anni fa non fu un successo estemporaneo, ma il culmine di una strategia attentamente pianificata. Lo scopo era conquistare territori per costruire una nuova entità politica, religiosa e militare: una strategia diversa da quella vista prima fra i gruppi islamisti. Per Al Qaeda guadagnare terreno aveva significato ottenere rampe di lancio nel mondo islamico da usare per colpire in Occidente: la priorità era il Nemico Lontano (gli Usa e gli alleati), non il Nemico Vicino (i regimi “apostati” in Medio Oriente). La creazione di un Califfato poteva aspettare.
L’Is ha rovesciato quella strategia. Si è concentrato inizialmente sull’Iraq, destabilizzandolo con una campagna di violenza che prendeva di mira altri musulmani, anche se sciiti. La vera svolta arrivò a fine 2013, quando l’Is prima entrò nella guerra civile siriana, quindi sconfisse una serie di fazioni della guerriglia. Infine conquistò Raqqa e altre risorse cruciali. L’Is si discostava da Al Qaeda, nata per unificare i gruppi jihadisti, non per combatterli. Il resto è storia nota: la proclamazione del Califfato, il lancio di un ambizioso programma di espansione. La reputazione era allo zenit e Al Qaeda era stata messa ai margini. Furono create filiali, anche in aree lontane, e le reclute arrivarono a fiotti.
Oggi la situazione è cambiata. L’Is è sulla difensiva. Falluja, simbolo della resistenza sunnita, è persa; in Libia Sirte è sotto pressione. Decine di alti comandanti sono stati uccisi, Al Baghdadi quasi sicuramente è stato ferito. I fondi scarseggiano e il flusso di reclute si assottiglia. Tutto ciò richiede una nuova strategia e l’Is la sta elaborando. L’ironia è che, nell’ora del bisogno, la prende in prestito dai rivali di Al Qaeda. Non sorprende del tutto: Al Baghdadi sostiene di essere il vero erede di Bin Laden.
Abbiamo visto gli effetti della nuova strategia negli ultimi giorni, con gli attentati di Istanbul, Dacca e Bagdad e ancor prima con la strage di Orlando. Tre sono gli elementi principali di questa strategia. Il primo è familiare: terrorizzare i nemici ”lontani” con azioni perpetrate da soggetti, per così dire, “freelance” (come Mateen che ha ucciso 49 persone negli Usa) e reti di reclute più strutturate (come quella dell’assalto di Dacca). Questi attacchi ricalcano alla perfezione il
modus operandi di Al Qaeda: trasmettono l’impressione di un’organizzazione capace di colpire ovunque, mettono in ombra le cattive notizie sul “fronte interno” e rafforzano il morale.
Il secondo elemento non è preso in prestito da Al Qaeda in sé, ma da un suo ex leader in Iraq, Al Zarqawi: l’uso della violenza contro i civili in tutta la regione per rovesciare il cattivo andamento delle operazioni militari. Gli attentatori di Istanbul sono stati mandati da Raqqa e la loro azione è stata concepita per destabilizzare e indebolire la Turchia, attore decisivo sullo scacchiere regionale. Poi, naturalmente, c’è la violenza nell’Iraq stesso. Qui l’obiettivo è evidente. La bomba a Karada puntava a colpire la comunità sciita, dice l’Is. Qui c’è un precedente: quando il supporto per i jihadisti in Iraq cominciò ad affievolirsi, nel 2006, Al Zarqawi (oggi venerato dall’Is) iniziò a prendere di mira obiettivi sciiti, nel tentativo di scatenare una guerra civile provocando rappresaglie da parte della maggioranza sciita. Sperava che i sunniti, minoritari, vedessero gli estremisti come unici soggetti in grado di proteggerli. Dieci anni dopo, l’Is persegue lo stesso obiettivo.
La terza parte della strategia è il proseguimento di una campagna militare semi-convenzionale, specie in Siria. Anche se Daesh sta incrementando il ricorso a tattiche terroristiche rispetto alla strategia di guerriglia osservata finora, quest’ultima rimane centrale, mentre Al Qaeda ha sempre dato priorità al terrorismo.
La nuova strategia dell’Is ha speranze di funzionare? Forse sì. Ma è improbabile che gli attentati riusciranno a destabilizzare la Turchia, e spingere l’Iraq verso una guerra civile è molto più difficile che in passato: le comunità sono molto meno mescolate sul terreno. Attacchi in Bangladesh, o anche negli Usa, possono mascherare la crescente debolezza dell’Is solo fino a un certo punto. Il suo progetto, ricreare una superpotenza islamica e una società islamica utopica, era estremamente ambizioso fin dall’inizio, e perciò fragile. Qualche sconfitta e battuta d’arresto non sono un problema, possono essere presentate come le prove e tribolazioni che i fedeli devono affrontare. Ma quando Al Adnani, portavoce dell’Is, sostiene spavaldo che il califfato sopravvivrebbe alla perdita di Raqqa e Mosul, sembra che la stia sparando grossa. Se queste città andassero perse, com’è probabile che accada nei prossimi 18 o 24 mesi, ne seguirebbero con ogni probabilità tracollo e frammentazione. Ma prima che ciò avvenga, possiamo aspettarci molta altra violenza.
Possiamo aspettarci anche qualcos’altro. Anche se indebolita, Al Qaeda si è dimostrata tenace e negli ultimi mesi ha manifestato segnali di ripresa. Ci sono state azioni spettacolari nel Sahel, dove c’è una filiale che rimane forte, e gli Shabaab somali, altra filiale di Al Qaeda, tengono in scacco gli eserciti della regione. In Siria, il Fronte Al Nusra, a tutt’oggi la filiazione di maggior successo dell’organizzazione fondata da Bin Laden, è nella posizione ideale per beneficiare della caduta dello Stato islamico. Il dopo- Is potrebbe essere più familiare di quanto avessimo previsto: una Al Qaeda di nuovo arrembante a 28 anni dalla sua fondazione.
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