anche per chi la sapesse a memoria, VALE!
Le vecchie strade del centro-sinistra
La mossa di D’Alema. Nel nostro Paese c’è bisogno di un partito di sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella società, progetto e visione. Non di un’alleanza per vincere le elezioni
Piero Bevilacqua Manifesto 16.3.2016, 23:57
L’analisi sferzante e sarcastica che D’Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce più per l’autorevolezza del vecchio dirigente e per il campo da cui proviene, che per la sua originalità. Non pochi commentatori avevano già mostrato per tempo che cosa fosse diventato il Pd di Renzi. Non lo dico per sminuire l’efficacia politica di quel messaggio, utile quanto meno per svegliare tanta parte del popolo della sinistra (forse anche qualche vecchio intellettuale) che crede ancora di appartenere al partito che fu di Berlinguer. Ma lo sottolineo per più sostanziali ragioni. Intanto la mossa tattica nasconde una grave insidia. Sarebbe un errore non vedere le complicazioni che una scissione del Pd, capeggiata da D’Alema, creerebbe al nascente soggetto politico della sinistra. La tentazione di dar vita a una riedizione del centro-sinistra diventerebbe così forte da esercitare un irresistibile potere di attrazione su alcuni dei protagonisti oggi al lavoro, disarticolando l’intero progetto. È un timore che non nasce certo dalla pretesa settaria di costruire in purezza un partito privo di contaminazioni con la realtà e con la storia. Ma che al contrario è fondato sull’analisi storica. Il bisogno drammatico del nostro Paese è oggi la costruzione di un partito di sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella società, progetto e visione. Non di una formula di alleanza per vincere le elezioni.
Occorrerebbe notare che mai è venuta dai dirigenti del Pd (e delle sue precedenti incarnazioni) una seria autocritica delle scelte compiute da questa mutevole formazione negli ultimi 30 anni, mai un serio sforzo di ricostruzione storica per comprendere in profondità quel che era avvenuto nei rapporti tra il partito e la classe operaia italiana, le grandi masse popolari, le figure intellettuali, un tempo forza e punto di riferimento del vecchio Pci. Allorché gli intellettuali concorrevano allo sforzo di comprendere un mondo che si aveva l’ambizione di trasformare, e non servivano per vincere dei turni elettorali.
Senza questa riflessione storica l’avvento di Renzi appare come un caso fortuito, ed è invece la continuazione coerente di un percorso. Il jobs act del presente governo conclude un itinerario avviato nel 1997 con la prima riforma del lavoro firmata da un ministro di centro-sinistra. La «buona scuola» e l’emarginazione dell’Università, pur con tutti i distinguo necessari, continua sulla scia delle riforme avviate da Luigi Berlinguer, ed è continuata senza soluzioni di continuità tra governi di centro-destra e di centro-sinistra. La filosofia della contrattazione programmata, quella politica che ha dato mano libera ai costruttori di devastare senza vincoli le nostre città, di cementificare il territorio, è stata accettata di fatto da tutti i governi nazionali degli ultimi 30 anni e ora viene rinvigorita dal cosiddetto «sblocca Italia». E si potrebbe continuare.
In realtà è mancata e manca, anche in chi critica Renzi, non solo la capacità di guardare dentro la natura del riformismo del centro-sinistra, ma di vedere a quali imperiosi interessi dell’epoca esso di fatto ha finito col rispondere. Perché dopo 1989 nulla è più stato come prima. Il tracollo dell’Urss non ha messo all’angolo solo i vecchi partiti comunisti, ha colpito anche la socialdemocrazia europea. Il potere del capitalismo occidentale, rivitalizzato dai governi della Thatcher e di Reagan, e coadiuvato dalla nuova intellettualità neoliberista, ha affondato la sua critica demolitrice anche contro la burocratizzazione del welfare, la rigidità corporativa dei sindacati, il crescente peso fiscale dello Stato: tutte costruzioni, in buona parte, della sinistra europea del dopoguerra. Debolezze che racchiudevano tuttavia conquiste e diritti. E questo bisogna proprio dirselo: la sinistra, tutte le sinistre maggioritarie europee, hanno accettato quella critica, l’hanno fatta propria. Se non si comprende tale passaggio si capisce ben poco della storia europea degli ultimi decenni. Dopotutto, di che stupirsi? Le teorie neoliberistiche non prospettavano una società pauperistica. Al contrario, esse promettevano una straordinaria ripresa dello sviluppo, cioé del processo di accumulazione capitalistica, sol che la macchina economica fosse stata liberata da “lacci e laccioli”. Maggiore produzione di ricchezza che si sarebbe ripartita automaticamente fra tutti. Nessuna meraviglia, dunque, se, in seguito all’accettazione di tale lettura, i vecchi partiti popolari si son dovuti muovere in uno spazio ristretto e in un’unica direzione: indietreggiare, indietreggiare lentamente, lasciare sempre più libertà ai gruppi industriali e finanziari e nel frattempo gestire presso i ceti popolari il processo di riduzione progressiva del welfare. Una ritirata, diventata sempre più ardua quando gli effetti della globalizzazione si sono manifestati in tutto la loro pienezza. Allorché le imprese occidentali delocalizzate hanno messo in concorrenza i salari operai del Bangladesh con quelli di Stoccarda e di Torino. La costituzione dell’Ue poteva essere un’occasione per battere nuove strade. Qualcuno si ricorda della promessa di costruire una “economia sociale di mercato”? Com’è noto, né gli ex comunisti italiani, né gli altri partiti della sinistra europea sono stati in grado di incidere sulla filosofia neoliberistica dei trattati su cui si veniva costruendo l’Unione, sulla fragilità costitutiva dell’euro, sull’architettura complessiva dei poteri, alcuni dei quali, come la Bce, sottratti a ogni controllo democratico.
Ebbene, la vicenda di questi ultimi 30 anni trova pochi storici dentro il vecchio schieramento della sinistra perché il tentativo riformatore, compiuto nel cono d’ombra del nuovo potere del capitale, è fallito. E’ morto con la Grande Crisi esplosa nel 2008. Sia il progetto neoliberista di un Nuovo Ordine mondiale dello sviluppo, che il tentativo di una sua gestione riformista, sono caduti insieme. E tale verità trova nuove verifiche nel presente. Mentre la Bce inonda di denaro le banche del continente, la disoccupazione resta fuori controllo, i ceti medi si assottigliano, si espandono le aree di povertà, le diseguaglianze si fanno più aspre, si riduce il welfare, si restringono gli spazi della democrazia, il lavoro si compra ormai con un voucher come un viaggio ai tropici. Ebbene, nonostante questo debordante potere del capitale (o esattamente per questo?) l’agognata crescita non riparte. Il capitalismo pare una balena spiaggiata nelle secche delle sue iniquità.
Dunque, un nuovo soggetto politico, che realisticamente si deve muovere su un terreno riformatore, non può prescindere da una rilettura radicalmente classista della storia recente del mondo. Occorre porre al centro, come ha ricordato Gallino, la consapevolezza che il capitale sta muovendo guerra al lavoro e alle sue conquiste storiche. E tale presa d’atto non può venire da una riedizione del centro-sinistra e dal ripescaggio dei suoi vecchi protagonisti. Il tentativo in corso di cambiar strada deve avere l’ambizione di lasciarsi alle spalle il vecchio industrialismo sviluppista, unico orizzonte culturale degli uomini e delle donne di quella pur illustre tradizione. Non può non nutrirsi delle nuove culture ecologiche, di un ripensamento radicale delle forme della produzione industriale e della durata del lavoro, di una nuova attenzione ai caratteri del nostro territorio, al destino del bene comune delle città e al loro carattere ecosistemico, ai limiti che il riscaldamento climatico pone nell’uso delle risorse, a un nuovo immaginario – che è un salto di civiltà – in cui il rapporto uomo natura sia dominato dalla cura e non più dallo spirito di predazione.
Un candidato anti Renzi. Anzi due
Amministrative Roma. Sinistra senza pace, una lettera a Marino: ritirati. Ma per ora lui va avanti. E Fassina pure. L’ex sindaco sconvoca l’incontro, riunione della ’vecchia’ Sel a caccia un patto fra i due. E per non spaccarsi di Daniela Preziosi il manifesto 16.3.16
Due tegole, due dita negli occhi. Nel giorno in cui Ignazio Marino, di ritorno da Pittsburgh (in Pennsylvania, dove ha lavorato a lungo prima di darsi alla politica) aveva invitato a cena i ’quasi alleati’ di Sinistra italiana – Stefano Fassina, Nicola Fratoianni, Paolo Cento e Alfredo D’Attorre – per firmare l’accordo di ’reciprocità’ sulle primarie della sinistra (chi perde si impegna a sostenere l’altro, dovrebbe essere scontato ma evidentemente non lo ), due ’fattacci’ hanno fatto saltare tutto, pane e companatico. Il primo fattaccio l’ex sindaco se l’è letto scodellato sulla prima pagina di Repubblica: il dossier dell’autorità anticorruzione di Raffaele Cantone con l’elenco delle irregolarità di Roma Capitale fra il 2012 e il 2014, quindi un arco di tempo che coinvolge tanto la giunta Alemanno che la sua. Marino cerca subito di parare il colpo: «Un’indagine che si aggiunge a quella sui conti che avevo richiesto e ottenuto e che impegnò per sei mesi la guardia di Finanza in Campidoglio. Rivendico con orgoglio di essere stato io a volere questa collaborazione», scrive su facebook.
dalla manifestazione in sostegno di Ignazio Marino
L’altro ’fattaccio’ lo legge su una lettera a lui indirizzata – a mezzo stampa – firmata da un senatore romano di Sel, Massimo Cervellini, e da trenta dirigenti locali. Gli chiedono senza mezzi termini di farsi da parte: serve ’discontinuità’ per la Capitale, anche rispetto alla sua giunta: «Hanno prevalso spesso decisioni dall’alto che hanno creato tensioni e incomprensioni», scrivono, e ora la candidatura Marino «da un lato ci inchioderebbe inevitabilmente in una posizione di difesa dell’esperienza di governo» e «dall’altro darebbe alibi e argomenti a chi vuole creare confusioni e sospetti. La giustizia deve fare il suo corso e siamo fiduciosi che ciò avverrà in tempi brevi e con piena soddisfazione da parte tua, ma non possiamo correre il rischio di ritrovarci in piena campagna elettorale con un rinvio a giudizio». C’è del veleno nella coda: lo scorso febbraio si sono chiuse due inchieste che hanno coinvolto il sindaco, una sul caso dei famosi scontrini e l’altra sui contratti di consulenza per la onlus Imagine della quale era presidente. C’è il rischio di un rinvio a giudizio, forse due. Garantisti o no, è evidente che non sarebbe un buon inizio della campagna elettorale.
La mossa dei trenta vendoliani è di fatto un assist al candidato Stefano Fassina, che da sempre chiede le primarie in caso di altri nomi in campo. Ma per celebrarle ora si scopre che c’è un problema: in queste ore si sta mettendo a fuoco che fra Fassina e Marino ci sono differenze di programma. E non di dettaglio, come spiega l’ex pd Alfredo D’Attorre: «Ci sono opinioni differenti sulla gestione del debito di Roma, sul nuovo stadio, sulla politica delle privatizzazioni. Ma è una discussione di merito, sono certo che entro 48 ore arriverà una soluzione». Ma intanto l’ex sindaco sconvoca l’appuntamento di ieri sera. Restando sulle generiche per il futuro. «Non c’è alcun incontro in programma», spiegano i suoi. Non negando l’intenzione di candidarsi comunque, anche autonomamente alla coalizione di sinistra che lo corteggia. Marino è convinto di essere la miglior carta contro il Pd. Fassina pensa di no, ma sa che se l’ex sindaco decidesse di correre si porterebbe via una fetta dell’elettorato antirenziano. Un rebus. I due si potrebbero rivedere presto. Ma intanto salta anche la riunione della coalizione romana, convocata per oggi con l’idea di discutere di un accordo generale. Che non c’è.
Panico nel quartier generale di Sinistra italiana, nella sinistra romana la temperatura è altissima. Paolo Cento, segretario di Sel Roma, butta acqua sul fuoco per ricucire con l’ex sindaco ma anche evitare l’implosione generale: «In queste ore Sel è al lavoro per costruire una proposta ampia e convincente per la città. Con il nostro candidato Fassina abbiamo avviato un percorso programmatico e di aggregazione. Sel considera la disponibilità di Marino un fatto importante e siamo convinti che questo percorso vada portato avanti a partire da un programma condiviso e da procedure democratiche e inclusive sulla eventuale scelta di candidature».
Ma intanto ieri notte in gran fretta si è riunita la segreteria di Sel allargata ai parlamentari per cercare un rimedio alla tensione fra ex sindaco e ex viceministro. Una tensione che poi è l’altra faccia delle divisioni interne di Sel fra sostenitori dell’uno e dell’altro. Fino a tarda serata resta il rischio di due candidature parallele. Ma entrambe le fazioni sono consapevoli che in caso di corsa separata i due candidati rischiano entrambi percentuali inservibili. Per non parlare delle probabili conseguenze su tutto il processo costituente di Sinistra italiana. Lo spazio di un accordo è stretto: Marino ha già dato dimostrazione di saper fare di testa propria. E c’è anche un’altra variabile: il rischio che ora il Pd lanci un’opa su tutta l’area, offrendo una lista arancione a sostegno di Roberto Giachetti.
PUBBLICATO DA MATERIALISMOSTORICO A 20:34
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BERTOLT BRECHT, AN DIE NACHGEBORENEN (1939)
Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!/… Ach, wir/Die wir den Boden bereiten wollten für Freundlichkeit/Konnten selber nicht freundlich sein./Ihr aber, wenn es soweit sein wird/Dass der Mensch dem Menschen ein Helfer ist/Gedenkt unsrer/Mit Nachsicht.
RESTAURAZIONE E RIVOLUZIONE PASSIVA POSTMODERNA NEL CICLO NEOLIBERALE
LEZIONI I SEMESTRE 2015/16
Le lezioni cominceranno lunedì 5 ottobre a Palazzo Albani, aula da definire.
Storia della filosofia politica (lun 11-12, 12-13, mart 12-13, merc 10-11)
La democrazia moderna tra conflitto politico-sociale e conflitto filosofico e culturale
1) Stefano G. Azzarà:Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur Editore(tranne introduzione e conclusioni).
2) Ernesto Laclau, Chantal Mouffe:Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Genova, Il melangolo, 2011 (le parti da studiare verranno indicate nei primi giorni di lezione).
3) D. Losurdo: Il revisionismo storico. Problemi e miti, nuova edizione accresciuta (con un capitolo su N. Ferguson), Laterza 2015 (le parti da studiare verranno indicate nei primi giorni di lezione).
4) Emiliano Alessandroni: Ideologia e strutture letterarie, Aracne Editrice (solo la parte sull’ideologia).
___________________
Storia moderna (lun 10-11, mart 10-11, 11-12, merc 11-12, 12-13)
Nietzsche e la politica di massa, dalla Rivoluzione conservatrice all’individualismo postmoderno
1) Stefano G. Azzarà:Friedrich Nietzsche dal radicalismo aristocratico alla Rivoluzione conservatrice. Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck, Castelvecchi (solo il saggio su Nietzsche e Moeller; escludere la traduzione dei saggi di Moeller).
2) Stefano G. Azzarà: Un Nietzsche italiano. Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario, Manifestolibri (escluse introduzione e appendice).
3) D. Losurdo:Nietzsche il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, nuova edizione rivista e ampliata (le prime 400 pp. per il nuovo ordinamento, le prime 200 per il vecchio).
4) F. Nietzsche: Genealogia della morale, Adelphi.
STEFANO G. AZZARÀ: HEIDEGGER ‘INNOCENTE’: UN ESORCISMO DELLA SINISTRA POSTMODERNA. MICROMEGA 2/2015
Limitarsi a condannare l’antisemitismo di Heidegger cercando di salvare la sua filosofia è un tentativo disperato, perché l’antisemitismo dell’autore di “Essere e tempo” non ha una dimensione naturalistica, bensì culturale: per lui ‘giudaismo mondiale’ è anzitutto sinonimo di modernità, di umanesimo. La filosofia di Heidegger va rigettata non (solo) in quanto antisemita, ma (soprattutto) in quanto intrinsecamente reazionaria
DEMOCRAZIA CERCASI: UNA CRITICA DEL POSTMODERNISMO. SOCIETÀ DI STUDI POLITICI, NAPOLI, 24 2 2015
SUL FOGLIO UNA RECENSIONE DEL LIBRO SU MOELLER-NIETZSCHE
FRIEDRICH NIETZSCHE DAL RADICALISMO ARISTOCRATICO ALLA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE, CASTELVECCHI
Democrazia Cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur
S.G. AZZARÀ: “LA SINISTRA POSTMODERNA, IL NEOLIBERISMO E LA FINE DELLA DEMOCRAZIA”
Un estratto da “Democrazia Cercasi” su MicroMega / Il rasoio di Occam
S.G. AZZARÀ: FRIEDRICH NIETZSCHE DAL RADICALISMO ARISTOCRATICO ALLA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck, CastelvecchiEditore. In libreria e in e-book
Nietzsche profeta e artista decadente? Oppure filosofo-guerriero del darwinismo pangermanista? O forse teorico di un socialismo “spirituale” che fonde in un solo fronte destra e sinistra e prepara la rivincita della Germania?
Nella lettura di Arthur Moeller van den Bruck la genesi della Rivoluzione conservatrice e uno sguardo sul destino dell’Europa.
È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e i socialisti avanzano dappertutto minacciosi e leggerlo qualche anno dopo, quando la lotta di classe interna cede il passo al conflitto tra la Germania e le grandi potenze continentali? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la Prima guerra mondiale, quando una sconfitta disastrosa e la fine della monarchia hanno mostrato quanto fosse fragile l’unità del popolo tedesco?
Arthur Moeller van den Bruck è il padre della Rivoluzione conservatrice e ha anticipato autori come Spengler, Heidegger e Jünger. Nel suo sguardo, il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce alla svolta del secolo nei panni del filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi, agli esordi della Repubblica di Weimar, diventare l’improbabile teorico di un socialismo spirituale che deve integrare la classe operaia e preparare la rivincita, futuro cavallo di battaglia del nazismo.
Tre diverse letture di Nietzsche emergono da tre diversi momenti della storia europea. E sollecitano un salto evolutivo del liberalismo conservatore: dalla reazione aristocratica tardo-ottocentesca contro la democrazia sino alla Rivoluzione conservatrice, con la sua pretesa di fondere destra e sinistra e di padroneggiare in chiave reazionaria la modernità e le masse, il progresso e la tecnica.
In appendice la prima traduzione italiana dei quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck su Nietzsche.
Il simulacro della democrazia italiana
La recensione di Damiano Palano a “Democrazia Cercasi”
HEIDEGGER IL CAMBIAVALUTE DELL’ESSERE
Intervento al convegno di Urbino “I poveri, la povertà”, 4 dicembre 2014
S.G. AZZARÀ, DEMOCRAZIA CERCASI, IMPRIMATUR EDITORE, PP. 363, EURO 16: IN LIBRERIA E IN E-BOOK
www.democraziacercasi.blogspot.it Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno svuotato gli strumenti della partecipazione popolare, favorendo una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e spingendo molti cittadini nel limbo dell’astensionismo o nell’imbuto di una protesta rabbiosa e inefficace. Al tempo stesso, in nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica e confronto sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato. Dietro questi cambiamenti c’è però un più corposo processo materiale che dalla fine degli anni Settanta ha minato le fondamenta stesse della democrazia: il riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi sociali, che nel dopoguerra aveva consentito la costruzione del Welfare, ha lasciato il campo ad una riscossa dei ceti proprietari che nel nostro paese come in tutto l’Occidente ha portato ad una redistribuzione verso l’alto della ricchezza nazionale, alla frantumazione e precarizzione del lavoro, allo smantellamento dei diritti economici e sociali dei più deboli. Intanto, nell’alveo del neoliberalismo trionfante, si diffondeva un clima culturale dai tratti marcatamente individualistici e competitivi. Mentre dalle arti figurative alla filosofia, dalla storia alle scienze umane, il postmodernismo dilagava, delegittimando i fondamenti e i valori della modernità – la ragione, l’eguaglianza, la trasformazione del reale… – e rendendo impraticabile ogni progetto di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata. É stata la sinistra, e non Berlusconi, il principale agente responsabile di questa devastazione. Schiantata dalla caduta del Muro di Berlino assieme alle classi popolari, non è riuscita a rinnovarsi salvaguardando i propri ideali e si è fatta sempre più simile alla destra, assorbendone programmi e stile di governo fino a sostituirsi oggi integralmente ad essa. Per ricostruire una sinistra autentica, per riconquistare la democrazia e ripristinare le condizioni di una vasta mediazione sociale, dovremo smettere di limitare il nostro orizzonte concettuale alla mera riduzione del danno e riscoprire il conflitto. Nata per formalizzare la lotta di classe, infatti, senza questa lotta la democrazia muore.
EMILIANO ALESSANDRONI: IDEOLOGIA E STRUTTURE LETTERARIE, ARACNE EDITRICE
Che cos’è esattamente il bello? È possibile procedere ad una sua decodificazione? Che significato racchiude il termine ideologia? E quale rapporto intrattiene con la letteratura, ovvero con le sue strutture? Come giudicare il valore di un’opera? A questi come ad altri quesiti questo libro intende fornire una risposta, contrastando, con la forza del ragionamento e il supporto dell’analisi testuale, quegli assunti diffusi (“il bello è soltanto soggettivo!”) e quelle opinioni consolidate (“tutto è ideologia!” o “le ideologie sono morte!”) che finiscono per disorientare chiunque si trovi, per via diretta o indiretta, a confrontarsi con tali problematiche. Un saggio di ampio respiro tra filosofia, storia, critica letteraria e teoria della letteratura.
CONTRADDIZIONI ED ELEZIONI
Man mano che si avvicina il giorno delle elezioni, crescono le contraddizioni in seno al popolo. Fioccano accuse reciproche di tradimento o boicottaggio e anche amicizie antiche si sfaldano.
Soprattutto chi si sottrae al sostegno verso la lista della sinistra complementare, la lista Tachipirinas, viene scrutato, sospettato e criminalizzato – a prescindere da ciò che dice – come potenziale quinta colonna del criptofascismo che starebbe per abbattersi sul paese.
Non mancano i ricatti politico-morali e le lezioncine di storia del movimento operaio, persino da parte di chi all’ultimo giro ha votato per Vendola e tutto potrebbe dare tranne consigli di coerenza o acume politico, tattica o strategia.
Consiglierei però di evitare drammatizzazioni eccessive, per tre fondamentali ragioni.
In primo luogo, la misura in cui oggi la nostra area politica può incidere sulla realtà è molto prossima allo zero. E dunque pressoché in nessun modo ciò che noi faremo, in maniera più o meno convinta o organizzata, può influire sull’esito elettorale: si tratta, per lo più, di conflitti immaginari e di scenari desiderati che si svolgono prevalentemente nella nostra testa.
In secondo luogo, è un fatto che nessuno in questa circostanza si identifica con la propria stessa scelta elettorale e tutti ne fanno semmai un uso esplicitamente e programmaticamente strumentale, mettendo in conto che le ricadute politiche del proprio voto saranno – al massimo – solo indirette.
Lo fanno quelli che pensano di votare i Verdi e l’IdV, come lo fanno quelli che pensano di votare M5S. Ci sono persino alcuni comunisti convintissimi che votano per Renzi per accelerarne la caduta; così come altri, altrettanto convinti, lo votano perché la nostra tradizione ci imporrebbe di stare dove stanno i lavoratori. Soprattutto si distinguono però in questo atteggiamento proprio le variegate componenti della lista Tachipirinas. Ciascuna delle quali, oltre ad affidare al proprio voto un intento metaforico, metonimico, eufemistico e così via, dà di questa lista un’interpretazione diversa e vi aderisce con l’intento dichiarato di fottere tutti gli altri partecipanti, che odia in maniera viscerale, e di far saltare il progetto complessivo o comunque di modificarlo in maniera sensibile.
Se sono per primi costoro a fare qualcosa per ottenere qualcos’altro, e a configurare la propria scelta come un campo di lotte, perché non possono farlo anche gli altri?
Infine, perché la vita e la storia continuano.
Calma e gesso, dunque.
E riserviamo gli anatemi a qualcosa di più serio [SGA].
LE ELEZIONI EUROPEE E ALCUNI COMUNISTI
Alle elezioni europee di domenica i comunisti – alcuni comunisti, perché altri hanno ritenuto di potersi adattare alla situazione in maniera diversa – arrivano purtroppo privi di una rappresentanza autonoma. La loro iniziativa politica è perciò inevitabilmente molto limitata e può avere un significato e un effetto reattivo e solo indiretto, che non oltrepassa l’orizzonte nazionale.
E’ inutile e inopportuno polemizzare tra noi, in questo momento, sulle ragioni di questa ulteriore sconfitta. Più proficuo è prendere atto della realtà, che pure non ci piace: non siamo stati in grado di orientare un dibattito pubblico sulla natura della costruzione del Grande Spazio continentale in regime capitalistico, né sulla collocazione geopolitica di questo Spazio. E non possiamo influire in nessun modo sui rapporti di forza nel parlamento europeo (un’istituzione, va detto, che ha comunque un ruolo politico molto limitato).
Non potendo dire nulla in positivo e forse non avendo nemmeno nulla da dire, vista la confusione generale, si tratta allora di fare quel miserabile pochissimo che in questo momento possiamo fare al fine di impedire una stabilizzazione del quadro politico interno. Ovvero per ostacolare un rafforzamento dell’investimento delle classi dominanti – italiane, continentali, atlantiche – sull’imbroglione giovane Matteo Renzi.
C’è poco di cui rallegrarsi e siamo abituati a puntare a qualcosa di più della Schadenfreude. Ma per tutta una serie di ragioni, la possibilità di incidere sul quadro politico non è nelle nostre mani e non è colpa di chi si limita a descrivere la realtà se i comunisti sono oggi privi di un’organizzazione credibile e di una proposta politica minimamente dignitosa. Avremmo voluto altro e di più ovvero avremmo voluto e ci sarebbe voluta una presenza autonoma delle posizioni antagonistiche. Ma chi ha responsabilità politiche ha deciso diversamente e in queste condizioni, possiamo solo cercare di favorire lo scenario che apre le contraddizioni maggiori ovvero possiamo fare solo ciò che i più deboli e disarmati possono fare.
Si tratta in altre parole di operare quella scelta che possa fare il danno maggiore al PD e ai suoi alleati, laddove gli alleati sono quelli attuali ma anche quelli potenziali e cioè quelli che sperano prima o poi di allearsi.Ognuno proceda secondo il gusto del momento e senza troppi scrupoli, perché altri al posto nostro non hanno avuto nessuna pietà della nostra sorte.
Che la politica sia sangue e merda del resto non l’abbiamo deciso noi, che non abbiamo voce nella scelta delle regole del gioco. E finché ci saranno un Massimo L. Salvadori o una Agnes Heller a rimbrottarci e a gridare al lupo! al lupo! dalle colonne di Repubblica – o magari un altro qualsiasi che all’ultimo giro ha votato per Vendola e adesso ci chiama populisti – saremo abbastanza sicuri della nostra scelta [SGA].
CANTANTI BARBUTE & SOTTOMISSIONE REALE.
La trasgressione delle norme e dei tabu organizzata per vie industriali dalle classi dominanti e’ una finzione di emancipazione che ha come scopo quell’indifferenza delle soggettivita’ che e’ contropartita dell’equivalente in contanti. Ed e’ un pezzo importante della rivoluzione passiva nella quale siamo immersi da decenni, importante soprattutto in un periodo di crisi strutturale.
Anche nella cooptazione c’e’ un elemento di riconoscimento. Ma e’ subalterno e del tutto funzionale alla riproduzione sistemica.
Tuttavia, ha poco senso e ancor meno probabilità di successo contrapporre alla modernizzazione regressiva che accompagna questa permanente rivolta delle elites i valori e le forme che corrispondono ad una fase precedente dello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione.
Senza nostalgie, si tratta invece di ripristinare i rapporti di forza più favorevoli che erano stati raggiunti in fasi più avanzate. Trovando forme adeguate per la loro espressione e senza cadere a nostra volta, in maniera speculare, nella trappola della diffusione industriale di immagini e di chiacchiera.
Bisogna parlare dei rapporti di produzione, non dello spettacolo del quale siamo sistematicamente indotti a parlare.
LA FESTA DELLA CONSOLAZIONE.
Ribadendo un diritto di prelazione sulle parole e sui sentimenti morali, la sinistra moderata si consola per aver dovuto taroccare i propri ideali ed essersi dovuta fare destra pur di governare.
Celebrando una vittoria di 69 anni fa, la sinistra radicale si consola della propria sconfitta e irrilevanza.
L’ultimo tratto identitario di natura ideologica delle sinistre italiane sembra essere ormai l’«antifascistismo». Ovvero non già l’antifascismo, che rimane cosa nobile, bensì la retorica dell’antifascismo a babbo morto in stile Anpi. Una retorica fastidiosa che viene diffusa da ex senatori o da aspiranti assessori in funzione propagandistica e in assenza di ogni analisi rigorosa. Sino a prestare inevitabilmente il fianco, per la sua vacuità, a tutti i revisionismi ovvero a tutti i Giampaolo Pansa che si nacondono molesti dentro di noi.
Quanto autolesionistico sia questo al lupo! al lupo! strumentale, utile al ricatto politico-morale che chiama tutti al fronte unico antifascista assieme al PD, lo dimostra il fatto che, per far finta di avere ancora dei valori e giustificare le proprie malefatte, il fascismo viene denunciato ovunque tranne dove – come in Ucraina – esiste effettivamente ed effettivamente mena.
CACCIARITE ACUTA: LA SCUOLA PRIVATA È SCUOLA PUBBLICA?
L’on. Massimo Cacciari – on. una volta, on. per sempre – mi è sempre parso un furbo illusionista come intellettuale e una furba mediocrità come uomo politico che ha interpretato in Laguna la tarda tecnocrazia piccista (Mose compreso).
Nonostante – ho l’impressione – tutti lo sappiano, viene però sempre preso molto sul serio nell’Accademia, perché ha il fisico del ruolo e perché ha ideato una sua variante del gergo heideggeriano: riesce ormai a inserire parole ieraticamente ma inutilmente corsive anche quando parla, con almeno tre corsivi per frase.
E’ uno stile molto caro alle legioni di cacciari di provincia sparse nel nostro paese: costoro vi identificano lo stile del Filosofo tout court e lo imitano con effetti a volte paradossalmente migliorativi. L’autorità del Padre cola così per tanti rivoli sul capo dei suoi numerosi Figli; che ne fanno sfoggio, compiaciuti, durante gli aperitivi o le cene a km 0, riuscendo talvolta anche a rimorchiare.
L’uomo che dall’alto del patrimonio di famiglia era stato la punta di lancia di “Contropiano” (quello operaista, non quello attuale) è però ancora più ascoltato quando recita la sua parte migliore, cioè la parte del personaggio televisivo: non solo perché è professore e ha le scuole ma perché – a differenza del povero sen. prof. Mario Tronti – possiede anche il carisma del cinico spocchioso, che buca lo schermo quando la butta in rissa (spesso), solleva l’audience e facilita l’identificazione dei fan di Massimo D’Alema.
Cosa pensate che significhi, poi, quella luce negli occhi di Lilli Gruber?
L’altra sera questo ex assiduo frequentatore del Maurizio Costanzo Show – attualmente entusiasta di Renzi come poco prima lo era stato di Letta e di Monti e su su fino a De Michelis: chi l’avrebbe mai detto? – ha sostenuto che non esiste la scuola privata, perché anche gli esamifici e le scuole dei preti sono scuole pubbliche. E lo stesso vale in effetti anche per gli ospedali e per ogni cosa che il buon Dio manda in terra.
Nel far ciò, per dare un minimo di palusibilità alla cazzata che stava dicendo, ha anche usurpato la frase di Deng sul colore del gatto senza perciò mettersi a ridere.
Non c’era bisogno di studiare tanto, né di scrivere Krisis, né di frequentare Gianfranco Miglio. Berlusconi lo dice da una vita e Mariastella Gelmini e Mara Carfagna lo hanno imparato in appena 5 minuti [SGA].
CARISMA
Il segreto del carisma e del conseguente consenso di Berlusconi – che era pur sempre un uomo che si tingeva i capelli e dunque in fondo un poveretto – stava nella sua smisurata ricchezza ovvero nella potenza ontologica del denaro. Che, come ricordava Marx citando Shakespeare, rende forti i deboli, belli i brutti, ecc. Ecc.
Il carisma di renzi si basa invece, come si addice a questi tempi che hanno perso pure il decoro del cerone, sull’effetto Mike Bongiorno, nel senso della celebre fenomenologia scritta da Umberto Eco: è cosi mediocre e insignificante che tutti possono identificarsi e sperare – se ce l’ha fatta lui – di potersi salvare.
Avranno un amaro risveglio. Saranno in pochi infatti a salvarsi.
SUL “DIALOGO SOCRATICO” CON CASA POUND
Sono stato invitato a partecipare assieme a Diego Fusaro – o dopo che lui si e’ tirato indietro: non ho capito bene la cronologia degli eventi – ad un dibattito su Marx a Casa Pound. Ecco la mia risposta.
… Come forse sapete, ho tradotto e commentato Das Recht der juengen Voelker di Arthur Moeller van den Bruck. Sto per pubblicare un libro su Nietzsche dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice che traduce 4 saggi di Moeller su Nietzsche. Ho scritto su Juenger e il socialismo nazionale. Sto lavorando a un libro su Heidegger e la “rivoluzione” nazista. Ho frequenti contatti con Marco Tarchi, che ho difeso pubblicamente piu volte, attirandomi in passato la reazione di molti miei compagni idioti. Anche sul piano biografico, nel 1991 io e i miei compagni occupammo la facoltà di lettere dell’università di messina assieme a un gruppo di filiazione ordinovista – assumendocene i rischi e mettendo in conto che ci saremmo presto scannati, come puntualmente avvenne -, perche’ altrimenti nessuno ne avrebbe avuto la forza. Inoltre sono allievo di Domenico Losurdo, che più volte ha parlato insieme a Ernst Nolte, ha difeso Garaudy, ha criticato tutte le proposte di legge contro il cosiddetto negazionismo.
Insomma non mi scandalizza affatto parlare con i fascisti.
E però conosco molto bene la storia di questi confronti e di tutti i tentativi di elaborare una “terza posizione” andando oltre destra e sinistra. Proprio la rivoluzione conservatrice weimariana, che e’ tra i miei principali oggetti di studio, ne è il prototipo.
Non si tratta certo da parte vostra di appropriarsi di Marx, che sarebbe ridicolo e impossibile. E però non si tratta nemmeno di un normale dibattito, dal quale potrebbe emergere un avanzamento della conoscenza.
Non bisogna nascondersi dietro un dito: è invece un’operazione egemonica condotta da un movimento politico che fa legittimamente il suo lavoro. Un’operazione egemonica residuale, ahinoi, visto che la guerra civile europea è finita e rispetto ai tempi del confronto tra Moeller e Radek sulla vicenda di Schlageter sia i comunisti che i fascisti sono oggi al seguito di processi più grandi di loro. Ma pur sempre un’operazione egemonica che io non posso legittimare, tanto più che questa operazione gioca con i meccanismi postmoderni della società dello spettacolo.
Sarebbe stato diverso se l’iniziativa fosse stata proposta da una realtà terza, in un luogo diverso, per un interesse conoscitivo autentico. Ma io sono un militante comunista marxista-leninista, oltre che, con tutti i miei limiti, un intellettuale.
Diverso è il caso di Fusaro.
Io gli ho sconsigliato di partecipare a questa iniziativa. Se pensa di egemonizzare voi si illude, così come si illude quando considera superata la distinzione di destra e sinistra, che non scompare affatto ma si trasforma e ridefinisce. Ma Diego non è un militante politico e non è nemmeno comunista – anzi, per quanta simpatia io possa provare per lui, e’ totalmente inconsapevole sul piano politico – e dunque può dunque fare in fondo ciò che vuole.
Per quanto mi riguarda, invece, rispetto. Ma quel tipo di rispetto che si deve tra nemici che stanno sul campo di battaglia e sono pronti a combattersi. Non certo legittimazione di quella che rimane, come ho detto, un’operazione egemonica da parte di un’organizzazione le cui idee e la cui prassi politica considero profondamente sbagliate.
BELLA, CIAO.
Lo spettacolo osceno dei parlamentari del PD e di Siderurgia & Aperitivo che evirano la democrazia parlamentare cantando Bella Ciao conferma che abbiamo perso definitivamente un’altra casamatta. E ci dice che l’uso della retorica dell’antifascismo non è più che il canto funebre dell’antifascismo stesso, un’esperienza storica di emancipazione che nel nostro Paese va oggi morendo assieme alla Costituzione repubblicana e alla democrazia nella sua accezione moderna.
Negli anni Venti e Trenta del XX secolo, intrecciata al conflitto politico-sociale, si è svolta una lotta egemonica furibonda per il significato delle parole. Volk, Arbeiter, Sozialismus…: ancora forte della fame, della spinta ascendente dei propri miti rivoluzionari e alla testa di un processo storico impetuoso che abbracciava tutta la Terra, il movimento operaio e democratico è riuscito a respingere l’ultimo colpo di coda del vecchio ordine e – pur avendo subito in Europa delle gravi sconfitte – a difendere il significato che queste parole avevano assunto dal 1848 in avanti.
Non è stato così nel dopoguerra, quando proprio l’attenuazione del conflitto, la presenza di rapporti di forza più favorevoli e lo sviluppo delle forze produttive hanno favorito una progressiva identificazione dell’antifascismo con il ben diverso concetto di “antitotalitarismo” proprio del Mondo Libero. Non a caso, oggi la potenza antifascista per definizione – che è anche quella potenza che per definizione è in grado di imporre i nomi – sono gli Stati Uniti e il pericolo principale viene da questi indicato nel “fascismo” islamico come nel “fascismo” dei nuovi Hitler di volta in volta costruiti dall’industria mediatica del consenso.
L’esito della Guerra Fredda ha fatto il resto. E nel costume di casa di questa semicolonia, quel termine, che ha prevalentemente una funzione simbolica compensativa (allevia il dolore e la vergogna per dover votare qualunque porcheria), è oggi anche lo strumento politico-morale che fornisce il titolo di legittimità per la manipolazione assoluta della verità. E per l’espulsione dell’avversario dallo spazio sacro della civiltà e del politicamente corretto nel mare barbaro dell’abiezione, della volgarità, praticamente del terrorismo.
Siamo costretti a obiettare e faremo perciò di tutto per difendere il significato delle parole. Ma non riconquisteremo mai più il concetto di antifascismo. Facciamocene una ragione [SGA].
LA DEMOCRAZIA MODERNA IN ITALIA HA ESAURITO IL SUO TEMPO
Con l’accordo PD-Berlusconi comincia l’epoca del monopartitismo competitivo consolidato
La democrazia – nella sua forma moderna, sensibilmente diversa da tutte le altre forme e non assimilabile semplicisticamente al “comitato d’affari” marxiano – è un modello storico di regime politico che nasce cresce e muore in condizioni determinate. Ciò che la tiene in vita è l’equilibrio relativo tra le classi, ovvero il conseguimento attivo di rapporti di forza tra le articolazioni fondamentali della società che non siano eccessivamente squilibrati. Ovvero ancora, per semplificare, la capacita delle classi subalterne di organizzarsi nelle forme più diverse – da quelle politiche e sindacali a quelle associative a quelle della cooperazione sociale -, di esercitare con energia il conflitto e di incalzare tramite questo conflitto i ceti dominanti. Competendo al tempo stesso per l’egemonia a partire dall’elaborazione di un rispecchiamento autonomo dei propri interessi e bisogni.
Democrazia moderna – che ovviamente è cosa diversa anche dal socialismo ma nel senso che non lo è ancora – è dunque conflitto politico-sociale organizzato e consapevole.
Quando per tutta una serie di ragioni queste classi sono state schiantate e travolte da una sconfitta organica di sistema, che va dal politico all’economico all’immaginario, e da una conseguente rivoluzione passiva, comincia una lunga fase di ritirata difensiva nelle quali fornire risposte politiche che siano all’altezza del conflitto in atto è sempre più difficile. Quando poi – in ragione di un’analisi errata divenuta falsa coscienza necessaria – la loro organizzazione storica adotta tragicamente una strategia di riduzione del danno, rinunciando a priori ad ogni conflittualità antagonistica e assecondando questo processo di slittamento a destra del quadro complessivo invece di contrastarlo, la democrazia moderna è finita. Da questo momento, nella circolazione antagonistica della società, il conflitto è agito quasi solo in maniera unidirezionale, dall’alto verso il basso, e all’interno delle classi stesse, ma non più – o in maniera del tutto inadeguata – dal basso verso l’alto.
Nata solo dopo il 1945, alla fine della Seconda guerra dei Trent’anni, essa cessa perciò di esistere nella sua forma moderna e prende quella postmoderna. Per poi assumere nuove forme sempre più “autoritarie”: non certo nel senso del fascismo ma nel senso di un bonapartismo soft che si modella secondo le esigenze dell’apparente oggettività economica e tecnica e che si fa forte delle capacità di manipolazione del reale e delle coscienze offerte dalla società dello spettacolo.
Nella semicolonia statunitense italiana, che e’ anche un laboratorio mondiale per la sua storia, per la particolare fragilità di tante sue strutture e per la sua posizione geopolitica, la democrazia moderna è in via di cessazione e la deriva PCI-PDS-DS ne è da tempo – dall’inizio degli anni Novanta, non solo da pochi mesi – l’accompagnamento. Questo ci obbliga a un ripensamento della nostra identità e delle nostre forme politiche e organizzative del quale non siamo capaci, visto che sinora non siamo nemmeno stati in grado di ripensarci fuori dallo schema bipolare. Figuriamoci se lo siamo nel momento in cui si fuoriesce da un quadro di democrazia piena.
Le forze di sinistra complementare, come SEL e in generale quelle forze che si collocano o vorrebbero collocarsi nel centrosinistra, hanno e avranno sempre più un ruolo di pressoché esclusiva compensazione sistemica e saranno relegate in una dimensione operativa meramente simbolica (fornire una consolazione immaginaria a una sconfitta e ad un’inconcludenza reale, sventolando bandiere variopinte ma inutili).
Le forze di alternativa – che solo dal 2008 hanno cominciato a scontare le conseguenze di una sconfitta avvenuta quasi 20 anni prima e che nei prossimi anni andranno incontro ad ulteriori scomposizioni e ricomposizioni prima di trovare un assetto organizzativo unitario – sono invece attese da decenni di lavoro oscuro e privo di soddisfazioni. Il che non vuol dire la clandestinità ma un ruolo di inevitabile insignificanza, se misurato con i parametri ai quali siamo abituati [SGA].
VANDEE E MONTAGNE
Non c’è solo un opportunismo moderato e governista. Questo è certamente l’atteggiamento che più danni ha prodotto nel recente passato. Ma ce n’è anche uno – spesso ma non sempre conseguenza reattiva del primo – che preferisce la furia del dileguare alla pedagogia dell’ordine nuovo e nel suo vitalismo di stampo soreliano trae energia dal mettersi alla coda di tutto ciò che si muove.
Avendo anch’esso disimparato la grammatica della politica, e non sapendo più leggere la propria storia, questo vede in ogni ribellismo un’insurrrezione, in ogni Vandea una Montagna, in ogni evasore fiscale incattivito dalla crisi un contestatore del potere totalitario dello Stato, in ogni Lumpen un soldato rivoluzionario.
Non è la prima volta che questo accade: il nostro Novecento è pieno di episodi simili. E del resto il significato politico dei movimenti di massa – perché è ovvio che di questo si tratti, come è ovvio che in essi vi sia un terreno di scontro egemonico – non è mai univoco e persino le stesse parole d’ordine mutano di senso secondo il contesto, la presenza o l’assenza di un soggetto politico consapevole e organizzato, i rapporti di forza, la direzione di marcia del conflitto.
Finché non saremo in grado di ricostruire una prospettiva teorica e culturale che ci restituisca la nostra autonomia, saremo esposti ai quattro venti e la realtà si prenderà gioco di noi. Ogni altra cosa rimarrà secondaria, per molti decenni.
BENVENUTI TRA I RELITTI DELLA STORIA. ERANO 22 ANNI CHE VI ASPETTAVAMO
La sinistra italiana non muore oggi, con la vittoria di Matteo Renzi e la calata dei barbari deculturati e opportunisti. La sinistra italiana ha cominciato a morire ormai molti anni fa, quando – in seguito ad un cambio di fase nel modo di produzione capitalistico e ad una sconfitta strategica di proporzioni rivelatesi bibliche – invece di fermarsi e ripensare le proprie ragioni e le nuove forme possibili del conflitto politico-sociale, ha preteso di governare processi molto più forti di lei confidando nelle virtù salvifiche di una cittadinanza che però nulla è e nulla può senza la forza del lavoro. Processi che erano causa e conseguenza ad un tempo della tragedia dei propri ceti sociali di riferimento e di nuovi terribili rapporti di forza e che mai il mito anglosassone della società civile e delle pari opportunità, né tantomeno quello di un’incerta governabilità fine a se stessa, potevano sanare.
L’illusione di ridurre il danno comincia gia’ negli anni Ottanta e comincia proprio presso la sinistra colta e raffinata, quella di Botteghe Oscure e delle amministrazioni rosse, delle Università e delle grandi redazioni, delle case editrici e della miriade di corpi intermedi collaterali che il PCI aveva saputo costruire in anni pionieristici. E dopo la caduta del Muro diventa l’unico orizzonte politico di un soggetto – e dei suoi satelliti subalterni – che non è stato nemmeno in grado di darsi un’impostazione dignitosamente laburista o socialdemocratica. Cosi, mentre tutto attorno cambiava al ritmo accelerato dello spettacolo postmoderno e tutto si confondeva in un sincretismo atemporale, le classi subalterne perdevano in pochi anni, in cambio della libertà claustrofobica del sogno del consumo di massa, gran parte delle posizioni conquistate nel cinquantennio precedente. E i loro partiti e il loro sindacato, invece di elaborare le nuove condizioni di una drammatica resistenza di lunga durata, le accompagnavano in questo arretramento. Slittando sempre piu’ a destra assieme al quadro politico complessivo. Operando scelte politiche e culturali che redistribuivano ricchezza, potere e idee dal basso verso l’alto, dai piu deboli ai più forti.
Lasciando spazio alle più improbabili bizzarrie. Mutando nel senso non del normale e inevitabile mutamento storico, ma in quello del far proprie le ragioni dell’avversario. Adeguandosi cioè ad una vera e propria controrivoluzione che costituiva anche una distorsione irreversibile della costituzione repubblicana.
Renzi nasce in quel momento ed e’ dunque legittimo erede di quella stagione. Del migliorismo della Guerra Fredda, delle incertezze dello stesso Berlinguer, della degenerazione del tardo togliattismo e poi delle infatuazioni bonapartiste, leaderiste, privatizzatrici, ma anche della vacuità e del formalismo che è tipico del movimentismo radicaloide.
Matteo Renzi è pienamente legittimato, dunque, perché lui e’ esattamente la Bestia che tutti hanno evocato e preparato nel corso di molte stagioni e che chiede il conto e se li porta via.
Quanti decenni ci vorranno, adesso, per imparare di nuovo l’ortopedia del camminare eretti? [SGA].
GIANNI CUPERLO, IL PADRE DI MATTEO RENZI
Gianni Cuperlo è quanto di meglio la tradizione politica che viene dal PCI poteva presentare, per un ultimo tentativo di salvare in extremis la propria storia e il proprio futuro. Unisce all’intelligenza politica e al metodo di ragionamento una profondità dello sguardo che lo porta forse ad un livello superiore rispetto allo stesso D’Alema. Si vede benissimo la scuola che c’è dietro il suo pensiero e la tragedia che essa ha affrontato.
Purtroppo, questa scuola si vede benissimo anche dietro la sua prassi politica: la lucidità di analisi si coniuga con una insuperabile pavidità e un realismo malinteso, che costringe lui e quelli come lui a fare sempre – per “senso di responsabilità” e per quell’equivoco auto-indulgente che grava sul tardo togliattismo – esattamente il contrario di ciò che andrebbe fatto e di ciò che dicono. Varando e sostenendo ad esempio, come se fosse una necessità di natura, un governo le cui scelte vanno in direzione opposta a quella che sarebbe razionale intraprendere al fine di affrontare la crisi economica e alleviare la gravità della questione sociale.
Questo inutile e non richiesto sacrificio a tutto vantaggio del nemico si è visto anche ieri sera. Proprio perché Cuperlo è icona perfetta di un’idea al tramonto, spiace vederlo umiliarsi così. Perché nella sua autoflagellazione è proprio questa idea che si umilia: sembrava ogni tanto di percepire in controluce Berlinguer – il suo linguaggio, il suo argomentare – che accettava di farsi mettere il cerone e il rossetto per salire su un palcoscenico e improvvisare un cabaret. E l’impressione era che ci fossero almeno due mondi apparentemente inconciliabili: c’era un ultimo rigurgito di Novecento e c’era la prosecuzione dell’Impero della Plastica con nuovi protagonisti.
Tuttavia il problema non sta solo nel fatto che quando accetti il terreno di gioco dell’avversario il più delle volte hai già perso. Non va mai dimenticato, infatti, il punto principale: è stata proprio la tradizione politica del PCI ad averci condotto a questa catastrofe.
Quando Cuperlo ieri auspicava una nuova centralità dell’intervento pubblico e criticava le privatizzazioni, Renzi ha avuto facilissimo gioco nel metterlo in imbarazzo ricordandogli la svendita della Telecom, regalata da D’Alema a una banda di prenditori straccioni.
E così lo ha schiantato.
Solo in apparenza Renzi viene da un’altra storia: è invece, in tutto e per tutto, figlio di D’Alema, figlio dello stesso Cuperlo.
Adesso, è giusto che se li porti via entrambi, insieme a molti altri.
RESISTI
Non lasciarci soli con il PD.
CHI DI MODERATISMO E SUBALTERNITÀ POLITICO-CULTURALE FERISCE, DALLE STESSE ARMI VIENE UCCISO
Ricordo quando Spezzaferro si vantava dell’amicizia di Blair e Clinton.
Oggi amici ed ex compagni che sono nel PD e dintorni ma – per quanto questo possa essere paradossale – si sentono di sinistra e addirittura rivendicano l’eredità del PCI, temono l’arrivo di Renzi come la calata dei barbari.
E’ un bene.
Potranno capire meglio come si sono sentiti, in passato, quelli che loro stessi – con la spocchia che veniva loro dall’appartenenza al maggior partito della sinistra – hanno emarginato e continuano ad emarginare come relitti della storia.
Dopodiché, come sempre, correranno in soccorso del vincitore.
COSTANZO PREVE
E’ stato uno dei più importanti filosofi marxisti della fine del Novecento. Ha smesso molto presto di raccontarsi e di raccontare storie. Come pochi, invece, ha spiegato le ragioni della nostra sconfitta. Come pochi ha misurato quanto avanza il deserto – fuori e dentro di noi – e ha mostrato quanto sia difficile contenerlo. Ed è stato un uomo. Con una consapevolezza di sé e del proprio lavoro sufficiente a consentirgli di non scambiare la dignità con la cooptazione. Non di tutti si può dire lo stesso [SGA].
URBINO CAPITALE?
Urbino esclusa dalla candidatura a Capitale della cultura 2019, con conseguente sindrome di Calimero e le consuete teorie complottiste che prosperano in ogni provincia che si crede l’ombelico del mondo.
Strano però, a pensarci bene.
Calore umano. Spirito di accoglienza. Vivacità culturale. Capacità progettuale e imprenditoriale. Un’università modernissima e democratica. Classe dirigente acculturata e lungimirante.
Soprattutto, una serie di capolavori di architettura contemporanea che si integrano con i monumenti del passato e con la bellezza del paesaggio.
SIDERURGIA & APERITIVO
Ricordo quando quelli di Sinistra & Aperitivo – dall’altro ieri Siderurgia & Aperitivo – stavano ancora dentro Rifondazione, prima di diventare la lista civetta del PD. Sentendosi raffinati e cosmopoliti, facevano spesso la lezioncina e spiegavano ai materialisti rozzi e volgari quanto fosse obsoleto e novecentesco il produttivismo della tradizione socialista e quanto poco centrale fosse ormai il lavoro. E così facendo si riempivano la bocca di questione ambientale e decrescita felice, nuovi paradigmi e sostenibilità varie di questa minchia. Ora si scopre il segreto di Pulcinella, e cioè che non hanno la minima idea di come affrontare la contraddizione tra lavoro e ambiente, che Vendola è un imbroglione come tutti e che hanno utilizzato la Fiom di Landini – ben lieta di prestarsi alla bisogna, a quanto pare – come cane da guardia dell’Ilva.
Non c’è da stupirsi. La sinistra italiana è proprio questa.
SEMICOLONIE E SVILUPPO DISEGUALE
Con il solito trentennio di ritardo, l’Italia vive da circa un lustro il compimento dell’ondata di psicosi da politicamente corretto a suo tempo assorbita da altri paesi capitalistici avanzati, Stati Uniti in testa. Un’ondata le cui premesse sono state impostate alla fine degli anni Settanta e che impone ora la replica di tutte le parti in commedia.
Peccato che questa ulteriore sintonizzazione dell’autocoscienza degli stili di vita e di consumo alle esigenze del capitalismo postmoderno avvenga quasi fuori tempo massimo e cioè in piena recessione. In queste condizioni, con ben poco a cui aspirare o da redistribuire, svanisce ogni ricaduta emancipativa di queste istanze e rimane pressoché solo l’effetto di diversione di massa. Ovvero l’effetto consolatorio e frammentante di un riconoscimento di parzialità che rimane quasi interamente nell’ambito del simbolico. E che di tale sfera conserva i tratti più estremizzati e folcloristici – vorrei usare un’altra parola ma sento già potente la coazione all’autocensura – anche quando non ce ne sarebbe più bisogno, visto che sempre e solo di autocoscienza stiamo parlando (mentre la prassi nell’essere sociale è già un bel pezzo avanti e nella sostanza si è lasciata alle spalle l’epoca nella quale i confini tra i gruppi sociali venivano sovrascritti o sovradeterminati da forme di discriminazione come quella sessuale).
Anche dal punto di vista del Capitale il bilancio non sarà granché grasso: a meno di eventi turbolenti, non è prevedibile un’espansione dei consumi, nei prossimi secoli. Al fondo, rimane soprattutto la rottura di balle e una nuova forma di accesso lottizzato alla visibilità sociale.
SUPERIORE INTELLIGENZA STRATEGICA.
Spezzaferro spiega che “se non vogliamo che siano [Assad e Putin] a vincere la partita”, Vendola nero deve fare come a suo tempo fecero lui e Clinton con Belgrado: accompagnare con “la politica” – allora “il ritiro dei serbi e l’indipendenza [del Kosovo]”, oggi lo smembramento della Siria e il rovesciamento del suo governo – il necessario ed affettuoso bombardamento umanitario, al quale si continua a fare più di un pensierino.
Seppellito con ciò il povero Obama, il leader che dà del tu alla figlia di Berlinguer e che ha saputo donarci Velardi e Rondolino scrive la parola fine su ogni velleità dell’ultimo segretario della FGCI: “Cuperlo è il personaggio di maggior spessore culturale e il segretario del nostro partito deve essere così: uno davanti al quale la gente tace perché si aspetta di sentire cose che non sa”.
Chiude minacciando di fare ai giornalisti “una lezione sul Medio Oriente”.
Quella della superiore intelligenza, o quantomeno intelligenza politica, di Massimo D’Alema è ovviamente una cazzata. Ma è una cazzata interessante da studiare nell’ottica della storia delle idee, perché il segreto del suo successo parla di tutti noi, della nostra sconfitta, di ciò che ci hanno lasciato i nostri padri o fratelli maggiori: è l’autoassoluzione di una generazione che ritiene che l’aver fatto parte della FGCI negli anni Settanta le garantisca vita natural durante di rappresentare il cammino della ragione nella storia. Una generazione che ama la dialettica perché la interpreta come un marchingegno logico che le consente di far passare anche i propri errori più marchiani come la volontà dello spirito del mondo.
Per seguire il loro stesso ragionamento, è ora necessario che un destro dichiarato come Matteo Renzi se li porti via tutti, affinché questa storia abbia fine e con essa abbia fine un equivoco che impedisce ogni minimo spiraglio di ricostruzione.
ELOGIO DELL’AMMUÌNA
Tutta la portata storica della devastazione culturale che si è incarnata a suo tempo nella figura empirica di Fausto Bertinotti (una figura che di per sé è stata e rimane insignificante e pleonastica) è riassunta in questa frase, appena diffusa da uno degli organi di propaganda di Nichi Bugia: “è rivoluzione ogni sommovimento dell’ordine esistente che dà vita ad un ordine nuovo”.
Il discorso sarebbe lungo da fare e si potrebbero individuare con precisione tutte le ascendenze politiche che stanno a monte di queste parole, tanto fatue quanto pretenziose. Il fatto essenziale è che con questa definizione qualsiasi mutamento politico-sociale potrebbe essere definito come rivoluzione, anche la presa del potere da parte delle SS.
Qui non c’è ovviamente nessun fiancheggiamento di derive destrorse e anzi si fa professione di libertarismo nella versione che ne dà la sinistra cazzara italiana ovvero di liberalismo evirato. Ma c’è invece una totale adesione al ritmo incalzante delle compressioni spazio-temporali della società postmoderna, nella quale il movimento è fine a se stesso e non sono i contenuti – precisi contenuti, intenzioni e strategie che indicano una direzione di marcia – a definire la rivoluzione ma la sua mera forma vuota di mutamento.
Tutto questo è ormai senso comune in quella che è stata la nostra parte.
CONTESSA
La contessa Boldrini non è affatto “un oggetto di arredamento del potere”, come sostiene certa rozza fenomenologia.
Sul piano simbolico ella è semmai un elemento costitutivo fondamentale del “potere”, ovvero – per evitare banalità anarcoidi – dell’ordine semicoloniale vigente e delle sue gerarchie di comando in ambito nazionale. E lo è in quanto di questo ordine rappresenta la dimensione morale della legittimazione (in particolare in quanto icona di donna – impegnata oltretutto in una sorta di iper-cura globale pseudouniversalistica – cooptata nei centri di trasmissione delle decisioni).
PROGRAMMI 2013/14
Storia della filosofia politica
Scienze dell’Educazione I anno: I semestre
Programma
mart h. 11-13 aula grande Dip / merc h. 11-12 D2 Albani / giov h. 11-12 D2 Albani
Storia moderna
Formazione primaria IV anno indirizzo elementare: I semestre
Programma
lun h. 11-13 / mart h. 10-11 sempre aula grande Dip
STEFANO G. AZZARÀ: ERMENEUTICA, “NUOVO REALISMO” E TRASFORMAZIONE DELLA REALTÀ
Una radicalizzazione incompiuta per la filosofia italiana – Rivista di Estetica, 1/2013
DUE GIORNATE DI SEMINARIO SU ERNESTO LACLAU A URBINO. 21 NOVEMBRE
DUE GIORNATE DI SEMINARIO SU ERNESTO LACLAU A URBINO. 22 NOVEMBRE
L’ISTITUTO DI FILOSOFIA DEVE VIVERE. RISPOSTA A OCONE
L’Istituto italiano per gli studi filosofici, i compiti dello Stato nella promozione della cultura e i rischi di un ostracismo a senso unico: Stefano G. Azzarà Reset on line 19 settembre
STEFANO G. AZZARÀ: L’HUMANITÉ COMMUNE, ÉDITIONS DELGA, PARIS
Une critique anticonformiste de l’histoire du mouvement libéral qui remet en cause ses théoriciens principaux ainsi que les développements et les choix politiques concrets des sociétés et des États qui s’en réclament ; une grande fresque comparative, où la mise en confrontation entre le libéralisme, le courant conservateur et le courant révolutionnaire au cours des siècles, fait sauter les barrières de la tradition historiographique et dévoile le difficile processus de construction de la démocratie moderne ; l’essai d’une théorie générale du conflit qui part de la compréhension philosophique, dialectique, du rapport entre instances universelles et particularisme ; mais aussi, une application radicalement renouvelée de la méthode matérialiste historique à travers la revendication de l’équilibre entre reconnaissance et critique de la modernité. Ce sont là les idées directrices du parcours de recherche de Domenico Losurdo, l’un des principaux auteurs italiens contemporains d’orientation marxiste, déjà connu en France à travers des ouvrages comme Heidegger et l’idéologie de la guerre (PUF 1998), Démocratie ou bonapartisme (Le Temps des Cerises 2003), Antonio Gramsci, du libéralisme au « communisme critique » (Syllepse 2006) et Fuir l’histoire ? (Delga – Le Temps des Cerises 2007).
CRISI DELLA CULTURA DI MASSA, POSTMODERNISMO E NECESSITÀ DELLA MENZOGNA, “MARXISMO OGGI”, 1-2/2011
SECONDA EDIZIONE 2013
Stefano G. Azzarà: Un Nietzsche italiano. Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario, manifestolibri, Roma 2011
IN LIBRERIA
Stefano G. Azzarà: L’imperialismo dei diritti universali. Arthur Moeller van den Bruck, la Rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa, con la prima traduzione italiana de “Il diritto dei popoli giovani”, di A. Moeller van den Bruck, La Città del Sole, Napoli 2011
DIALETTICA, STORIA E CONFLITTO. IL PROPRIO TEMPO APPRESO NEL PENSIERO
Presentazione della Festschrift in onore di Domenico Losurdo – VII Congresso della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, Urbino, 18-20 novembre 2011
STEFANO G. AZZARÀ: SETTLING ACCOUNTS WITH LIBERALISM
Historical Materialism 19.2
L’INTERVENTO DI STEFANO G. AZZARÀ AL CONVEGNO DI URBINO SUL COMUNISMO
SOCIALISMO NAZIONALE,INTEGRAZIONE DELLE MASSE E GUERRA NELLA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE
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